Osteria del "Gallo d'Oro"
di
Yuko
genere
orge
La situazione si fa estremamente tesa.
Il cassiere è andato a chiamare il direttore del ristorante. O almeno noi pensiamo che sia qualcosa di simile. Un tizio alto e smilzo con dei baffetti mosci e una barbetta caprina che mi ricorda vagamente Ho Chi Minh, ma con due borse sotto gli occhi e un campionario di rughe sul collo che mi riportano alla mente la statua del Buddha digiunante.
I due discutono animatamente. Si fermano ogni tanto a squadrarci tutte e tre da capo a piedi, con uno sguardo che insiste in modo particolarmente ostentato sui nostri seni e sui nostri fianchi.
“Tu riesci a capire che cosa stanno dicendo?” mi chiede Serena bisbigliandomi all'orecchio, ma il cassiere, che probabilmente è anche il capo dei camerieri, se ne accorge e la fissa un attimo con uno sguardo che ora svela un po' di preoccupazione.
Io porto l'indice alle labbra per far capire alla modenese di tacere e mi concentro sul dialogo in cinese.
I due mandarini ora guardano me e lo sguardo accigliato cede a un sorrisino forzato. Notano la mia espressione attenta al dialogo, si guardano in faccia tra di loro, poi mi fanno un inchino gentile e, su indicazione del direttore del locale, il cameriere parte di corsa verso la cucina.
Lo spilungone si allontana un attimo e si frega le mani con una fastidiosa espressione soddisfatta che non promette nulla di buono.
“Allora, Yuko, ci hai capito qualcosa?” Mi ripete Serena, che si è riavvicinata al mio orecchio.
“No, non ci ho capito proprio nulla.” Mi tocca ammettere.
“Ma come?” Si inserisce Lucrezia. “Sembrava che stessi seguendo i loro discorsi!”
“Eeeh, facevo solo finta, ma giusto per metterli un po' in guardia e non giocarci troppi scherzi. In fondo che cosa ne sanno loro che io non capisca la loro lingua, anche se sono giapponese?”
“Ma appunto, zio bello, non vi intendete fra di voi?” Insiste l'emiliana.
“Tra giapponesi e cinesi?”
“Eh! Non siete lì appiccicati?”
“Ma guarda, Serena, a parte che la Cina è grande più o meno come l'Europa, ma al di là di una serie di ideogrammi kanji, che si scrivono nello stesso modo, la lettura e la pronuncia è completamente differente.”
“Ma non è tutta la stessa solfa?”
“Ma no. È come se ti dicessi che un finlandese può capire l'italiano!”
“O come uno scozzese che riesce a comunicare con un greco!” Rincara Lucrezia per chiarire il concetto.
“O come un portoghese che discorre con un polacco!” Aggiungo io.
“O un islandese che parla il serbo-croato!” Lucrezia.
“O un albanese...”
“Bona lè! Ho capito!” interrompe infine l'emiliana, e si mette a ridere. “Veh, Yuko, fat mia sgamer!”
“Ma mi sa che mi hanno già sgamato da un pezzo. Però voglio lasciare loro il dubbio, almeno per contenere i danni.”
Intanto il cameriere è ritornato accompagnato da un omone gigantesco, decisamente obeso, il cranio pelato e lucido di sudore. Il tizio si presenta vestito di una maglietta completamente pezzata, che un tempo sicuramente doveva essere bianca. Si slaccia un lurido grembiulino dai riflessi iridescenti e si frega le mani.
“E in dove l'è andà a cater 'sto gnatoun?” Serena spalanca gli occhioni di fronte a questa massa umana che si avvicina traballante. Sembra di sentir vibrare i vetri alle finestre, ma forse è solo un'impressione.
“È l'addetto alle macchine della corazzata Potëmkin o il cuoco?” Si sbilancia Lucrezia.
“Cià che stasera a femm baraca!” Serena sembra scatenata e scoppia in una risata.
“Cazzo ridi, Serena!” La rimprovera Lucrezia. “Qui finiamo tutte e tre col culo per aria!”
“Be', non sarà mica il peggiore dei problemi!”
Io taccio, preoccupata. Mi sento responsabile dell'imprevista svolta della serata.
Ho invitato io le due amiche a festeggiare il capodanno cinese e l'inizio dell'anno della Tigre; il Tét, come viene chiamato in Viet Nam. Una festa diffusa in tutto l'estremo oriente e, naturalmente, anche in Giappone, ma molto sentita anche nelle comunità cinesi sparse in ogni paese del mondo.
Le ho fatte venire dalle loro regioni, qui a Milano, questa sera, al ristorante cinese tradizionale “Il gallo d'oro”. Un ottimo posto in cui ero già stata e dove si possono apprezzare le prelibatezze della vera cucina cinese, non quella imbastardita a uso della popolazione locale.
Ricette impensabili e introvabili. Impossibili da proporre al palato italiano. Dall'orecchio di maiale fritto alla medusa in agrodolce, e tante spezie e sapori introvabili in Europa e che mi riportano alla mia infanzia.
Le due amiche, poi, di certo non si scompongono per azzardi culinari e sapori inediti.
Volete mettere?
Un'emiliana DOC non si lascia di certo intimorire da certi esoterismi porcini, e la friulana è già abbastanza eccentrica di suo e ha sempre voglia di sperimentare nuove sensazioni e inedite situazioni.
Ma questa sera forse ci prenderanno tutte e tre alla lettera.
O forse alla “pecora”.
Sì, perchè quando mi sono presentata alla cassa per pagare il conto e offrire la cena, con candore il cassiere mi ha comunicato che il POS del Bancomat non funzionava.
Sorrisino da schiaffi.
Guardo nel portafoglio e ho solo venti euro.
Cazzo.
Torno al tavolo e chiedo, con un certo imbarazzo. Non mi piace perdere il controllo della situazione.
Ma Serena ha tranquillamente lasciato a casa il portafoglio, tanto non serviva. E be', ha ragione.
E Lucrezia ci ha offerto l'aperitivo proprio in piazza Duomo, facendo fuori una vagonata di contanti. Ma ci teneva così tanto. E anche lei ha solo il Bancomat.
Ecco.
E ora siamo qui a discutere con il direttore del ristorante che non vuole sentire ragioni e fa anche intendere di essere abbastanza incazzato.
Come se fosse colpa mia se non gli funziona quell'affarino per leggere i Bancomat. Manco ci ho pensato di chiedere prima, ma minchia, siamo a Milano, mica alla periferia di Caronno Pertusella.
E invece è come se fossimo nelle campagne della Manciuria.
Cibo tradizionale e tre donne che consumano una cena ricca e opulenta e che non possono pagare; e che ora devono subire recriminazioni e dileggi.
O forse stasera tritano minuziosamente i coglioni proprio perchè anch'io sono orientale e vengo a festeggiare in casa loro e a farmi servire.
A nulla valgono spiegazioni e tentativi di trattative. Qui in Chinatown anche la polizia italiana e i vigili urbani devono sottostare alle tradizioni orientali.
“Ci toccherà lavare i piatti?” Mi chiede ancora Serena.
Lucrezia la colpisce con il gomito e la guarda con un'espressione torva.
“Ma li hai visti in faccia? Guarda come si fregano le mani contenti. Qui ci condiscono alla pechinese!”
“E cioè?”
“Prova a immaginare.”
L'emiliana prova a immaginare e alla fine si apre in un radioso sorriso.
“Be', dai!”
Finalmente anche la friulana si concede un sorriso. Forse anche perchè coglie la mia preoccupazione e il mio imbarazzato dispiacere.
Tutte e tre abbiamo già ben chiaro nella mente quale potrebbe essere il nostro futuro a breve.
Di certo non ci faranno a pezzi per finire dentro ai prossimi involtini primavera; siamo preparate al peggio e restiamo in attesa. Se poi in qualche modo riusciremo a evitare quello che si delinea con dettaglio nella nostra navigata immaginazione, tanto meglio. Se no, che ci vuoi fare?
Noi siamo tre. Direi anche che siamo tre belle donne. Un po' alticce e vestite per giunta in modo un po' troppo provocante.
E anche loro, adesso, sono in tre.
Quello spilungone del direttore, alto e secco come un'acciuga. Anche abbastanza in là con gli anni. L'abbiamo già soprannominato 'zio Ho', appunto per una vaga somiglianza con il condottiero delle guerre del Viet Nam, contro i francesi e poi gli americani. Anche se mi dispiace tirare in ballo cotanta personalità.
Il cassiere o capo dei camerieri o checcazzonesò: un tappetto con qualche pelo di barba in faccia e delle labbra da magnaccio, un sorrisino da depravato sessuale, e quella massa informe del cuoco: quello sì, ci preoccupa molto.
Invece di portarci nel retro della cucina a lavare i piatti, e veramente fino all'ultimo ci abbiamo sperato, ci fanno salire oltre una porta che sembrava invisibile, nascosta dietro un enorme ritratto di Mao Tsê-tung, lungo una ripidissima scala nel buio più completo.
“A-n 's vedd un ostia!”
I commenti in dialetto di Serena stemperano la tensione, per fortuna.
Quasi a tastoni arriviamo in uno stanzino illuminato dalla luce fioca di una misera lampadina appesa a un filo elettrico che penzola dal soffitto.
“Nel pieno rispetto della normativa vigente...” Commenta Lucrezia e sembra che in qualche modo ci siamo un po' tutte rassegnate.
In mezzo c'è un letto sfatto, con un lenzuolo sgualcito. Odore stagnante di chiuso.
E chi si immaginava che sopra quel bel ristorante ci fosse questo squallore. Ma forse l'immagine per il turista che si affaccia oltre via Paolo Sarpi, nel quartiere cinese, è solo una facciata, e oltre qualche centimetro di cemento ricompare la vera Cina. Quella di cui i nostri culetti si preparano a fare esperienza.
Il direttore mi apostrofa in cinese, con fare autoritario.
Ovviamente io non capisco niente. Il mio misero bluff è stato rapidamente smascherato e ora lo zio Ho si gode la scena.
A gambe larghe, le mani affondate nelle tasche, ci guarda con la testa piegata di lato. Gli manca solo il cappello sulle ventitré e la sigaretta al lato delle labbra e potrebbe benissimo impersonare la versione cinese di Humphrey Bogart.
Provo a rilanciare rispondendogli in giapponese, ma Humphrey si incazza, alza la voce e ripete qualcosa che riesco solo a intuire che sia in lingua cantonese, e nulla di più.
E allora anche Lucrezia si innervosisce, gli punta il dito contro e inizia a inveire in una lingua sconosciuta, ma che di sicuro non è cinese.
Io e Serena ci guardiamo stringendoci nelle spalle, mentre Lucrezia porta avanti uno sproloquio probabilmente in dialetto friulano.
Ma un certo effetto l'ottiene.
Zio Ho la guarda allibito.
Riparte parlando in cinese, ma Lù dopo pochi secondi lo interrompe e lo sovrasta con il suo idioma intelligibile e lo mette a tacere.
“Ma che vi state dicendo?” Azzarda Serena.
“E che cazzo ne so, so solo che quel tono contro Yuko non mi piaceva e l'ho rimesso un attimo in riga.”
La bionda è soddisfatta.
In effetti siamo tutte e tre discretamente alte e Lucrezia incazzata, con quel suo petto esuberante, fa una certa impressione.
Ma alle nostre spalle la massa del cuoco si rende manifesta con un rantolo, un baritonale colpo di tosse scatarroso che ci riporta alla realtà.
Zio Ho, in tono più accomodante, comincia a snocciolare un incerto italiano.
“Signoline non pagale con soldi la cena...”
Be', fin qui ci siamo, pochi concetti, ma chiari.
“... signoline adesso dale noi culo.”
Un ragionamento cartesiano.
“Ah be'! Anche il francese sanno!” si complimenta Serena.
“Cos'è, una massima di Confucio?” Chiosa Lucrezia col suo savoir faire.
“Questo si chiama parlare per perifrasi.” Aggiungo io e comincio a guardarmi intorno per vedere dove appoggiare i vestiti. Inutile discutere. Siamo qui praticamente sequestrate e quell'enorme massa del cuoco si è piazzato davanti alla porta. Ma come avrà fatto a salire sulle scale?
Ci guardiamo tutte e tre. Solo Serena sorride.
“Dai, ragazze, facciamola finita”, la concretezza di Lucrezia, “prima iniziamo e prima finiamo!”
E si sfila il vestito.
Mi guarda e alla fine si mette anche a ridere. “Che cazzo di situazione... Dai, speriamo almeno di divertirci un poco.”
“Scusate, non avevo programmato questo dopocena.”
“Ca't 'gnis un chencher!” e Serena scoppia a ridere.
Sfilo i jeans sotto gli occhi curiosi dei tre cinesi. Be' un culo orientale l'avranno già visto e forse sono più incuriositi dalle chiappette nostrane.
“Mutandine trasparenti! Mica male Yuko!” Serena mi mangia con gli occhi, mentre anche lei si sfila la minigonna.
Sì, molto trasparenti, praticamente come non averle. Il pelo nero si nota bene sopra le mie cosce.
Lucrezia, invece, mette in mostra dei minislip rosso fuoco, in effetti ben più adeguati alla ricorrenza del capodanno.
“Eh Lù? Anche tu avevi fatto dei programmi per il dopocena, veh?”
Serena invece, spudoratamente, si mostra direttamente senza alcun indumento intimo, tra le acclamazioni dei tre cinesi, forse non abituati dalle loro dame a tanta spregiudicatezza.
Considerando che aveva una minigonna pubica, in effetti...
Nessuna di noi porta il reggiseno e in breve siamo nude.
I tre energumeni si sbarazzano dei loro vestiti mentre noi ci guardiamo le rispettive passere.
Evidente, ora, appare che tutte e tre avevamo fatto alcuni progetti per la serata da passare insieme.
“Sti tri bagai ce faran suder set camisi.” Prevede la modenese, mettendosi per prima in ginocchio sul letto, col sedere per aria.
Dietro di lei si piazza il cuoco, con una panza tanta che non si riesce nemmeno a vedere l'uccello. Istintivamente mi chiedo come farà a centrare l'amica di Modena; se dovrà tenersi la pancia sollevata o se dovrà farsi aiutare.
“Oh povera Serena!” La incoraggio. “Speriamo che quel Kung Fu Panda non ti squarti!”
Lei si mette a ridere, e dal quel momento il cuoco avrà quel nome.
“Non ti preoccupare, Yuko. Questo bignè alla panna me lo frollo io!” e strizza l'occhio.
“Sempre che 'lo' trovi, sotto a quella bonza!” Aggiunge, vedendo che il cuoco armeggia sotto la panza alla ricerca del mestolo, rimasto sepolto sotto la massa di lardo di colonnata.
Lucrezia sembra finalmente rassegnata e rilassata; sfilato il vestito sta esponendo con orgoglio il suo corpo statuario su cui i seni si impongono all'attenzione dei mandarini, grossi e ubertosi. E ride.
“Cosa ti ridi, te! Con quella ghegna da s'ciaf de dree alla s'cena!” Continua a sciorinare in dialetto l'emiliana mentre il panda si illumina in volto. Deve aver trovato il cannolo.
Alle spalle della friulana in effetti si è piazzato il capo cameriere che però, di fronte al sedere della bionda, con le leve che si ritrova Lucrezia, fa fatica ad arrivare all'altezza della sala giochi, lui, il cinese, troppo basso per quelle alture.
“Dai mo'! Comincia a spaciugher, gianduja!” Serena incita il cuoco che se lo sta menando per riportarlo a dimensioni visibili a occhio nudo.
Ormai è tutto un ridere, a vedere Serena completamente infoiata e disinibita che sembra aver preso in mano il comando della combriccola.
“Te Yuko, stag atenta al to' giandoun! Stasira me par un po' fiappo!”
“Spero solo che non gli venga un infarto! Mi sembra un filo in là con gli anni.”
“A l'è vec come al còcch! T'al dig me!”
Intanto il cameriere ha trovato un paio di cuscini su cui è salito, riuscendo ad arrivare agli ingressi della friulana e sembra che stia prendendo la mira.
Ho Chi Minh invece la mira l'ha già presa bene e, senza neanche un preliminare, mi ha infilato direttamente nel culo.
“Cazzo....” gemo per l'intrusione rapida, ma non indolore. “Ma questo di cosa ce l'ha fatta la cappella? Granito ghiandone?”
Sorte simile tocca a Serena.
“Vacca d'na miseria! Che ci ha messo il panda sopra il cazzo? La salsa Wasabi? Zio bello, se brucia!”
“Ha ha ha! Ma Serena quella è per il sushi, non per il cibo cinese!” Se la ride Lucrezia mentre il suo cavaliere, dopo lungo armeggiar, l'ha infilata direttamente nella passera. “Oh! Il mio o è un vero tradizionalista, oppure ha completamente sbagliato mira!”
“Ma va là, che al culo non ci arriva! T'al dig me!”
“In effetti sembrava anche un poco miope!”
E ridiamo, ma intanto lo zio Ho mi sta scartavetrando il deretano e non è affatto piacevole; con quella pialla mi sta tirando i trucioli fuori dal buco del culo.
Anche Serena ride, ma si vede che stringe i denti ogni volta che il cuoco ci da dentro.
“Eh no!” Sbotto io dopo che lo zio mi ha tornito per bene l'ingresso fornitori. “Non si può andare avanti così!”
Mi sfilo delicatamente Excalibur e con un dito indice ben alzato metto in guardia sir Lancillotto.
“Un attimo di pazienza!” Lo redarguisco soffocando sul nascere il primo accenno di protesta.
Giro dietro a Serena e stappo anche la sua bottiglia di lambrusco dallo spesso sughero del Kung Fu Panda. La pancia del trippone crolla come una ghigliottina celando il nerchione della muraglia cinese.
Mi inginocchio alle spalle della modenese e, mentre le infilo con lentezza due dita nella passera, con la lingua cerco di lenire il bruciore al buco più stretto, visibilmente arrossato.
Poche carezze di lingua ben salivata e poi mi ci infilo decisamente dentro, facendo gemere di insperato piacere l'amica della 'bassa'.
“Così si fa, Cin Ciam Pai! Ok?” Apostrofo l'immenso cuoco, citando il campione cinese dei 110 metri a ostacoli, riesumato dai vecchi ricordi del liceo.
Poi, con le dita ricoperte di morbido liquido vaginale, ripasso bene l'ingresso del lato B dell'amica, riconsegnandola al pianeta Grosso.
Lui pare aver apprezzato la lezione di stile e, con più rispetto, ricomincia le ricerche sotto la coltre di lardo, per una seconda manche che si prospetta più avvincente.
E, mentre il trenino entra di nuovo nella galleria sotto al monte Cimone, la donna del Secchia mi ricambia il favore con una bella leccata fra le cosce che genera la cascata delle Marmore dalla mia passerotta tutto burro.
Con cura certosina rivesto l'arnese del capo del ristorante del mio morbido muco prima di riconsegnargli il culo.
Anche lui sembra soddisfatto del siparietto saffico e riprende con un attimo di garbo in più la sonicazione al mio il deretano.
Ora comincia a essere anche piacevole, e vedere le mie due amiche rollate avanti e indietro, con quelle tette che ballano come altalene, è comunque un bello spettacolo.
“Come va, Lù?” Chiedo, mentre mi avvicino alla friulana sporgendo la lingua per baciarla.
“Per la verità non sento nulla.” Risponde lei, tradendo una certa delusione. “Già son sicura che ha sbagliato la mira, e poi, invece di una salsiccia mi ha infilato con una bacchetta cinese. Le dicerie sui nani sono tutte una montagna di grandi cazzate.”
“Vacca cane! E dillo mo' al panda, che mi ha trapanato il culo con un involtino primavera bel gross!”
Alle mie spalle, invece, lo zio Ho ha subito un rallentamento. Si è appoggiato alla mia schiena; mi ha preso le tette nelle mani e sta ansimando come una teiera sotto la pressione del vapore.
“Cazzo, gli sta venendo un edema polmonare!”
Serena scoppia a ridere e nel movimento vibratorio le si sfila il calippo del ciccione dal culo, che già faceva fatica a sporgere sotto il grembiulino di ciccia.
“Par plase, no monadis! Yuko, no ti capisis une madone! Quel mona ha un attacco d'asma!” Rincara la dose la friulana ormai in preda a un riso incontenibile.
“Ci hai mica del Ventolin?”
Nessun rispetto per un uomo che sta male.
Mi metto a ridere come una scema e, scuotendomi tutta, trasmetto le convulsioni anche al retrotreno.
Queste vibrazioni hanno però il tragico effetto di velocizzare la frizione sull'uccello cinese e in pochi secondi sento un clistere di sperma diffondersi nel mio basso intestino. Non uno tsunami, per carità, direi piuttosto un microclisma.
“Cazzo, l'avete fatto venire! Siete due donne senza cuore, ora che cominciavo a unire l'utile al dilettevole!”
“Ma di che ti lamenti, Yuko, io non sento un cazzo!”
“Eh be', in effetti, quale miglior modo di dire! Con quel grissino nella topa non ti fa nemmeno il solletico!” Ma intanto l'emiliana ha iniziato a sospirare e mentre Lucrezia le accarezza le tette, entrambe, noi due, ci avviciniamo alla sua bocca e, unendo le nostre lingue facciamo provare un “molto onolevole” orgasmo alla amica dell'oltre Pò.
Anche il cuoco le concede un ripieno di panna “montata” e forse delle tre questa è l'unica accoppiata che ha raggiunto un risultato apprezzabile.
“Che mattarello, raga! Alla fine l'affare si era ingrossato!” Serena si accascia sul letto, mentre la mortadella cinese si liquefa sul pavimento.
Il mio cavaliere con un rantolo mi scivola fuori dal corpo e, praticamente in coma, si accascia sul sudicio tappetino che schifeggia ai bordi del letto, lasciandomi piena di disappunto e insoddisfazione. Lo guardo indecisa se praticargli le manovre di rianimazione imparate al Basic Life Support.
“Fa finte di nie, Yuko!”
Lucrezia richiama la mia attenzione. Si sta annoiando e sembra che si stia guardando in giro in cerca di qualcosa da leggere, mentre il cameriere, alle sue spalle ci sta mettendo davvero tutto il suo impegno, ma con risultati decisamente sproporzionati all'abnegazione profusa.
Serena guarda incerta l'orologio, mentre insieme ci sediamo sul letto, a gambe incrociate, completamente nude, a tener compagnia a Lù, visibilmente stufa.
“Qualcuno conosce delle barzellette?”
“Cumò vonde!” Sbotta infine la friulana.
Si rialza in piedi e, sovrastando il suo cavaliere di un paio di spanne, lo guarda impietosita, cercando il modo di aiutarlo.
“Ragazze, si è fatta una certa!” Faccio notare indicando l'orologio.
“Ma non vorrete rimanere così, a metà, voi due?” Ci fa notare Serena.
“E l'impotente, qui?” Lucrezia indica col mento l'ultimo dei cinesi, che, tenendosi la banana in mano, ci guarda con un'espressione di implorazione.
“Facciamogli vedere come fanno le donne italiane!” Il lampo di genio di Serena.
“Sì, proprio italiane D.O.C.!” Aggiungo io. Ma non entriamo troppo nei dettagli.
Lucrezia mi ribalta sul letto, mi si avventa addosso e mentre con una mano mi regge la nuca, con l'altra mi affonda le unghie in una tetta. Le nostre bocche conducono a un incontro di culture e lingue di diversi continenti.
Serena mi si infila tra le gambe e con la lingua mi esplora fino al fornice vaginale.
Sotto l'attacco di queste due pantere scatenate, in pochi minuti comincio a urlare l'inno nazionale del Giappone, e mentre esplodo di zampilli come un'eruzione dell'Etna, Serena ripete il trattamento alla friulana. Tra esclamazioni in cui la parola “mona” la fa da padrona, la bionda di Udine esegue un repertorio di musica lirica da prima della Scala.
Poi, insieme io e la sorella, foderiamo di lingua la donna nata tra la via Emilia e il West e diamo ragione al detto “non c'è due senza tre”, con il terzo orgasmo in cinque minuti. Se non contiamo i due mandarini e il primo della modenese.
Rimaniamo sudate e abbracciate a baciarci e accarezzarci, e solo quando riprendiamo il senno ci accorgiamo del cameriere che ancora se lo sta menando, senza però arrivare al dunque.
“A mo' l'è chi, ches'chi?” Ormai i dialetti si mescolano, ma sentire una jap che parla milanese, questo neanche il compagno Cià Cià Cià l'aveva mai sperimentato.
“Oh, zio! Vuoi una mano?”
In breve circondiamo l'uomo più fortunato dell'anno della Tigre.
Serena ci mette tutto il suo impegno e la sua decantata maestria e, meglio di un'idrovora, inizia al cinese un pompino da risucchiargli anche l'anima. Lucrezia gli infila la lingua in bocca facendogli un'ortopantomografia, la famosa “panoramica” a tutta l'arcata dentaria.
E, infine, io, mentre gli infilo un ditino nel culo, lo ricopro di succhiotti che alla fine sembrerà un malato di vaiolo.
Il cinesino esplode in un orgasmo come i di fuochi d'artificio sotto il Vesuvio quando il Napoli di Maradona ha vinto lo scudetto. Altrochè i giochetti con la polvere da sparo nella città proibita del Celeste Impero.
Per non lasciare nulla di incompiuto, Serena, addirittura, si esibisce in gargarismi e gorgheggi prima di eiettare un getto di panna sul tappetino di cui sopra.
“Mo' va a cagher!” E liquida anche il terzo cinesino.
Tutte e tre, nude, in piedi sul letto, sole e vittoriose, contempliamo il campo di battaglia in cui tre relitti vanno alla deriva nel mar Giallo, in preda a un sommesso russare.
“Pari e patta!” Concludo, volgendo uno sguardo d'intorno.
“Va in mona, Yuko. Tre a zero!” Mi corregge Lucrezia e, rimessi i vestiti, scendiamo al ristorante e ne usciamo nell'aria fresca della sera.
Solo ora riguardo l'insegna del locale.
La scritta in italiano è “Il gallo d'oro”, ma se guardo gli ideogrammi originali, quelli cinesi, in kanji, la vera traduzione sarebbe “L'Uccello di Fuoco”.
Lo segnalo alle due amiche.
“Cazzo! Ora lo possiamo capire nel suo più profondo significato!”
“Se, se... quello filosofico, eh?”
“Un nome, una promessa!”
“E pensare che già l'altra volta che ci sono stata avevo notato questa cosa.” Mi ritorna in mente come una folgorazione.
“E non hai mai collegato?”
“Macchè! Credevo che il proprietario fosse un patito dei balletti di Stravinskij!”
“Eh, si, davvero!”
E ci allontaniamo in mezzo a Chinatown, per mano, piegate dalle risa, mentre intorno a noi esplodono botti, razzi e petardi.
Il cassiere è andato a chiamare il direttore del ristorante. O almeno noi pensiamo che sia qualcosa di simile. Un tizio alto e smilzo con dei baffetti mosci e una barbetta caprina che mi ricorda vagamente Ho Chi Minh, ma con due borse sotto gli occhi e un campionario di rughe sul collo che mi riportano alla mente la statua del Buddha digiunante.
I due discutono animatamente. Si fermano ogni tanto a squadrarci tutte e tre da capo a piedi, con uno sguardo che insiste in modo particolarmente ostentato sui nostri seni e sui nostri fianchi.
“Tu riesci a capire che cosa stanno dicendo?” mi chiede Serena bisbigliandomi all'orecchio, ma il cassiere, che probabilmente è anche il capo dei camerieri, se ne accorge e la fissa un attimo con uno sguardo che ora svela un po' di preoccupazione.
Io porto l'indice alle labbra per far capire alla modenese di tacere e mi concentro sul dialogo in cinese.
I due mandarini ora guardano me e lo sguardo accigliato cede a un sorrisino forzato. Notano la mia espressione attenta al dialogo, si guardano in faccia tra di loro, poi mi fanno un inchino gentile e, su indicazione del direttore del locale, il cameriere parte di corsa verso la cucina.
Lo spilungone si allontana un attimo e si frega le mani con una fastidiosa espressione soddisfatta che non promette nulla di buono.
“Allora, Yuko, ci hai capito qualcosa?” Mi ripete Serena, che si è riavvicinata al mio orecchio.
“No, non ci ho capito proprio nulla.” Mi tocca ammettere.
“Ma come?” Si inserisce Lucrezia. “Sembrava che stessi seguendo i loro discorsi!”
“Eeeh, facevo solo finta, ma giusto per metterli un po' in guardia e non giocarci troppi scherzi. In fondo che cosa ne sanno loro che io non capisca la loro lingua, anche se sono giapponese?”
“Ma appunto, zio bello, non vi intendete fra di voi?” Insiste l'emiliana.
“Tra giapponesi e cinesi?”
“Eh! Non siete lì appiccicati?”
“Ma guarda, Serena, a parte che la Cina è grande più o meno come l'Europa, ma al di là di una serie di ideogrammi kanji, che si scrivono nello stesso modo, la lettura e la pronuncia è completamente differente.”
“Ma non è tutta la stessa solfa?”
“Ma no. È come se ti dicessi che un finlandese può capire l'italiano!”
“O come uno scozzese che riesce a comunicare con un greco!” Rincara Lucrezia per chiarire il concetto.
“O come un portoghese che discorre con un polacco!” Aggiungo io.
“O un islandese che parla il serbo-croato!” Lucrezia.
“O un albanese...”
“Bona lè! Ho capito!” interrompe infine l'emiliana, e si mette a ridere. “Veh, Yuko, fat mia sgamer!”
“Ma mi sa che mi hanno già sgamato da un pezzo. Però voglio lasciare loro il dubbio, almeno per contenere i danni.”
Intanto il cameriere è ritornato accompagnato da un omone gigantesco, decisamente obeso, il cranio pelato e lucido di sudore. Il tizio si presenta vestito di una maglietta completamente pezzata, che un tempo sicuramente doveva essere bianca. Si slaccia un lurido grembiulino dai riflessi iridescenti e si frega le mani.
“E in dove l'è andà a cater 'sto gnatoun?” Serena spalanca gli occhioni di fronte a questa massa umana che si avvicina traballante. Sembra di sentir vibrare i vetri alle finestre, ma forse è solo un'impressione.
“È l'addetto alle macchine della corazzata Potëmkin o il cuoco?” Si sbilancia Lucrezia.
“Cià che stasera a femm baraca!” Serena sembra scatenata e scoppia in una risata.
“Cazzo ridi, Serena!” La rimprovera Lucrezia. “Qui finiamo tutte e tre col culo per aria!”
“Be', non sarà mica il peggiore dei problemi!”
Io taccio, preoccupata. Mi sento responsabile dell'imprevista svolta della serata.
Ho invitato io le due amiche a festeggiare il capodanno cinese e l'inizio dell'anno della Tigre; il Tét, come viene chiamato in Viet Nam. Una festa diffusa in tutto l'estremo oriente e, naturalmente, anche in Giappone, ma molto sentita anche nelle comunità cinesi sparse in ogni paese del mondo.
Le ho fatte venire dalle loro regioni, qui a Milano, questa sera, al ristorante cinese tradizionale “Il gallo d'oro”. Un ottimo posto in cui ero già stata e dove si possono apprezzare le prelibatezze della vera cucina cinese, non quella imbastardita a uso della popolazione locale.
Ricette impensabili e introvabili. Impossibili da proporre al palato italiano. Dall'orecchio di maiale fritto alla medusa in agrodolce, e tante spezie e sapori introvabili in Europa e che mi riportano alla mia infanzia.
Le due amiche, poi, di certo non si scompongono per azzardi culinari e sapori inediti.
Volete mettere?
Un'emiliana DOC non si lascia di certo intimorire da certi esoterismi porcini, e la friulana è già abbastanza eccentrica di suo e ha sempre voglia di sperimentare nuove sensazioni e inedite situazioni.
Ma questa sera forse ci prenderanno tutte e tre alla lettera.
O forse alla “pecora”.
Sì, perchè quando mi sono presentata alla cassa per pagare il conto e offrire la cena, con candore il cassiere mi ha comunicato che il POS del Bancomat non funzionava.
Sorrisino da schiaffi.
Guardo nel portafoglio e ho solo venti euro.
Cazzo.
Torno al tavolo e chiedo, con un certo imbarazzo. Non mi piace perdere il controllo della situazione.
Ma Serena ha tranquillamente lasciato a casa il portafoglio, tanto non serviva. E be', ha ragione.
E Lucrezia ci ha offerto l'aperitivo proprio in piazza Duomo, facendo fuori una vagonata di contanti. Ma ci teneva così tanto. E anche lei ha solo il Bancomat.
Ecco.
E ora siamo qui a discutere con il direttore del ristorante che non vuole sentire ragioni e fa anche intendere di essere abbastanza incazzato.
Come se fosse colpa mia se non gli funziona quell'affarino per leggere i Bancomat. Manco ci ho pensato di chiedere prima, ma minchia, siamo a Milano, mica alla periferia di Caronno Pertusella.
E invece è come se fossimo nelle campagne della Manciuria.
Cibo tradizionale e tre donne che consumano una cena ricca e opulenta e che non possono pagare; e che ora devono subire recriminazioni e dileggi.
O forse stasera tritano minuziosamente i coglioni proprio perchè anch'io sono orientale e vengo a festeggiare in casa loro e a farmi servire.
A nulla valgono spiegazioni e tentativi di trattative. Qui in Chinatown anche la polizia italiana e i vigili urbani devono sottostare alle tradizioni orientali.
“Ci toccherà lavare i piatti?” Mi chiede ancora Serena.
Lucrezia la colpisce con il gomito e la guarda con un'espressione torva.
“Ma li hai visti in faccia? Guarda come si fregano le mani contenti. Qui ci condiscono alla pechinese!”
“E cioè?”
“Prova a immaginare.”
L'emiliana prova a immaginare e alla fine si apre in un radioso sorriso.
“Be', dai!”
Finalmente anche la friulana si concede un sorriso. Forse anche perchè coglie la mia preoccupazione e il mio imbarazzato dispiacere.
Tutte e tre abbiamo già ben chiaro nella mente quale potrebbe essere il nostro futuro a breve.
Di certo non ci faranno a pezzi per finire dentro ai prossimi involtini primavera; siamo preparate al peggio e restiamo in attesa. Se poi in qualche modo riusciremo a evitare quello che si delinea con dettaglio nella nostra navigata immaginazione, tanto meglio. Se no, che ci vuoi fare?
Noi siamo tre. Direi anche che siamo tre belle donne. Un po' alticce e vestite per giunta in modo un po' troppo provocante.
E anche loro, adesso, sono in tre.
Quello spilungone del direttore, alto e secco come un'acciuga. Anche abbastanza in là con gli anni. L'abbiamo già soprannominato 'zio Ho', appunto per una vaga somiglianza con il condottiero delle guerre del Viet Nam, contro i francesi e poi gli americani. Anche se mi dispiace tirare in ballo cotanta personalità.
Il cassiere o capo dei camerieri o checcazzonesò: un tappetto con qualche pelo di barba in faccia e delle labbra da magnaccio, un sorrisino da depravato sessuale, e quella massa informe del cuoco: quello sì, ci preoccupa molto.
Invece di portarci nel retro della cucina a lavare i piatti, e veramente fino all'ultimo ci abbiamo sperato, ci fanno salire oltre una porta che sembrava invisibile, nascosta dietro un enorme ritratto di Mao Tsê-tung, lungo una ripidissima scala nel buio più completo.
“A-n 's vedd un ostia!”
I commenti in dialetto di Serena stemperano la tensione, per fortuna.
Quasi a tastoni arriviamo in uno stanzino illuminato dalla luce fioca di una misera lampadina appesa a un filo elettrico che penzola dal soffitto.
“Nel pieno rispetto della normativa vigente...” Commenta Lucrezia e sembra che in qualche modo ci siamo un po' tutte rassegnate.
In mezzo c'è un letto sfatto, con un lenzuolo sgualcito. Odore stagnante di chiuso.
E chi si immaginava che sopra quel bel ristorante ci fosse questo squallore. Ma forse l'immagine per il turista che si affaccia oltre via Paolo Sarpi, nel quartiere cinese, è solo una facciata, e oltre qualche centimetro di cemento ricompare la vera Cina. Quella di cui i nostri culetti si preparano a fare esperienza.
Il direttore mi apostrofa in cinese, con fare autoritario.
Ovviamente io non capisco niente. Il mio misero bluff è stato rapidamente smascherato e ora lo zio Ho si gode la scena.
A gambe larghe, le mani affondate nelle tasche, ci guarda con la testa piegata di lato. Gli manca solo il cappello sulle ventitré e la sigaretta al lato delle labbra e potrebbe benissimo impersonare la versione cinese di Humphrey Bogart.
Provo a rilanciare rispondendogli in giapponese, ma Humphrey si incazza, alza la voce e ripete qualcosa che riesco solo a intuire che sia in lingua cantonese, e nulla di più.
E allora anche Lucrezia si innervosisce, gli punta il dito contro e inizia a inveire in una lingua sconosciuta, ma che di sicuro non è cinese.
Io e Serena ci guardiamo stringendoci nelle spalle, mentre Lucrezia porta avanti uno sproloquio probabilmente in dialetto friulano.
Ma un certo effetto l'ottiene.
Zio Ho la guarda allibito.
Riparte parlando in cinese, ma Lù dopo pochi secondi lo interrompe e lo sovrasta con il suo idioma intelligibile e lo mette a tacere.
“Ma che vi state dicendo?” Azzarda Serena.
“E che cazzo ne so, so solo che quel tono contro Yuko non mi piaceva e l'ho rimesso un attimo in riga.”
La bionda è soddisfatta.
In effetti siamo tutte e tre discretamente alte e Lucrezia incazzata, con quel suo petto esuberante, fa una certa impressione.
Ma alle nostre spalle la massa del cuoco si rende manifesta con un rantolo, un baritonale colpo di tosse scatarroso che ci riporta alla realtà.
Zio Ho, in tono più accomodante, comincia a snocciolare un incerto italiano.
“Signoline non pagale con soldi la cena...”
Be', fin qui ci siamo, pochi concetti, ma chiari.
“... signoline adesso dale noi culo.”
Un ragionamento cartesiano.
“Ah be'! Anche il francese sanno!” si complimenta Serena.
“Cos'è, una massima di Confucio?” Chiosa Lucrezia col suo savoir faire.
“Questo si chiama parlare per perifrasi.” Aggiungo io e comincio a guardarmi intorno per vedere dove appoggiare i vestiti. Inutile discutere. Siamo qui praticamente sequestrate e quell'enorme massa del cuoco si è piazzato davanti alla porta. Ma come avrà fatto a salire sulle scale?
Ci guardiamo tutte e tre. Solo Serena sorride.
“Dai, ragazze, facciamola finita”, la concretezza di Lucrezia, “prima iniziamo e prima finiamo!”
E si sfila il vestito.
Mi guarda e alla fine si mette anche a ridere. “Che cazzo di situazione... Dai, speriamo almeno di divertirci un poco.”
“Scusate, non avevo programmato questo dopocena.”
“Ca't 'gnis un chencher!” e Serena scoppia a ridere.
Sfilo i jeans sotto gli occhi curiosi dei tre cinesi. Be' un culo orientale l'avranno già visto e forse sono più incuriositi dalle chiappette nostrane.
“Mutandine trasparenti! Mica male Yuko!” Serena mi mangia con gli occhi, mentre anche lei si sfila la minigonna.
Sì, molto trasparenti, praticamente come non averle. Il pelo nero si nota bene sopra le mie cosce.
Lucrezia, invece, mette in mostra dei minislip rosso fuoco, in effetti ben più adeguati alla ricorrenza del capodanno.
“Eh Lù? Anche tu avevi fatto dei programmi per il dopocena, veh?”
Serena invece, spudoratamente, si mostra direttamente senza alcun indumento intimo, tra le acclamazioni dei tre cinesi, forse non abituati dalle loro dame a tanta spregiudicatezza.
Considerando che aveva una minigonna pubica, in effetti...
Nessuna di noi porta il reggiseno e in breve siamo nude.
I tre energumeni si sbarazzano dei loro vestiti mentre noi ci guardiamo le rispettive passere.
Evidente, ora, appare che tutte e tre avevamo fatto alcuni progetti per la serata da passare insieme.
“Sti tri bagai ce faran suder set camisi.” Prevede la modenese, mettendosi per prima in ginocchio sul letto, col sedere per aria.
Dietro di lei si piazza il cuoco, con una panza tanta che non si riesce nemmeno a vedere l'uccello. Istintivamente mi chiedo come farà a centrare l'amica di Modena; se dovrà tenersi la pancia sollevata o se dovrà farsi aiutare.
“Oh povera Serena!” La incoraggio. “Speriamo che quel Kung Fu Panda non ti squarti!”
Lei si mette a ridere, e dal quel momento il cuoco avrà quel nome.
“Non ti preoccupare, Yuko. Questo bignè alla panna me lo frollo io!” e strizza l'occhio.
“Sempre che 'lo' trovi, sotto a quella bonza!” Aggiunge, vedendo che il cuoco armeggia sotto la panza alla ricerca del mestolo, rimasto sepolto sotto la massa di lardo di colonnata.
Lucrezia sembra finalmente rassegnata e rilassata; sfilato il vestito sta esponendo con orgoglio il suo corpo statuario su cui i seni si impongono all'attenzione dei mandarini, grossi e ubertosi. E ride.
“Cosa ti ridi, te! Con quella ghegna da s'ciaf de dree alla s'cena!” Continua a sciorinare in dialetto l'emiliana mentre il panda si illumina in volto. Deve aver trovato il cannolo.
Alle spalle della friulana in effetti si è piazzato il capo cameriere che però, di fronte al sedere della bionda, con le leve che si ritrova Lucrezia, fa fatica ad arrivare all'altezza della sala giochi, lui, il cinese, troppo basso per quelle alture.
“Dai mo'! Comincia a spaciugher, gianduja!” Serena incita il cuoco che se lo sta menando per riportarlo a dimensioni visibili a occhio nudo.
Ormai è tutto un ridere, a vedere Serena completamente infoiata e disinibita che sembra aver preso in mano il comando della combriccola.
“Te Yuko, stag atenta al to' giandoun! Stasira me par un po' fiappo!”
“Spero solo che non gli venga un infarto! Mi sembra un filo in là con gli anni.”
“A l'è vec come al còcch! T'al dig me!”
Intanto il cameriere ha trovato un paio di cuscini su cui è salito, riuscendo ad arrivare agli ingressi della friulana e sembra che stia prendendo la mira.
Ho Chi Minh invece la mira l'ha già presa bene e, senza neanche un preliminare, mi ha infilato direttamente nel culo.
“Cazzo....” gemo per l'intrusione rapida, ma non indolore. “Ma questo di cosa ce l'ha fatta la cappella? Granito ghiandone?”
Sorte simile tocca a Serena.
“Vacca d'na miseria! Che ci ha messo il panda sopra il cazzo? La salsa Wasabi? Zio bello, se brucia!”
“Ha ha ha! Ma Serena quella è per il sushi, non per il cibo cinese!” Se la ride Lucrezia mentre il suo cavaliere, dopo lungo armeggiar, l'ha infilata direttamente nella passera. “Oh! Il mio o è un vero tradizionalista, oppure ha completamente sbagliato mira!”
“Ma va là, che al culo non ci arriva! T'al dig me!”
“In effetti sembrava anche un poco miope!”
E ridiamo, ma intanto lo zio Ho mi sta scartavetrando il deretano e non è affatto piacevole; con quella pialla mi sta tirando i trucioli fuori dal buco del culo.
Anche Serena ride, ma si vede che stringe i denti ogni volta che il cuoco ci da dentro.
“Eh no!” Sbotto io dopo che lo zio mi ha tornito per bene l'ingresso fornitori. “Non si può andare avanti così!”
Mi sfilo delicatamente Excalibur e con un dito indice ben alzato metto in guardia sir Lancillotto.
“Un attimo di pazienza!” Lo redarguisco soffocando sul nascere il primo accenno di protesta.
Giro dietro a Serena e stappo anche la sua bottiglia di lambrusco dallo spesso sughero del Kung Fu Panda. La pancia del trippone crolla come una ghigliottina celando il nerchione della muraglia cinese.
Mi inginocchio alle spalle della modenese e, mentre le infilo con lentezza due dita nella passera, con la lingua cerco di lenire il bruciore al buco più stretto, visibilmente arrossato.
Poche carezze di lingua ben salivata e poi mi ci infilo decisamente dentro, facendo gemere di insperato piacere l'amica della 'bassa'.
“Così si fa, Cin Ciam Pai! Ok?” Apostrofo l'immenso cuoco, citando il campione cinese dei 110 metri a ostacoli, riesumato dai vecchi ricordi del liceo.
Poi, con le dita ricoperte di morbido liquido vaginale, ripasso bene l'ingresso del lato B dell'amica, riconsegnandola al pianeta Grosso.
Lui pare aver apprezzato la lezione di stile e, con più rispetto, ricomincia le ricerche sotto la coltre di lardo, per una seconda manche che si prospetta più avvincente.
E, mentre il trenino entra di nuovo nella galleria sotto al monte Cimone, la donna del Secchia mi ricambia il favore con una bella leccata fra le cosce che genera la cascata delle Marmore dalla mia passerotta tutto burro.
Con cura certosina rivesto l'arnese del capo del ristorante del mio morbido muco prima di riconsegnargli il culo.
Anche lui sembra soddisfatto del siparietto saffico e riprende con un attimo di garbo in più la sonicazione al mio il deretano.
Ora comincia a essere anche piacevole, e vedere le mie due amiche rollate avanti e indietro, con quelle tette che ballano come altalene, è comunque un bello spettacolo.
“Come va, Lù?” Chiedo, mentre mi avvicino alla friulana sporgendo la lingua per baciarla.
“Per la verità non sento nulla.” Risponde lei, tradendo una certa delusione. “Già son sicura che ha sbagliato la mira, e poi, invece di una salsiccia mi ha infilato con una bacchetta cinese. Le dicerie sui nani sono tutte una montagna di grandi cazzate.”
“Vacca cane! E dillo mo' al panda, che mi ha trapanato il culo con un involtino primavera bel gross!”
Alle mie spalle, invece, lo zio Ho ha subito un rallentamento. Si è appoggiato alla mia schiena; mi ha preso le tette nelle mani e sta ansimando come una teiera sotto la pressione del vapore.
“Cazzo, gli sta venendo un edema polmonare!”
Serena scoppia a ridere e nel movimento vibratorio le si sfila il calippo del ciccione dal culo, che già faceva fatica a sporgere sotto il grembiulino di ciccia.
“Par plase, no monadis! Yuko, no ti capisis une madone! Quel mona ha un attacco d'asma!” Rincara la dose la friulana ormai in preda a un riso incontenibile.
“Ci hai mica del Ventolin?”
Nessun rispetto per un uomo che sta male.
Mi metto a ridere come una scema e, scuotendomi tutta, trasmetto le convulsioni anche al retrotreno.
Queste vibrazioni hanno però il tragico effetto di velocizzare la frizione sull'uccello cinese e in pochi secondi sento un clistere di sperma diffondersi nel mio basso intestino. Non uno tsunami, per carità, direi piuttosto un microclisma.
“Cazzo, l'avete fatto venire! Siete due donne senza cuore, ora che cominciavo a unire l'utile al dilettevole!”
“Ma di che ti lamenti, Yuko, io non sento un cazzo!”
“Eh be', in effetti, quale miglior modo di dire! Con quel grissino nella topa non ti fa nemmeno il solletico!” Ma intanto l'emiliana ha iniziato a sospirare e mentre Lucrezia le accarezza le tette, entrambe, noi due, ci avviciniamo alla sua bocca e, unendo le nostre lingue facciamo provare un “molto onolevole” orgasmo alla amica dell'oltre Pò.
Anche il cuoco le concede un ripieno di panna “montata” e forse delle tre questa è l'unica accoppiata che ha raggiunto un risultato apprezzabile.
“Che mattarello, raga! Alla fine l'affare si era ingrossato!” Serena si accascia sul letto, mentre la mortadella cinese si liquefa sul pavimento.
Il mio cavaliere con un rantolo mi scivola fuori dal corpo e, praticamente in coma, si accascia sul sudicio tappetino che schifeggia ai bordi del letto, lasciandomi piena di disappunto e insoddisfazione. Lo guardo indecisa se praticargli le manovre di rianimazione imparate al Basic Life Support.
“Fa finte di nie, Yuko!”
Lucrezia richiama la mia attenzione. Si sta annoiando e sembra che si stia guardando in giro in cerca di qualcosa da leggere, mentre il cameriere, alle sue spalle ci sta mettendo davvero tutto il suo impegno, ma con risultati decisamente sproporzionati all'abnegazione profusa.
Serena guarda incerta l'orologio, mentre insieme ci sediamo sul letto, a gambe incrociate, completamente nude, a tener compagnia a Lù, visibilmente stufa.
“Qualcuno conosce delle barzellette?”
“Cumò vonde!” Sbotta infine la friulana.
Si rialza in piedi e, sovrastando il suo cavaliere di un paio di spanne, lo guarda impietosita, cercando il modo di aiutarlo.
“Ragazze, si è fatta una certa!” Faccio notare indicando l'orologio.
“Ma non vorrete rimanere così, a metà, voi due?” Ci fa notare Serena.
“E l'impotente, qui?” Lucrezia indica col mento l'ultimo dei cinesi, che, tenendosi la banana in mano, ci guarda con un'espressione di implorazione.
“Facciamogli vedere come fanno le donne italiane!” Il lampo di genio di Serena.
“Sì, proprio italiane D.O.C.!” Aggiungo io. Ma non entriamo troppo nei dettagli.
Lucrezia mi ribalta sul letto, mi si avventa addosso e mentre con una mano mi regge la nuca, con l'altra mi affonda le unghie in una tetta. Le nostre bocche conducono a un incontro di culture e lingue di diversi continenti.
Serena mi si infila tra le gambe e con la lingua mi esplora fino al fornice vaginale.
Sotto l'attacco di queste due pantere scatenate, in pochi minuti comincio a urlare l'inno nazionale del Giappone, e mentre esplodo di zampilli come un'eruzione dell'Etna, Serena ripete il trattamento alla friulana. Tra esclamazioni in cui la parola “mona” la fa da padrona, la bionda di Udine esegue un repertorio di musica lirica da prima della Scala.
Poi, insieme io e la sorella, foderiamo di lingua la donna nata tra la via Emilia e il West e diamo ragione al detto “non c'è due senza tre”, con il terzo orgasmo in cinque minuti. Se non contiamo i due mandarini e il primo della modenese.
Rimaniamo sudate e abbracciate a baciarci e accarezzarci, e solo quando riprendiamo il senno ci accorgiamo del cameriere che ancora se lo sta menando, senza però arrivare al dunque.
“A mo' l'è chi, ches'chi?” Ormai i dialetti si mescolano, ma sentire una jap che parla milanese, questo neanche il compagno Cià Cià Cià l'aveva mai sperimentato.
“Oh, zio! Vuoi una mano?”
In breve circondiamo l'uomo più fortunato dell'anno della Tigre.
Serena ci mette tutto il suo impegno e la sua decantata maestria e, meglio di un'idrovora, inizia al cinese un pompino da risucchiargli anche l'anima. Lucrezia gli infila la lingua in bocca facendogli un'ortopantomografia, la famosa “panoramica” a tutta l'arcata dentaria.
E, infine, io, mentre gli infilo un ditino nel culo, lo ricopro di succhiotti che alla fine sembrerà un malato di vaiolo.
Il cinesino esplode in un orgasmo come i di fuochi d'artificio sotto il Vesuvio quando il Napoli di Maradona ha vinto lo scudetto. Altrochè i giochetti con la polvere da sparo nella città proibita del Celeste Impero.
Per non lasciare nulla di incompiuto, Serena, addirittura, si esibisce in gargarismi e gorgheggi prima di eiettare un getto di panna sul tappetino di cui sopra.
“Mo' va a cagher!” E liquida anche il terzo cinesino.
Tutte e tre, nude, in piedi sul letto, sole e vittoriose, contempliamo il campo di battaglia in cui tre relitti vanno alla deriva nel mar Giallo, in preda a un sommesso russare.
“Pari e patta!” Concludo, volgendo uno sguardo d'intorno.
“Va in mona, Yuko. Tre a zero!” Mi corregge Lucrezia e, rimessi i vestiti, scendiamo al ristorante e ne usciamo nell'aria fresca della sera.
Solo ora riguardo l'insegna del locale.
La scritta in italiano è “Il gallo d'oro”, ma se guardo gli ideogrammi originali, quelli cinesi, in kanji, la vera traduzione sarebbe “L'Uccello di Fuoco”.
Lo segnalo alle due amiche.
“Cazzo! Ora lo possiamo capire nel suo più profondo significato!”
“Se, se... quello filosofico, eh?”
“Un nome, una promessa!”
“E pensare che già l'altra volta che ci sono stata avevo notato questa cosa.” Mi ritorna in mente come una folgorazione.
“E non hai mai collegato?”
“Macchè! Credevo che il proprietario fosse un patito dei balletti di Stravinskij!”
“Eh, si, davvero!”
E ci allontaniamo in mezzo a Chinatown, per mano, piegate dalle risa, mentre intorno a noi esplodono botti, razzi e petardi.
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