Orgasmo
di
Yuko
genere
etero
Il giovane che si trova ora tra le mie cosce è proprio bravo.
Ha una lingua che sembra un pennello, e mi sta dando una mano dietro l'altra con maestria sopraffina.
Dev'essere un cultore del clitoride, uno che ha proprio il piacere di fare le cose bene.
Con le mani mi tiene le cosce belle aperte, come un pollo alla diavola sulla sua griglia.
Incredibile come le cosce di una donna si riescano ad aprire, proprio come un libro. Con un po' di allenamento si riescono anche a raggiungere e superare i fatidici 180° ed arrivare a mettersi in una posizione, come dire... protrudente. Una postura in cui la passera viene esplosa in fuori ed è facile preda di chi ne voglia fruire.
Ma io non ne sono capace.
Sarà pure la struttura delle anche e del bacino, evolute per adeguarsi al parto.
Sta di fatto che quando mi pigiano le ginocchia allargandomi le cosce, mi sento sussultare.
Come se il clitoride sporgesse in fuori. La vulva si espone e la bocca che se ne nutre ha buon gioco, è facilitata nel suo nobile lavoro.
Ogni tanto mi sento accarezzare le superfici interne delle cosce. Il ragazzo ci sa fare, vuole lasciare un'ottima impressione. Lavora quasi come una donna.
Il mio respiro è regolare, lunghi sospiri che talvolta lasciano spazio ad un gemito di piacere.
La sveglia stamattina non è stata troppo brusca. Le 6.30 mi sono sembrate un buon compromesso.
Un'escursione scialpinistica in dolomiti il 16 aprile è un po' una contraddizione in termini.
Ma quest'anno è eccezionale sotto molti punti di vista e allora nel giorno di riposo, sono di nuovo qui, con gli sci, le pelli di foca e tutto l'armamentario.
Non potendomi muovere fuori provincia, la metà prescelta è la Marmolada.
Esposta a nord, la cima da raggiungere supera i 3200 metri; 1200 di dislivello e partenza già in alto, dalla diga del Fedaia a 2000 metri.
Il meteo dà bello fino alle due, e comunque, in aprile, dopo le 12, anche in alto e sul versante nord, la neve rischia di diventare una marmellata impossibile da sciare. Ovviamente se non crolla tutto il pendio seppellendoti sotto una gigantesca slavina.
Ma ora siamo 8 gradi sotto zero e la neve è solo di due giorni. Almeno 50 cm di fresca, e questa occasione non me la devo lasciar sfuggire.
L'allenamento non è male, ma nelle ultime tre settimane, tra area rossa in lock down e brutto tempo sono stata ferma e forse ho perso qualcosa.
È il primo “3000” della stagione. Spero di non scoppiare.
La salita è faticosa, ma si procede bene.
Uno spettacolo.
Una distesa di neve immacolata, luminosa, incandescente, punteggiata di rari alpinisti che sulla superficie abbagliante, per contrasto, appaiono come figure nere. In lontananza i colori sono inghiottiti dal bagliore ed è tutto in bianco e nero, sulla superficie del ghiacciaio.
Mentre arranco i cristalli brillano intorno a me, come un firmamento celeste precipitato fra le distese di neve. Centinaia di riflessi ammiccano al mio lento e rispettoso incedere.
Sono da sola in questa gita, ma per fortuna ci sono in giro altri scialpinisti.
Mentre salgo le cime del Sassolungo e del Sella, gialle di caldo calcare tra le merlettature bianche e azzurre della neve, si innalzano sopra le rocce in primo piano e poi se ne distaccano.
Tofane, Croda Rossa, Lagazuoi, Puez, Antelao, i vassalli si presentano secondo il grado che definisce la loro nobiltà, e, mentre continuo a salire, si inchinano al cospetto di sua maestà la regina delle dolomiti, a seconda della quota che via via raggiungo.
La mia salita non è passata inosservata. Una donna da sola è merce rara e, sugli sci, ancora più inconsueta. Gli occhiali da ghiacciaio mi mascherano gli occhi. Se sapessero che addirittura c'è un'asiatica in salita solitaria, ci sarebbe da segnarsi la data. Mosche bianche.
Mi salutano e io li risaluto.
Poche parole essenziali, il fiato è poco e non c'è spazio per la futilità.
“Ciao”
“Ciao”
“Grazie”
“Ma figurati”
Chi è più lento cede il passo a chi è più veloce, spostandosi dalla traccia.
Qualche foto, un sorso d'acqua, una caramella ogni tanto.
Le persone si parlano ad intervalli, la quota e la fatica interrompono l'eloquio. Frasi mozze lasciano il posto a respiri affannosi, come in dialoghi durante esplorazioni su pianeti diversi, o nelle profondità marine.
Mezzo metro di neve fresca. Le bacchette affondano talvolta fino al manico.
Se prima non si stacca tutto il pendio, precipitando a valle, mi preparo all'idea di una discesa da fiaba, e questo ripaga la fatica delle ultime decine di metri. Sopra i 3000 metri e con l'allenamento ridotto all'osso, ogni passo è una sofferenza.
Ci muoviamo come incontro alla nostra crocifissione sul Calvario. Gli alpinisti si fermano spesso, io mi appoggio sulle bacchette col petto, per ritrovare il fiato. Saliamo faticando e sbanfando, ognuno trascinando la sua croce, verso il proprio personale supplizio.
L'eccitazione cresce, mi prendo in mano le tette, me le tocco e me le strizzo. Mi strofino i capezzoli, mentre sento avvicinarsi il momento del non ritorno.
La sensibilità ai genitali continua a crescere, è come se l'onda del piacere si propagasse e dal clitoride si diffondesse a tutta la pelvi, agli inguini, al sedere.
Mi risale dentro il ventre con movimenti serpiginosi, mi raggiunge i seni dall'interno e mi annulla ogni altra percezione del cervello.
Tutto il mio corpo e la mia mente stanno convergendo verso l'attimo del sommo piacere, non c'è più spazio per ogni altra sensazione, ogni afferenza sensitiva che non sia mirata ad accrescere e modulare il mio piacere sessuale.
Mi tiro una tetta per cercare di leccarmi un capezzolo, con un po' di determinazione so che ce la posso fare; siamo giusto al limite delle dimensioni, ma ce la faccio. Mi lecco e mi succhio, mentre tra le cosce sta per esplodere l'eruzione dell'Etna.
Vorrei che una mano mi accarezzasse le ascelle, una lingua mi leccasse i capezzoli, un dito mi entrasse anche da dietro. O qualcos'altro al posto del dito.
Tu non smettere con quella lingua, quel frullatore sul clitoride, quel mollusco che mi perseguita e mi eccita, che obnubila la mia mente e le mie percezioni.
Il ventre mi si agita in piccole scosse. Il corpo si protende verso colui che lo sta stimolando. Vuole unirsi nell'atto sessuale, vuole essere penetrato e riempito.
Ho bisogno di sentire cose dentro di me, il mio capezzolo fra le mia labbra, due dita in bocca che poi porto al sedere, la lingua che ora alterna morbidi pennellate sul clitoride a penetrazioni vaginali.
Il respiro, da profondo e ritmato diventa irregolare, tende a bloccarsi anticipando piccoli sussurri dell'estasi, quando l'orgasmo ti esplode fra le cosce e ti possiede come un demone, ti sconquassa il respiro, ti strappa gemiti ed urla che non puoi trattenere. Ti irrigidisce le cosce, ti storce il capo, ti contrae la schiena, ti distende il petto esponendo il seno, ti spalanca la bocca alle urla che non riesci a contenere.
Quel seno in cerca di mani, bocche, lingue, quel seno che vuole essere preso, strizzato, graffiato.
Il giovane lecca senza fretta, mi sta preparando all'orgasmo, la tensione cresce e lui sa controllarne l'ascesa, per espandere il momento, per estendere quell'attimo all'infinito.
Il punto del non ritorno.
Con fatica, con rabbia, con determinazione.
Sono in cima.
La cima è l'apice della sofferenza e la sua naturale resa.
Ora non ho più nessun posto in cui andare. Più in alto non si va.
Di colpo la sofferenza cessa, devi solo respirare e guardarti in giro, goderti il frutto della tua fatica.
Quello che non potresti mai goderti salendo con una funivia o una strada.
Ce l'hai fatta ancora, e con le sole tue forze.
Riuscirò a sciare in discesa, in questa neve profonda? Mi terranno le gambe?
Mi tolgo gli occhiali da sole, mi aggiusto i capelli sotto la fascia elastica e mi copro.
Un'altra ragazza, poco lontano, si toglie il pile e resta in top, le spalle nude, i fianchi di tenera pelle esposta ora alla brezza che si è caricata di freddo sulla neve. Rapida si mette indumenti asciutti preparandosi alla discesa.
Io no. Potrei morire di freddo al solo pensiero, e poi c'è troppa gente. Un conto è scrivere di mignotterie, ma nella vita reale sono tutta un'altra persona.
Mentre recupero le forze mi preparo al piacere della discesa.
Ultimi gesti strappati alla fatica: staccare le pelli di foca e ripiegarle, ghiacciandosi le mani nella neve, allacciarsi gli scarponi in modalità discesa, adattare gli attacchi degli sci, coprirsi mani, collo e capo. In caso di volo, in questa neve polverosa, un bagno completo è garantito, come pure lo shock termico.
Mi trovo in quel momento particolare in cui tutto si inverte. Il nero diventa bianco, la salita ripida e faticosa diventa una discesa ripida e inebriante, una sequenza di movimenti in serpentina sugli sci, un orgasmo che si protrarrà per tempi infiniti.
Salita – discesa, molto semplice.
Tutto si inverte. Bruciare i metri in discesa, aleggiare come sospesi nelle spire della fitta nube.
L'attesa monta, tutto il corpo è pronto per l'accoppiamento, l'atto sessuale con la neve, la parete, il pendio. I movimenti del sesso riprodotti nelle armoniche sinusoidi in discesa nella neve fresca.
Attesa.
Preparazione senza fretta.
Il respiro si arresta, rimane sospeso in un limbo senza sensazioni.
La bocca si apre lentamente mentre piego indietro la testa.
Un urlo strozzato, senza suono, al rallentatore.
Chiudo gli occhi, non vedo più nulla, non sento alcun suono, solo sensazione tattile che dai miei organi sessuali si impadroniscono del mio sistema nervoso, dei miei muscoli e delle mie articolazioni. Manipolano e dominano le circonvoluzioni cerebrali.
La reazione irreversibile è cominciata e non si può più arrestare.
Il seno mi si irrigidisce, i capezzoli si contraggono in uno spasimo di piacere, la pelle brucia di passione, ogni singolo centimetro è scosso da brividi di piacere.
La schiena si inarca.
Stringo le cosce sul volto del ragazzo che sembra voglia entrarmi in vagina con tutta la faccia.
Il clitoride diventa il centro di ogni voluttuosa sensazione, di ogni stilla di godimento.
E da quel punto il piacere esplode e si diffonde a tutti i muscoli, a tutta la pelle.
La vulva mi si allarga, come se diventasse enorme come una galassia, un quasar che esplode di energia, un buco nero che risucchia ogni emozione.
Con le mani mi schiaccio tra le cosce il ragazzo che mi ha portato all'orgasmo.
Urlo selvaggia ed incosciente.
Mi contorco e urlo di nuovo, ruggisco piacere con una voce roca e demoniaca.
Poi ancora un nuovo urlo, acuto e prolungato, come il parto di una belva satanica.
La bocca spalancata in un respiro senza movimenti d'aria, la lingua, i denti, cristallizzati in un frammento di piacere esploso fuori dai limiti fisici del tempo.
Squirto, stringo e brucio.
Il corpo scosso da contrazioni epilettiche, mentre riprendo a respirare per esalare gemiti gorgoglianti. L'orgasmo non si esaurisce più, finirà per dilaniarmi il petto, spezzarmi la schiena e le cosce, ancora rattrappite in uno spasmo senza confini.
Poi finalmente un respiro più profondo, come se dovessi risucchiare tutta l'atmosfera di questa stanza per un nuovo sospiro secolare.
Rilascio le cosce e le mani, sento che anche il ragazzo ha ripreso a respirare e un accenno di sorriso mi screzia le labbra. Quanto sarà rimasto in apnea, imprigionato tra le mie cosce, sigillato alla mia vulva?
La schiena si rilassa e sento ancora le sue leggere carezze sulle cosce e sui seni, ritornati di suo dominio. Percepisco il sudore sulla nuca e sulla schiena e l'aria fresca sulla vulva bagnata.
Il clitoride diventa spiacevolmente dolorante al tatto, ma le carezze sui capezzoli sono un prodigioso lenitivo.
La pelle riverbera ancora di piacere, sensibilissima, ed ogni alito di carezza ne trae sensazioni ineffabili.
Mi sento ora sciogliere come gelatina al sole, senza scheletro, un mollusco, una medusa.
Il mio corpo, liquido, prende la forma delle strutture su cui giace e sorrido accarezzando il capo all'uomo che ha saputo dare così tanto piacere alla sua donna.
I respiri mi espandono il torace, mi gonfiano il seno voluttuosamente, i capezzoli restano duri e contratti, epicentro dell'esplosione di piacere che ha attraversato il mio corpo, scatenando scintille come un pesce torpedine.
Mi abbandono pacifica alla fase di quella piacevole spossatezza che lenta come la deriva dei continenti scivola nell'oblio del sonno ristoratore del corpo appagato.
I laccetti delle bacchette infilate nei polsi. Sistemo le cerniere della giacca a vento. Un paio di saltini con le code per testare la leggerezza degli sci e i muscoli delle cosce.
Poi mi lascio risucchiare dal pendio, nel punto della massima pendenza, abbandonandomi alla coltre nevosa.
Curve incerte per prendere confidenza con la consistenza della neve, qui, nel tratto meno ripido.
Gli sci procedono come nella panna montata, senza rumore, in movimenti attutiti.
La neve oggi è eccezionale, a 3000 metri.
Polvere, farina, zucchero a velo.
La consistenza di petali di rosa.
Movimenti prendono forma in un pendio morbido di profumi e di silenzi.
Fiduciosa mi inoltro sul pendio che aumenta l'inclinazione.
Gli sci affondano nel manto di neve fresca, come un sommergibile in fase di immersione rapida.
Sposto il peso indietro e dopo un affondo le punte riemergono come squali tra i flutti. Inverto la direzione nella curva e sprofondo di nuovo nella neve fino alle ginocchia.
Proseguo sulla massima pendenza, non vedo più le punte degli sci e muovo le gambe a memoria. Alterno affondo e slancio sulla superficie candida di minuti cristalli, le punte talvolta ricompaiono come relitti di un naufragio.
Mi fermo spesso, poche curve, movimenti morbidi delle gambe e del bacino, il tronco ad assecondare questo dolce su e giù che richiama i movimenti del sesso, e mi devo riposare. Sono ancora oltre i tremila metri e ho nelle cosce tre ore di salita in quota.
Il respiro affannoso trova pace mentre alle mie spalle contemplo con orgoglio le tracce degli sci, sinusoidi azzurre nel profondo manto di polvere lunare.
Supero un tratto poco pendente, mi sporgo sul successivo pendio e come una condannata a morte mi consegno nelle mani di un tratto ripidissimo.
La neve tiene e sembra non staccarsi nulla dal pendio.
Salto e mi ritrovo due metri più in basso, a volteggiare in un materasso di bambagia.
Sprofondo in una soffice nuvola e ad ogni curva sollevo uno sbuffo di polvere che brilla al sole coi colori dell'iride. Il peso indietro, appoggiata agli scarponi precipito ad ogni curva in un bagno di ovatta, la neve mi arriva a metà coscia quando ci affondo e ritorna al ginocchio quando le punte riemergono in fugaci boccate d'aria, come delfini che saltano fuori dal mare per ripiombarci in traiettorie senza suoni.
Rumori sordi i miei affondi nella neve, ad ogni curva.
“Frup... Trupp”
La neve senza peso, la morbida nube ed il mio corpo che la attraversa, accolta in tenere braccia ad ogni curva.
Curva e contro curva, inverto le punte degli sci alla cieca, senza sapere cosa capita là sotto alla superficie.
Come mollemente seduta in poltrona, rimbalzo su profondi cuscini disegnando serpiginose traiettorie, alla semplice pressione degli scarponi sugli sci.
Le appendici ai piedi rispondono fedelmente indovinando il pendio ed affondando come dita bramose in un morbido seno.
Tripudio di movimenti, esaltazione di forme, colate di azzurro sul manto candido della neve, le mie tracce esaltano i miei gesti.
Un orgasmo infinito, un gioco senza tempo, l'estasi sospesa oltre i parametri della fisica.
Quaranta minuti per scivolare in un imbuto senza rumore, lungo il pendio di una torta nuziale di pasta di mandorle e panna montata, in ghirigori, arabeschi e fini decorazioni.
Quaranta minuti per una discesa di milleduecentometri di neve ripida e polverosa, molleggiata e ammortizzata.
Più sotto le condizioni non sono ottimali. La temperatura ha appesantito la neve compattandola e non si sprofonda più fino a metà coscia.
Con movimenti guardinghi per manovrare gli sci, affondata fino a metà polpaccio, riprendo il percorso che dall'infinito orgasmo di suoni ovattati, forme, figure, colori e gesti, mi conduce agli ultimi singulti del corpo, quando la coscienza ha ripreso possesso della sua dimora ed è tutto un dolce colliquare di muscoli stanchi.
Poche curvette precise, qualche diagonale e scivolo verso l'auto.
Mi tolgo gli sci, lascio lo zaino e libero i piedi dalla morsa degli scarponi.
Appoggio gli sci al sole, mi tolgo la fascia e ravvivo i capelli sudaticci.
Senza giacca a vento, a viso scoperto, mi appoggio al cofano dell'auto per lasciarmi abbrustolire ed asciugare dai benefici raggi solari.
La pelle frigge sotto la radiazione stellare e la muscolatura libera ansie e dolorini.
Le carezze del sole si alternano alla brezza leggera e mi abbandono al sopore che si impadronisce dei miei sensi dopo questa orgia di sensazioni indescrivibili.
Ha una lingua che sembra un pennello, e mi sta dando una mano dietro l'altra con maestria sopraffina.
Dev'essere un cultore del clitoride, uno che ha proprio il piacere di fare le cose bene.
Con le mani mi tiene le cosce belle aperte, come un pollo alla diavola sulla sua griglia.
Incredibile come le cosce di una donna si riescano ad aprire, proprio come un libro. Con un po' di allenamento si riescono anche a raggiungere e superare i fatidici 180° ed arrivare a mettersi in una posizione, come dire... protrudente. Una postura in cui la passera viene esplosa in fuori ed è facile preda di chi ne voglia fruire.
Ma io non ne sono capace.
Sarà pure la struttura delle anche e del bacino, evolute per adeguarsi al parto.
Sta di fatto che quando mi pigiano le ginocchia allargandomi le cosce, mi sento sussultare.
Come se il clitoride sporgesse in fuori. La vulva si espone e la bocca che se ne nutre ha buon gioco, è facilitata nel suo nobile lavoro.
Ogni tanto mi sento accarezzare le superfici interne delle cosce. Il ragazzo ci sa fare, vuole lasciare un'ottima impressione. Lavora quasi come una donna.
Il mio respiro è regolare, lunghi sospiri che talvolta lasciano spazio ad un gemito di piacere.
La sveglia stamattina non è stata troppo brusca. Le 6.30 mi sono sembrate un buon compromesso.
Un'escursione scialpinistica in dolomiti il 16 aprile è un po' una contraddizione in termini.
Ma quest'anno è eccezionale sotto molti punti di vista e allora nel giorno di riposo, sono di nuovo qui, con gli sci, le pelli di foca e tutto l'armamentario.
Non potendomi muovere fuori provincia, la metà prescelta è la Marmolada.
Esposta a nord, la cima da raggiungere supera i 3200 metri; 1200 di dislivello e partenza già in alto, dalla diga del Fedaia a 2000 metri.
Il meteo dà bello fino alle due, e comunque, in aprile, dopo le 12, anche in alto e sul versante nord, la neve rischia di diventare una marmellata impossibile da sciare. Ovviamente se non crolla tutto il pendio seppellendoti sotto una gigantesca slavina.
Ma ora siamo 8 gradi sotto zero e la neve è solo di due giorni. Almeno 50 cm di fresca, e questa occasione non me la devo lasciar sfuggire.
L'allenamento non è male, ma nelle ultime tre settimane, tra area rossa in lock down e brutto tempo sono stata ferma e forse ho perso qualcosa.
È il primo “3000” della stagione. Spero di non scoppiare.
La salita è faticosa, ma si procede bene.
Uno spettacolo.
Una distesa di neve immacolata, luminosa, incandescente, punteggiata di rari alpinisti che sulla superficie abbagliante, per contrasto, appaiono come figure nere. In lontananza i colori sono inghiottiti dal bagliore ed è tutto in bianco e nero, sulla superficie del ghiacciaio.
Mentre arranco i cristalli brillano intorno a me, come un firmamento celeste precipitato fra le distese di neve. Centinaia di riflessi ammiccano al mio lento e rispettoso incedere.
Sono da sola in questa gita, ma per fortuna ci sono in giro altri scialpinisti.
Mentre salgo le cime del Sassolungo e del Sella, gialle di caldo calcare tra le merlettature bianche e azzurre della neve, si innalzano sopra le rocce in primo piano e poi se ne distaccano.
Tofane, Croda Rossa, Lagazuoi, Puez, Antelao, i vassalli si presentano secondo il grado che definisce la loro nobiltà, e, mentre continuo a salire, si inchinano al cospetto di sua maestà la regina delle dolomiti, a seconda della quota che via via raggiungo.
La mia salita non è passata inosservata. Una donna da sola è merce rara e, sugli sci, ancora più inconsueta. Gli occhiali da ghiacciaio mi mascherano gli occhi. Se sapessero che addirittura c'è un'asiatica in salita solitaria, ci sarebbe da segnarsi la data. Mosche bianche.
Mi salutano e io li risaluto.
Poche parole essenziali, il fiato è poco e non c'è spazio per la futilità.
“Ciao”
“Ciao”
“Grazie”
“Ma figurati”
Chi è più lento cede il passo a chi è più veloce, spostandosi dalla traccia.
Qualche foto, un sorso d'acqua, una caramella ogni tanto.
Le persone si parlano ad intervalli, la quota e la fatica interrompono l'eloquio. Frasi mozze lasciano il posto a respiri affannosi, come in dialoghi durante esplorazioni su pianeti diversi, o nelle profondità marine.
Mezzo metro di neve fresca. Le bacchette affondano talvolta fino al manico.
Se prima non si stacca tutto il pendio, precipitando a valle, mi preparo all'idea di una discesa da fiaba, e questo ripaga la fatica delle ultime decine di metri. Sopra i 3000 metri e con l'allenamento ridotto all'osso, ogni passo è una sofferenza.
Ci muoviamo come incontro alla nostra crocifissione sul Calvario. Gli alpinisti si fermano spesso, io mi appoggio sulle bacchette col petto, per ritrovare il fiato. Saliamo faticando e sbanfando, ognuno trascinando la sua croce, verso il proprio personale supplizio.
L'eccitazione cresce, mi prendo in mano le tette, me le tocco e me le strizzo. Mi strofino i capezzoli, mentre sento avvicinarsi il momento del non ritorno.
La sensibilità ai genitali continua a crescere, è come se l'onda del piacere si propagasse e dal clitoride si diffondesse a tutta la pelvi, agli inguini, al sedere.
Mi risale dentro il ventre con movimenti serpiginosi, mi raggiunge i seni dall'interno e mi annulla ogni altra percezione del cervello.
Tutto il mio corpo e la mia mente stanno convergendo verso l'attimo del sommo piacere, non c'è più spazio per ogni altra sensazione, ogni afferenza sensitiva che non sia mirata ad accrescere e modulare il mio piacere sessuale.
Mi tiro una tetta per cercare di leccarmi un capezzolo, con un po' di determinazione so che ce la posso fare; siamo giusto al limite delle dimensioni, ma ce la faccio. Mi lecco e mi succhio, mentre tra le cosce sta per esplodere l'eruzione dell'Etna.
Vorrei che una mano mi accarezzasse le ascelle, una lingua mi leccasse i capezzoli, un dito mi entrasse anche da dietro. O qualcos'altro al posto del dito.
Tu non smettere con quella lingua, quel frullatore sul clitoride, quel mollusco che mi perseguita e mi eccita, che obnubila la mia mente e le mie percezioni.
Il ventre mi si agita in piccole scosse. Il corpo si protende verso colui che lo sta stimolando. Vuole unirsi nell'atto sessuale, vuole essere penetrato e riempito.
Ho bisogno di sentire cose dentro di me, il mio capezzolo fra le mia labbra, due dita in bocca che poi porto al sedere, la lingua che ora alterna morbidi pennellate sul clitoride a penetrazioni vaginali.
Il respiro, da profondo e ritmato diventa irregolare, tende a bloccarsi anticipando piccoli sussurri dell'estasi, quando l'orgasmo ti esplode fra le cosce e ti possiede come un demone, ti sconquassa il respiro, ti strappa gemiti ed urla che non puoi trattenere. Ti irrigidisce le cosce, ti storce il capo, ti contrae la schiena, ti distende il petto esponendo il seno, ti spalanca la bocca alle urla che non riesci a contenere.
Quel seno in cerca di mani, bocche, lingue, quel seno che vuole essere preso, strizzato, graffiato.
Il giovane lecca senza fretta, mi sta preparando all'orgasmo, la tensione cresce e lui sa controllarne l'ascesa, per espandere il momento, per estendere quell'attimo all'infinito.
Il punto del non ritorno.
Con fatica, con rabbia, con determinazione.
Sono in cima.
La cima è l'apice della sofferenza e la sua naturale resa.
Ora non ho più nessun posto in cui andare. Più in alto non si va.
Di colpo la sofferenza cessa, devi solo respirare e guardarti in giro, goderti il frutto della tua fatica.
Quello che non potresti mai goderti salendo con una funivia o una strada.
Ce l'hai fatta ancora, e con le sole tue forze.
Riuscirò a sciare in discesa, in questa neve profonda? Mi terranno le gambe?
Mi tolgo gli occhiali da sole, mi aggiusto i capelli sotto la fascia elastica e mi copro.
Un'altra ragazza, poco lontano, si toglie il pile e resta in top, le spalle nude, i fianchi di tenera pelle esposta ora alla brezza che si è caricata di freddo sulla neve. Rapida si mette indumenti asciutti preparandosi alla discesa.
Io no. Potrei morire di freddo al solo pensiero, e poi c'è troppa gente. Un conto è scrivere di mignotterie, ma nella vita reale sono tutta un'altra persona.
Mentre recupero le forze mi preparo al piacere della discesa.
Ultimi gesti strappati alla fatica: staccare le pelli di foca e ripiegarle, ghiacciandosi le mani nella neve, allacciarsi gli scarponi in modalità discesa, adattare gli attacchi degli sci, coprirsi mani, collo e capo. In caso di volo, in questa neve polverosa, un bagno completo è garantito, come pure lo shock termico.
Mi trovo in quel momento particolare in cui tutto si inverte. Il nero diventa bianco, la salita ripida e faticosa diventa una discesa ripida e inebriante, una sequenza di movimenti in serpentina sugli sci, un orgasmo che si protrarrà per tempi infiniti.
Salita – discesa, molto semplice.
Tutto si inverte. Bruciare i metri in discesa, aleggiare come sospesi nelle spire della fitta nube.
L'attesa monta, tutto il corpo è pronto per l'accoppiamento, l'atto sessuale con la neve, la parete, il pendio. I movimenti del sesso riprodotti nelle armoniche sinusoidi in discesa nella neve fresca.
Attesa.
Preparazione senza fretta.
Il respiro si arresta, rimane sospeso in un limbo senza sensazioni.
La bocca si apre lentamente mentre piego indietro la testa.
Un urlo strozzato, senza suono, al rallentatore.
Chiudo gli occhi, non vedo più nulla, non sento alcun suono, solo sensazione tattile che dai miei organi sessuali si impadroniscono del mio sistema nervoso, dei miei muscoli e delle mie articolazioni. Manipolano e dominano le circonvoluzioni cerebrali.
La reazione irreversibile è cominciata e non si può più arrestare.
Il seno mi si irrigidisce, i capezzoli si contraggono in uno spasimo di piacere, la pelle brucia di passione, ogni singolo centimetro è scosso da brividi di piacere.
La schiena si inarca.
Stringo le cosce sul volto del ragazzo che sembra voglia entrarmi in vagina con tutta la faccia.
Il clitoride diventa il centro di ogni voluttuosa sensazione, di ogni stilla di godimento.
E da quel punto il piacere esplode e si diffonde a tutti i muscoli, a tutta la pelle.
La vulva mi si allarga, come se diventasse enorme come una galassia, un quasar che esplode di energia, un buco nero che risucchia ogni emozione.
Con le mani mi schiaccio tra le cosce il ragazzo che mi ha portato all'orgasmo.
Urlo selvaggia ed incosciente.
Mi contorco e urlo di nuovo, ruggisco piacere con una voce roca e demoniaca.
Poi ancora un nuovo urlo, acuto e prolungato, come il parto di una belva satanica.
La bocca spalancata in un respiro senza movimenti d'aria, la lingua, i denti, cristallizzati in un frammento di piacere esploso fuori dai limiti fisici del tempo.
Squirto, stringo e brucio.
Il corpo scosso da contrazioni epilettiche, mentre riprendo a respirare per esalare gemiti gorgoglianti. L'orgasmo non si esaurisce più, finirà per dilaniarmi il petto, spezzarmi la schiena e le cosce, ancora rattrappite in uno spasmo senza confini.
Poi finalmente un respiro più profondo, come se dovessi risucchiare tutta l'atmosfera di questa stanza per un nuovo sospiro secolare.
Rilascio le cosce e le mani, sento che anche il ragazzo ha ripreso a respirare e un accenno di sorriso mi screzia le labbra. Quanto sarà rimasto in apnea, imprigionato tra le mie cosce, sigillato alla mia vulva?
La schiena si rilassa e sento ancora le sue leggere carezze sulle cosce e sui seni, ritornati di suo dominio. Percepisco il sudore sulla nuca e sulla schiena e l'aria fresca sulla vulva bagnata.
Il clitoride diventa spiacevolmente dolorante al tatto, ma le carezze sui capezzoli sono un prodigioso lenitivo.
La pelle riverbera ancora di piacere, sensibilissima, ed ogni alito di carezza ne trae sensazioni ineffabili.
Mi sento ora sciogliere come gelatina al sole, senza scheletro, un mollusco, una medusa.
Il mio corpo, liquido, prende la forma delle strutture su cui giace e sorrido accarezzando il capo all'uomo che ha saputo dare così tanto piacere alla sua donna.
I respiri mi espandono il torace, mi gonfiano il seno voluttuosamente, i capezzoli restano duri e contratti, epicentro dell'esplosione di piacere che ha attraversato il mio corpo, scatenando scintille come un pesce torpedine.
Mi abbandono pacifica alla fase di quella piacevole spossatezza che lenta come la deriva dei continenti scivola nell'oblio del sonno ristoratore del corpo appagato.
I laccetti delle bacchette infilate nei polsi. Sistemo le cerniere della giacca a vento. Un paio di saltini con le code per testare la leggerezza degli sci e i muscoli delle cosce.
Poi mi lascio risucchiare dal pendio, nel punto della massima pendenza, abbandonandomi alla coltre nevosa.
Curve incerte per prendere confidenza con la consistenza della neve, qui, nel tratto meno ripido.
Gli sci procedono come nella panna montata, senza rumore, in movimenti attutiti.
La neve oggi è eccezionale, a 3000 metri.
Polvere, farina, zucchero a velo.
La consistenza di petali di rosa.
Movimenti prendono forma in un pendio morbido di profumi e di silenzi.
Fiduciosa mi inoltro sul pendio che aumenta l'inclinazione.
Gli sci affondano nel manto di neve fresca, come un sommergibile in fase di immersione rapida.
Sposto il peso indietro e dopo un affondo le punte riemergono come squali tra i flutti. Inverto la direzione nella curva e sprofondo di nuovo nella neve fino alle ginocchia.
Proseguo sulla massima pendenza, non vedo più le punte degli sci e muovo le gambe a memoria. Alterno affondo e slancio sulla superficie candida di minuti cristalli, le punte talvolta ricompaiono come relitti di un naufragio.
Mi fermo spesso, poche curve, movimenti morbidi delle gambe e del bacino, il tronco ad assecondare questo dolce su e giù che richiama i movimenti del sesso, e mi devo riposare. Sono ancora oltre i tremila metri e ho nelle cosce tre ore di salita in quota.
Il respiro affannoso trova pace mentre alle mie spalle contemplo con orgoglio le tracce degli sci, sinusoidi azzurre nel profondo manto di polvere lunare.
Supero un tratto poco pendente, mi sporgo sul successivo pendio e come una condannata a morte mi consegno nelle mani di un tratto ripidissimo.
La neve tiene e sembra non staccarsi nulla dal pendio.
Salto e mi ritrovo due metri più in basso, a volteggiare in un materasso di bambagia.
Sprofondo in una soffice nuvola e ad ogni curva sollevo uno sbuffo di polvere che brilla al sole coi colori dell'iride. Il peso indietro, appoggiata agli scarponi precipito ad ogni curva in un bagno di ovatta, la neve mi arriva a metà coscia quando ci affondo e ritorna al ginocchio quando le punte riemergono in fugaci boccate d'aria, come delfini che saltano fuori dal mare per ripiombarci in traiettorie senza suoni.
Rumori sordi i miei affondi nella neve, ad ogni curva.
“Frup... Trupp”
La neve senza peso, la morbida nube ed il mio corpo che la attraversa, accolta in tenere braccia ad ogni curva.
Curva e contro curva, inverto le punte degli sci alla cieca, senza sapere cosa capita là sotto alla superficie.
Come mollemente seduta in poltrona, rimbalzo su profondi cuscini disegnando serpiginose traiettorie, alla semplice pressione degli scarponi sugli sci.
Le appendici ai piedi rispondono fedelmente indovinando il pendio ed affondando come dita bramose in un morbido seno.
Tripudio di movimenti, esaltazione di forme, colate di azzurro sul manto candido della neve, le mie tracce esaltano i miei gesti.
Un orgasmo infinito, un gioco senza tempo, l'estasi sospesa oltre i parametri della fisica.
Quaranta minuti per scivolare in un imbuto senza rumore, lungo il pendio di una torta nuziale di pasta di mandorle e panna montata, in ghirigori, arabeschi e fini decorazioni.
Quaranta minuti per una discesa di milleduecentometri di neve ripida e polverosa, molleggiata e ammortizzata.
Più sotto le condizioni non sono ottimali. La temperatura ha appesantito la neve compattandola e non si sprofonda più fino a metà coscia.
Con movimenti guardinghi per manovrare gli sci, affondata fino a metà polpaccio, riprendo il percorso che dall'infinito orgasmo di suoni ovattati, forme, figure, colori e gesti, mi conduce agli ultimi singulti del corpo, quando la coscienza ha ripreso possesso della sua dimora ed è tutto un dolce colliquare di muscoli stanchi.
Poche curvette precise, qualche diagonale e scivolo verso l'auto.
Mi tolgo gli sci, lascio lo zaino e libero i piedi dalla morsa degli scarponi.
Appoggio gli sci al sole, mi tolgo la fascia e ravvivo i capelli sudaticci.
Senza giacca a vento, a viso scoperto, mi appoggio al cofano dell'auto per lasciarmi abbrustolire ed asciugare dai benefici raggi solari.
La pelle frigge sotto la radiazione stellare e la muscolatura libera ansie e dolorini.
Le carezze del sole si alternano alla brezza leggera e mi abbandono al sopore che si impadronisce dei miei sensi dopo questa orgia di sensazioni indescrivibili.
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