L'albero della vita
di
Chicken1973
genere
sentimentali
Gli ultimi mesi erano stati un calvario per tutti quanti.
Settimane e giorni di pena che avevano scavato una fossa nera ed appiccicosa nel cuore di ognuno di loro.
Amici di infanzia, rimasti uniti in tanti anni quando normalmente la gente si perde.
Legami adolescenziali usualmente soppiantati da nuove reti di rapporti, che germogliano casuali sui rami delle scelte della vita che ti portano lontano dall’albero originario.
Non era questo il loro caso, rimasti uniti nonostante tutto.
Ritrovarsi per suonare assieme, negli anni della maturità, era stata la scialuppa di salvataggio per alcuni di loro.
Le rispettive mogli che si erano inserite senza far scattare la sindrome “Linda-Yoko”.
Matrimoni nati in seno al gruppo. E purtroppo anche lì dissoltisi.
Anniversari e riti stagionali raramente saltati, di anno in anno.
Un unico corpo, erano rimasti.
Ritrovarsi al secondo funerale a poche settimane di distanza dal primo sembrava allora un’ingiustizia senza senso.
Quella che avrebbe dovuto essere la più devastata quel giorno, Elisa, era l’unica che sembrava immune ai colpi ciechi del destino.
Sicuramente, la creaturina che teneva in braccio aveva un ruolo in questo;
il padre che aveva resistito fino all’ultima ora per vederla nascere e per salutarla prima di congedarsi egli stesso.
Al termine della cerimonia funebre, un tragico déjà-vu dopo il sofferto addio alla prima di loro, lei li aveva raccolti nella casa di campagna che era sempre stata una tana sicura per il gruppo di amici.
Erano arrivati ognuno per conto proprio, atomi che si andavano a ricomporre dopo una devastazione nucleare.
Lei li accoglieva, uno ad uno, un bacio sulla guancia, una carezza per ogni viso, con una mano, l’altro braccio impegnato a sorreggere la neonata.
Pensavano di sapere cosa si nascondesse dietro la curva delle sue labbra.
Ma quello che aveva preparato per loro sembrava dire altro.
Il giardino era arricchito da teli colorati, ognuno sotto un albero, cibo nel centro, bottiglie di vino, calici vuoti che chiedevano di essere riempiti.
Una celebrazione alla vita e all’amicizia, o una farsa fasulla e di facciata?
Un basso palco era allestito da un lato, una tastiera, una batteria minimale;
e quella tromba poggiata in terra, una piccola torre dorata che risplendeva nel sole primaverile, gettando scintille di luce che accecavano.
Erano tutti lì, corpi solitari che una tensione impalpabile attira e respinge, come magneti posizionati ad arte.
Parole di cortesia, nessuno osa avvicinarsi al cibo, confusione nei cuori.
Come comportarsi?
Cosa volete da me ora?
Cosa devo dire?
Chi ferirò con le mie inutili frasi di circostanza?
Una blasfemia per quello che siamo sempre stati.
Una bestemmia per quello che è appena successo.
Poi, lentamente, una nota dolorante si fa spazio nel silenzio sussurrato.
Lui, proprio lui che per primo aveva perso l’amata, da troppo poco tempo ancora per poterne parlare, aveva sollevato la sua tromba da terra.
Ne aveva portato il bocchino alle labbra, ed aveva cominciato a sospirarci il proprio dolore dentro.
Una nota che si sollevava lenta nell’aria, il capo prima chino, che lentamente si volge a sfidare il cielo, a cui gridare per una ingiustizia dagli impossibili risarcimenti.
Gli altri due compagni lo avevano seguito dopo poco, rispondendo alla chiamata, sedendosi agli sgabelli dietro la batteria e la tastiera.
Le prime timide note, un rintocco del ride, i rivetti che ballano una danza eccitata sul metallo dorato.
Un lento e dolente tre-quarti si distende sul prato, sui teli, sul cibo;
un valzer delicato ma orgoglioso che cerca di seguire le note squillanti della tromba.
Rispettoso ma sfacciato, li trascina fuori da quell’antro nero: ubriacarsi è l’unica cosa possibile.
E allora ubriachiamoci di vino e di musica.
Accordi che si fanno sempre più sbilenchi, ricordi di Tom Waits e di Capossela.
I suonatori sembrano volersi lasciare alle spalle queste giornate nere;
gli altri amici sono ancora paralizzati, come statue di sale di chi si è volto a guardare un’ultima volta Sodoma.
Ma Elisa è una perfetta maestra di cerimonia.
Riempie un primo calice e lo porge a lei, la sposa rifiutata.
Riempie un secondo calice e lo porge a lui, lo sposo rifiutato.
La prima coppia nata in seno al gruppo, la prima a sciogliersi per ragioni mai del tutto chiarite, tra il dispiacere di tutti.
Lunghe telefonate di ambasciatori che volevano ricucire veli strappati, inutili sforzi a cui né lo sposo né la sposa concessero spiegazioni.
Solo la separazione.
Ma ora sono lì, con i calici in mano, ed Elisa li conduce uno di fronte all’altra: si guardano negli occhi, e bevono.
Ed il liquido color rubino e la musica sembrano aiutarli a ricordare perché si fossero scelti.
O forse il dolore del momento li costringe a pensare a cosa avessero perso.
E si ritrovano fronte a fronte.
E, lentamente, labbra a labbra.
In un bacio prima incerto, poi appassionato.
Gli occhi di tutti a fissarli e ad unirli come un tempo, l’amicizia del gruppo a ricongiungere i pezzi rotti di una fragile terracotta.
Una lacrima bagna qualche guancia, umida come l'intimità della sposa un tempo rifiutata nel ritrovare un compagno a cui aggrapparsi in questo giorno maledetto.
Elisa riprende i calici, per liberarne le mani, che possono finalmente riscoprire i corpi un tempo familiari.
E qualcun altro muove un passo, lento si avvicina a lui che suona la tromba, gli gira attorno in un movimento di tango silenzioso;
ed abbraccia da dietro quell’alito dolente che soffia nello strumento.
E gli bacia il collo.
E tutti ricordano la loro amicizia di uomini, che forse non solo amicizia era, che sembrava essersi dissolta quando una donna era comparsa;
quella donna che non era più tra loro, quella donna per cui la tromba gridava la sua nota disperata.
Un bacio sul collo gonfio per lo sforzo del suonare, un bacio che può finalmente raccontare intimità da tutti sospettate ma da nessuno confermate, quando erano più giovani.
Una mano che scivola sul diaframma, e poi sulla pancia e sembra voler andare oltre, mentre terzine rubate trascinano l’accompagnamento di piano e batteria.
I due sposi riuniti.
Riuniti anche due vecchi amici.
Elisa si avvicina con i calici alle mogli, muse silenziose degli altri due suonatori.
Donne rimaste a casa nelle notti in cui i mariti erano persi in tournee, forse preda di tentazioni che preferivano non conoscere.
Donne che si erano tenute compagnia mentre i propri compagni erano rapiti chissà dove dall’incantesimo malato di una passione possessiva e gelosa.
I calici alle labbra, un sorso, e bocche che si cercano a vicenda, come anni fa, nel ricordo di come fosse dolce condividere letti, lenzuola e sconcezze nelle notti altrimenti solitarie.
I loro uomini le guardano da dietro gli strumenti, ma già hanno la propria amante sotto le dita, non hanno bisogno di altro che della propria musica.
Le mogli si baciano, le mani accarezzano i seni, i capezzoli si induriscono sotto i vestiti, le gambe si uniscono.
Due sposi riuniti, che ora non si accontentano più di un bacio;
Riuniti due amici ed amanti, una mano che è scesa più giù della pancia.
due mogli intrecciate, dita che frugano tra gli abiti per gettare via il lutto, uno dei calici che cade a terra;
il vino rosso ad ubriacare il prato, la musica incessante a stordire le fronde degli alberi.
Lo sguardo di Elisa si volge a lei, l’ultima rimasta, l’amica a cui nessuno chiedeva “be’, quando ti trovi un marito?”
Quella che gli uomini lasciamoli dove stanno che è meglio, quella che bastava a sé stessa.
Quella che ora, seduta sull’erba, si sta accarezzando tra le gambe, guardando il fiorire di questi corpi familiari;
l'altra mano che porta una ciliegia alle labbra, frutto tanto atteso dopo una stagione troppo a lungo fredda, una goccia del succo che le cade sul petto generoso, scivolando rossa tra i seni che non aveva voluto nascondere neanche in quell’occasione, incurante dei commenti che avrebbe potuto suscitare.
Quella donna solitaria che ha diritto al suo calice di vino, da cui raccogliere il bere di tutti.
Elisa si avvicina alle mogli che si stanno esplorando, ne aspira l’odore di sesso e libera una mano avida dall’impiccio del bicchiere, per poterlo finalmente porgere all’amica solitaria.
In un sorso, finisce il vino: un gesto avido che prelude l’infrangersi dell’ultima barriera, un dito che scosta l’elastico delle mutandine per infilarsi nel proprio intimo.
Sticazzi, tanto nessuno mi si incula in questa festa senza senso, che quelli che ci dovevano essere non ci sono più.
Due sposi riuniti, addossati ad un albero, a ricordare come fosse bello violare e violarsi i sessi con volgarità, quando si era una carne sola.
Riuniti due amanti, il cazzo che è stato liberato dalla prigione dei pantaloni, la mano dell’amico che sicuro ne ghermisce la carne, un massaggio furioso che si muove a tempo con la musica.
due mogli ora nude, una in ginocchio con la faccia nel ventre odoroso dell’amica, che intreccia dita e capelli spingendo avanti il pube affamato, a ricordare dolcezze da troppo tempo dimenticate, che questo è il momento per farlo.
Un’amica solitaria, che ‘sta vita è una presa in giro e tanto vale masturbarsi il giorno del funerale del tuo migliore amico, che un altro figlio degli uomini io non glielo regalo a questa terra disperata.
E intanto una bocca feroce attorno ad un capezzolo, succhia neanche sa perché, ma succhia.
Una donna allatta la propria figlia, in mezzo ai propri amici di sempre;
Elisa, il seno scoperto, appoggiata ad un albero in fiore, un sorriso pianto sulle labbra ora che nessuno la sta guardando.
E la musica che gira intorno.
Settimane e giorni di pena che avevano scavato una fossa nera ed appiccicosa nel cuore di ognuno di loro.
Amici di infanzia, rimasti uniti in tanti anni quando normalmente la gente si perde.
Legami adolescenziali usualmente soppiantati da nuove reti di rapporti, che germogliano casuali sui rami delle scelte della vita che ti portano lontano dall’albero originario.
Non era questo il loro caso, rimasti uniti nonostante tutto.
Ritrovarsi per suonare assieme, negli anni della maturità, era stata la scialuppa di salvataggio per alcuni di loro.
Le rispettive mogli che si erano inserite senza far scattare la sindrome “Linda-Yoko”.
Matrimoni nati in seno al gruppo. E purtroppo anche lì dissoltisi.
Anniversari e riti stagionali raramente saltati, di anno in anno.
Un unico corpo, erano rimasti.
Ritrovarsi al secondo funerale a poche settimane di distanza dal primo sembrava allora un’ingiustizia senza senso.
Quella che avrebbe dovuto essere la più devastata quel giorno, Elisa, era l’unica che sembrava immune ai colpi ciechi del destino.
Sicuramente, la creaturina che teneva in braccio aveva un ruolo in questo;
il padre che aveva resistito fino all’ultima ora per vederla nascere e per salutarla prima di congedarsi egli stesso.
Al termine della cerimonia funebre, un tragico déjà-vu dopo il sofferto addio alla prima di loro, lei li aveva raccolti nella casa di campagna che era sempre stata una tana sicura per il gruppo di amici.
Erano arrivati ognuno per conto proprio, atomi che si andavano a ricomporre dopo una devastazione nucleare.
Lei li accoglieva, uno ad uno, un bacio sulla guancia, una carezza per ogni viso, con una mano, l’altro braccio impegnato a sorreggere la neonata.
Pensavano di sapere cosa si nascondesse dietro la curva delle sue labbra.
Ma quello che aveva preparato per loro sembrava dire altro.
Il giardino era arricchito da teli colorati, ognuno sotto un albero, cibo nel centro, bottiglie di vino, calici vuoti che chiedevano di essere riempiti.
Una celebrazione alla vita e all’amicizia, o una farsa fasulla e di facciata?
Un basso palco era allestito da un lato, una tastiera, una batteria minimale;
e quella tromba poggiata in terra, una piccola torre dorata che risplendeva nel sole primaverile, gettando scintille di luce che accecavano.
Erano tutti lì, corpi solitari che una tensione impalpabile attira e respinge, come magneti posizionati ad arte.
Parole di cortesia, nessuno osa avvicinarsi al cibo, confusione nei cuori.
Come comportarsi?
Cosa volete da me ora?
Cosa devo dire?
Chi ferirò con le mie inutili frasi di circostanza?
Una blasfemia per quello che siamo sempre stati.
Una bestemmia per quello che è appena successo.
Poi, lentamente, una nota dolorante si fa spazio nel silenzio sussurrato.
Lui, proprio lui che per primo aveva perso l’amata, da troppo poco tempo ancora per poterne parlare, aveva sollevato la sua tromba da terra.
Ne aveva portato il bocchino alle labbra, ed aveva cominciato a sospirarci il proprio dolore dentro.
Una nota che si sollevava lenta nell’aria, il capo prima chino, che lentamente si volge a sfidare il cielo, a cui gridare per una ingiustizia dagli impossibili risarcimenti.
Gli altri due compagni lo avevano seguito dopo poco, rispondendo alla chiamata, sedendosi agli sgabelli dietro la batteria e la tastiera.
Le prime timide note, un rintocco del ride, i rivetti che ballano una danza eccitata sul metallo dorato.
Un lento e dolente tre-quarti si distende sul prato, sui teli, sul cibo;
un valzer delicato ma orgoglioso che cerca di seguire le note squillanti della tromba.
Rispettoso ma sfacciato, li trascina fuori da quell’antro nero: ubriacarsi è l’unica cosa possibile.
E allora ubriachiamoci di vino e di musica.
Accordi che si fanno sempre più sbilenchi, ricordi di Tom Waits e di Capossela.
I suonatori sembrano volersi lasciare alle spalle queste giornate nere;
gli altri amici sono ancora paralizzati, come statue di sale di chi si è volto a guardare un’ultima volta Sodoma.
Ma Elisa è una perfetta maestra di cerimonia.
Riempie un primo calice e lo porge a lei, la sposa rifiutata.
Riempie un secondo calice e lo porge a lui, lo sposo rifiutato.
La prima coppia nata in seno al gruppo, la prima a sciogliersi per ragioni mai del tutto chiarite, tra il dispiacere di tutti.
Lunghe telefonate di ambasciatori che volevano ricucire veli strappati, inutili sforzi a cui né lo sposo né la sposa concessero spiegazioni.
Solo la separazione.
Ma ora sono lì, con i calici in mano, ed Elisa li conduce uno di fronte all’altra: si guardano negli occhi, e bevono.
Ed il liquido color rubino e la musica sembrano aiutarli a ricordare perché si fossero scelti.
O forse il dolore del momento li costringe a pensare a cosa avessero perso.
E si ritrovano fronte a fronte.
E, lentamente, labbra a labbra.
In un bacio prima incerto, poi appassionato.
Gli occhi di tutti a fissarli e ad unirli come un tempo, l’amicizia del gruppo a ricongiungere i pezzi rotti di una fragile terracotta.
Una lacrima bagna qualche guancia, umida come l'intimità della sposa un tempo rifiutata nel ritrovare un compagno a cui aggrapparsi in questo giorno maledetto.
Elisa riprende i calici, per liberarne le mani, che possono finalmente riscoprire i corpi un tempo familiari.
E qualcun altro muove un passo, lento si avvicina a lui che suona la tromba, gli gira attorno in un movimento di tango silenzioso;
ed abbraccia da dietro quell’alito dolente che soffia nello strumento.
E gli bacia il collo.
E tutti ricordano la loro amicizia di uomini, che forse non solo amicizia era, che sembrava essersi dissolta quando una donna era comparsa;
quella donna che non era più tra loro, quella donna per cui la tromba gridava la sua nota disperata.
Un bacio sul collo gonfio per lo sforzo del suonare, un bacio che può finalmente raccontare intimità da tutti sospettate ma da nessuno confermate, quando erano più giovani.
Una mano che scivola sul diaframma, e poi sulla pancia e sembra voler andare oltre, mentre terzine rubate trascinano l’accompagnamento di piano e batteria.
I due sposi riuniti.
Riuniti anche due vecchi amici.
Elisa si avvicina con i calici alle mogli, muse silenziose degli altri due suonatori.
Donne rimaste a casa nelle notti in cui i mariti erano persi in tournee, forse preda di tentazioni che preferivano non conoscere.
Donne che si erano tenute compagnia mentre i propri compagni erano rapiti chissà dove dall’incantesimo malato di una passione possessiva e gelosa.
I calici alle labbra, un sorso, e bocche che si cercano a vicenda, come anni fa, nel ricordo di come fosse dolce condividere letti, lenzuola e sconcezze nelle notti altrimenti solitarie.
I loro uomini le guardano da dietro gli strumenti, ma già hanno la propria amante sotto le dita, non hanno bisogno di altro che della propria musica.
Le mogli si baciano, le mani accarezzano i seni, i capezzoli si induriscono sotto i vestiti, le gambe si uniscono.
Due sposi riuniti, che ora non si accontentano più di un bacio;
Riuniti due amici ed amanti, una mano che è scesa più giù della pancia.
due mogli intrecciate, dita che frugano tra gli abiti per gettare via il lutto, uno dei calici che cade a terra;
il vino rosso ad ubriacare il prato, la musica incessante a stordire le fronde degli alberi.
Lo sguardo di Elisa si volge a lei, l’ultima rimasta, l’amica a cui nessuno chiedeva “be’, quando ti trovi un marito?”
Quella che gli uomini lasciamoli dove stanno che è meglio, quella che bastava a sé stessa.
Quella che ora, seduta sull’erba, si sta accarezzando tra le gambe, guardando il fiorire di questi corpi familiari;
l'altra mano che porta una ciliegia alle labbra, frutto tanto atteso dopo una stagione troppo a lungo fredda, una goccia del succo che le cade sul petto generoso, scivolando rossa tra i seni che non aveva voluto nascondere neanche in quell’occasione, incurante dei commenti che avrebbe potuto suscitare.
Quella donna solitaria che ha diritto al suo calice di vino, da cui raccogliere il bere di tutti.
Elisa si avvicina alle mogli che si stanno esplorando, ne aspira l’odore di sesso e libera una mano avida dall’impiccio del bicchiere, per poterlo finalmente porgere all’amica solitaria.
In un sorso, finisce il vino: un gesto avido che prelude l’infrangersi dell’ultima barriera, un dito che scosta l’elastico delle mutandine per infilarsi nel proprio intimo.
Sticazzi, tanto nessuno mi si incula in questa festa senza senso, che quelli che ci dovevano essere non ci sono più.
Due sposi riuniti, addossati ad un albero, a ricordare come fosse bello violare e violarsi i sessi con volgarità, quando si era una carne sola.
Riuniti due amanti, il cazzo che è stato liberato dalla prigione dei pantaloni, la mano dell’amico che sicuro ne ghermisce la carne, un massaggio furioso che si muove a tempo con la musica.
due mogli ora nude, una in ginocchio con la faccia nel ventre odoroso dell’amica, che intreccia dita e capelli spingendo avanti il pube affamato, a ricordare dolcezze da troppo tempo dimenticate, che questo è il momento per farlo.
Un’amica solitaria, che ‘sta vita è una presa in giro e tanto vale masturbarsi il giorno del funerale del tuo migliore amico, che un altro figlio degli uomini io non glielo regalo a questa terra disperata.
E intanto una bocca feroce attorno ad un capezzolo, succhia neanche sa perché, ma succhia.
Una donna allatta la propria figlia, in mezzo ai propri amici di sempre;
Elisa, il seno scoperto, appoggiata ad un albero in fiore, un sorriso pianto sulle labbra ora che nessuno la sta guardando.
E la musica che gira intorno.
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