Siracusa e poi Palermo Anno Domini 859
di
beast
genere
gay
Era l’anno del Signore 859 quando gli infedeli con un inganno presero la città.
Pare che fummo traditi da un mercenario che pensò bene di venderci ai mussulmani e li fece entrare da un vecchio canale di scolo ormai inutilizzato.
Si disse poi che il suo corpo venne trovato, a pezzi in un fosso, ma il danno ormai era fatto e un manipolo di loro entrò nottetempo, aprendo le porte ai soldati saraceni che aspettavano fuori le mura.
La città sarebbe caduta comunque di lì a breve, perché le nuove macchine da guerra, inventate e appositamente costruite per questo assedio, avevano ormai quasi ridotto le mura a dei cumuli di macerie.
Inoltre la popolazione era stremata e ridotta alla fame, visto che tutte le vie e le possibilità di rifornire la città erano state interrotte dagli assedianti, che avevano fatto piazza pulita e razziato tutti i dintorni.
L’orda di saraceni si riversò quindi tra le strade di Siracusa non risparmiando nessuno di quelli che indossavano le armi.
Tutte le donne furono violentate, almeno quelle che non erano troppo vecchie o troppo giovani, e vi posso giurare che ben poche furono considerate tali, perché vidi con i miei occhi delle vecchie di più di quarant’anni subire l’onta della violenza carnale, e diverse bambine squartate da quelle bande di esseri infernali, che non si possono certo definire umani.
Anche alcuni giovani uomini subirono la stessa sorte infamante, perché quei selvaggi non facevano molta differenza tra donne e uomini, quando si trattava di infilare il loro pene circonciso tra le cosce o il deretano di qualcuno.
Grazie a Dio io non fui tra quelli, non che non fossi giovane o che fossi ripugnante, anzi, ero un giovane uomo dal corpo asciutto e vigoroso, con i muscoli ben scolpiti da anni di lavoro nell’orto del monastero.
Non vorrei cadere nel peccato di superbia, Dio me ne scampi, ma posso affermare di avere un corpo che faceva onore al nostro Signore e faceva gola a più di un fratello, soprattutto a quelli più anziani, me ne rendevo conto vedendo i loro sguardi obliqui, specialmente quando ci lavavamo nei bagni del convento, e le gomitate e i commenti che alcuni di loro facevano al mio passaggio, o mentre mangiavamo nel refettorio.
Ma fino ad allora ero riuscito a preservare intatto il mio corpo, evitando di mettermi in situazioni equivoche e rifiutando le proposte ambigue di alcuni dei miei fratelli più chiacchierati.
Scusate se mi dilungo, dicevo che non subii quella degradante aberrazione perché volle il caso che il gruppo di soldati che si riversò nel nostro monastero fosse agli ordini di un comandante meno selvaggio e brutale di altri.
O forse la verità era solo che fosse più interessato a preservarci intatti per ricavare il massimo ricavo dal proprio bottino di guerra.
Tutti noi monaci fummo radunati nel chiostro principale e fummo legati l’uno all’altro come bestie, in attesa di essere condotti alle navi per venire successivamente portati a qualche mercato di schiavi.
Solo Procopio, il nostro buon priore venne fatto inginocchiare e sgozzato come un capretto davanti ai nostri occhi inorriditi, probabilmente per farci intendere che sarebbe stato molto meglio non cercare di fuggire.
Eravamo tutti in lacrime, prostrati in ginocchio sul pavimento di pietra, piangendo e pregando per l'anima del buon priore, quando quello che suppongo fosse il Comandante entrò nel chiostro per osservare da vicino il frutto della razzia dei suoi uomini.
Era un uomo alto, dal portamento eretto e fiero, e tutti i suoi, timorosi di incontrare il suo sguardo tagliente, abbassavano il volto al suo passaggio.
Indossava una tunica blu, che copriva una leggera corazza in cuoio berbero riccamente cesellata al bulino.
Il capo era coperto da un turbante anch’esso color blu cobalto intenso, i cui lembi erano drappeggiati in modo da nasconderne gran parte del volto abbronzato.
Si potevano vedere solo i due fieri occhi, neri come la notte, lanciare a destra e a manca rapidi sguardi rapaci, con cui avrebbe trafitto chiunque avesse osato sfidato con uno sguardo.
Si fermò davanti a noi con i pugni sui fianchi, sembrava assai soddisfatto, come se vedesse non uomini ma piccole sacchi di denaro sonante.
Alzai gli occhi timoroso per guardarlo, lui si abbassò verso di me, mi mise un dito sotto il
mento e mi sollevò il volto facendolo ruotare a destra e a sinistra per guardarmi meglio.
Poi diede un ordine ad uno dei suoi sgherri che mi fece alzare in malo modo e con un gesto secco mi strappò la tunica di dosso, lasciandomi seminudo e tremebondo mentre lui e i suoi soldati ridacchiavano dandosi di gomito.
Mi separarono dagli altri, che vennero condotti in malo modo verso le navi che aspettavano in rada.
Non seppi più nulla di nessuno di loro, io invece, insieme al resto del bottino sottratto al monastero, fui portato nella capitale dell’isola.
Palermo, conquistata nel 831 era chiamata dagli infedeli Balarm, ed era diventata la capitale della Sicilia musulmana.
Arrivai dopo tre giorni di viaggio, legato al dorso di un mulo e fui sistemato in una specie di cella che si trovava nel sotterraneo di un nobile palazzo cittadino.
Il mattino seguente due enormi sgherri accompagnarono da me delle serve, che mi portarono al piano di sopra e mi fecero lavare in una grande vasca di mosaico, riempita di acqua bollente e mi cosparsero il corpo con un olio leggermente profumato.
Con immensa vergogna, nonostante recitassi tutte le preghiere possibili, non potei evitare che il mio organo sessuale si indurisse e si alzasse a causa delle loro attenzioni, che pure non erano affatto lascive e avevano il solo intento di ripulirmi accuratamente.
In seguito mi fecero indossare una corta tunica in lino che mi strinsero in vita con una cintura di seta intrecciata con perline di vetro multicolore.
Mi fecero cenno di seguirle e mi condussero in una grande stanza con al centro un enorme letto a baldacchino.
Le sue colonne a tortiglione, riccamente scolpite nel legno di sandalo, si ergevano verso il soffitto a cupola, e sorreggevano delle travi leggere, scolpite anch’esse, da cui pendevano leggeri veli di garza che si gonfiavano al minimo soffio d’aria.
Fui fatto accomodare sul grande e morbido letto, coperto da lenzuola di lino ricamate e venni lasciato in balia di me stesso e dei miei più cupi pensieri.
Di fianco a me, su un tavolino ottagonale, riccamente intarsiato di madreperla e legni pregiati, un grande vassoio d’argento colmo di frutta fresca e datteri e una caraffa d’acqua con due bicchieri di argento sbalzato.
Non avrei voluto toccare quel cibo, ma dopo tutte quelle ore di attesa e una notte digiuna non resistetti oltre e mi gettai su quella meravigliosa frutta.
Era squisita, mai nella mia vita avevo assaggiato dei datteri così dolci e così ricchi di zucchero.
Bevvi anche uno o forse due calici acqua e presto non riuscii a evitare di addormentarmi cullato dai caldi raggi del sole pomeridiano che penetravano attraverso i pesanti tendaggi ricamati.
Non so dopo quante ore mi risvegliai, ma ne dovevano essere passate parecchie perché fuori ormai il sole era tramontato e qualcuno si era introdotto nella stanza e aveva acceso il fuoco in un grande braciere di ottone al centro del locale, oltre a mille e mille candele che con le loro fiammelle tremolanti davano alla grande stanza un’aria magica.
Non ero ancora completamente desto quando le grandi porte si spalancarono e il capo, quello che, qualche giorno prima mi aveva squadrato come un capo di bestiame fece il suo ingresso.
Mi gettò uno sguardo che sembrava assai compiaciuto e poi fu preso in consegna da quattro giovani serve che gentilmente lo fecero entrare in una grande tinozza di acqua bollente, anch’essa comparsa come per miracolo nella stanza senza che me ne rendessi conto.
Le giovani schiave giravano attorno a lui lavandolo e coccolandolo come farebbe un gruppo di api operaie intorno alla loro regina, fino a quando, stufo di tutte queste attenzioni, l’uomo si erse, completamente nudo al centro della tinozza, avrei dovuto voltare la testa, ne sono consapevole mio Signore, ma non riuscii a togliere lo sguardo dal suo sesso scuro che semi eretto si ergeva orgogliosamente, puntando verso il soffitto.
Le tre serve si dileguarono velocemente tra mille risolini, solo una, più anziana si fermò per aiutare il suo signore ad asciugarsi e infilarsi una leggera vestaglia di seta color zafferano, dai mille ricami bordeaux e azzurro cielo.
Poi fu la volta anche per lei di lasciare la stanza, camminando all’indietro sparì attraverso una delle tante porte nascoste.
Ora ero solo con lui, la stanza illuminata da mille fiammelle risplendeva come se non fossimo in una stanza ma sotto la volta celeste.
Io giacevo ancora sul grande letto, ma ormai ero completamente sveglio, e di nuovo, mio Signore, in preda a un’erezione che non ha altra spiegazione se non quella dello zampino di Lucifero in persona.
Il mussulmano si sfilò la tunica dalle spalle e la fece cadere sul pavimento, mentre si avvicinava guardandomi dritto negli occhi.
Era un bellissimo uomo, il corpo muscoloso e asciutto, dalla pelle ambrata, la mascella volitiva nascosta da una bella barba nera come la notte, nonostante le folte sopracciglia, gli occhi marroni luccicavano ardenti.
Venne così vicino che la sua erezione e la mia si sfiorarono mentre mi spogliò, lasciando che anche la mia tunica scivolasse a terra.
Dio misericordioso, ti chiedo perdono per i pensieri impuri che mi passarono per il cervello.
Mi giravano nella testa quelle immagini immonde di uomini che si univano carnalmente tra loro, immagini che non avrei mai voluto vedere ma che un vecchio monaco mi aveva costretto a guardare nella biblioteca del monastero di Siracusa.
Il capo degli infedeli mi girò intorno in modo da trovarsi dietro di me, appoggiando il suo corpo muscoloso contro il mio dorso, cingendomi le spalle con le sue braccia incredibilmente muscolose e baciandomi delicatamente il collo.
Il suo fallo duro come la pietra premeva contro le mie bianche natiche e (Dio abbi pietà di me), anche il mio non era da meno.
“Stanotte non ti chiederò di ripudiare il tuo falso Dio” mi disse, “ma solo di ripudiare la tua natura di uomo, non ti chiederò di accettare il vero e unico Dio, quello che ci è stato rivelato da Profeta Maometto, ma solo di accogliere dentro di te la mia verga e il mio seme.”
Mi spinse delicatamente facendomi cadere a pancia sotto sul morbido materasso.
Lui si inginocchiò alla base del letto, mi afferrò per le caviglie e mi tirò a sé.
Mi allargò le natiche con le sue dita d’acciaio e tuffò la faccia proprio lì in mezzo.
Quando la sua lingua infedele si mise a scavare dei solchi tra i miei glutei e a penetrare sempre più profondamente dentro il mio corpo capii che stavo perdendo anche la più remota possibilità di varcare le porte del Paradiso.
Non perché stavo per essere violato, ma perché mi piaceva!
Con la coda dell’occhio vidi che il mio carnefice, o meglio il carnefice della mia povera anima, visto ché il mio corpo stava benissimo, stava immergendo le dita di una mano in un vasetto di vetro azzurro, le ritrasse cosparse di un unguento profumato che utilizzò per lubrificare adeguatamente il mio orifizio anale.
Una volta che fui sufficientemente preparato per il sacrificio sentii che mi appoggiava la sua scimitarra di carne contro la mia di carne, fremente di timore ma anche di desiderio.
Chiusi gli occhi e inoltrai una muta preghiera sperando che arrivasse fino al cielo, chiedendo di non provare dolore e sperando di poter essere perdonato se avessi invece dovuto provare piacere.
Successero entrambe le cose, quando il suo membro entrò dentro di me, mi causò un po’ di dolore, ma le dolci parole che mi sussurrò all’orecchio mi tranquillizzarono e in effetti dopo qualche secondo la mia carne cominciò a provare un leggero piacere, e via, via che mi penetrava più in profondità si trasformò in un vero e proprio godimento.
Dio mio potrai mai perdonarmi? L’infedele mi stava scopando come fossi la sua donna e io provavo un piacere inaudito, non solo fisico ma anche mentale al pensiero di essere suo.
Lui andò avanti a scoparmi come se fossi la sua femmina, la sua schiava, la sua donna, penetrandomi sempre più a fondo, mordendomi le spalle e il collo, baciandomi lascivamente le orecchie e dicendomi che ero suo e io godevo come non avrei mai pensato di poter godere, e venni, riempiendo quelle lenzuola immacolate del mio seme impuro.
Ad un certo punto sentii che si arrestava e poi spingendo il suo fallo più a fondo possibile tra le mie carni lo sentii urlare come un demone mentre mi scaricava il suo seme blasfemo negli sfinteri.
Si abbandonò inerme sulla mia schiena il sudore di entrambi suggellava i nostri corpi bollenti, e mi sussurrò nelle orecchie che da ora sarei stato il suo amante cristiano.
Sentivo ancora il suo fallo dentro di me che lentamente tornava a delle dimensioni normali mentre la sua bianca linfa fuoriusciva quasi gorgogliando e colava lungo le mie cosce.
Io realizzavo di aver perduto la mia anima e nello stesso tempo ringraziavo Dio per aver messo questo uomo sulla mia strada e avermi permesso di provare questa esperienza.
Da oggi cominciava la mia nuova vita.
Pare che fummo traditi da un mercenario che pensò bene di venderci ai mussulmani e li fece entrare da un vecchio canale di scolo ormai inutilizzato.
Si disse poi che il suo corpo venne trovato, a pezzi in un fosso, ma il danno ormai era fatto e un manipolo di loro entrò nottetempo, aprendo le porte ai soldati saraceni che aspettavano fuori le mura.
La città sarebbe caduta comunque di lì a breve, perché le nuove macchine da guerra, inventate e appositamente costruite per questo assedio, avevano ormai quasi ridotto le mura a dei cumuli di macerie.
Inoltre la popolazione era stremata e ridotta alla fame, visto che tutte le vie e le possibilità di rifornire la città erano state interrotte dagli assedianti, che avevano fatto piazza pulita e razziato tutti i dintorni.
L’orda di saraceni si riversò quindi tra le strade di Siracusa non risparmiando nessuno di quelli che indossavano le armi.
Tutte le donne furono violentate, almeno quelle che non erano troppo vecchie o troppo giovani, e vi posso giurare che ben poche furono considerate tali, perché vidi con i miei occhi delle vecchie di più di quarant’anni subire l’onta della violenza carnale, e diverse bambine squartate da quelle bande di esseri infernali, che non si possono certo definire umani.
Anche alcuni giovani uomini subirono la stessa sorte infamante, perché quei selvaggi non facevano molta differenza tra donne e uomini, quando si trattava di infilare il loro pene circonciso tra le cosce o il deretano di qualcuno.
Grazie a Dio io non fui tra quelli, non che non fossi giovane o che fossi ripugnante, anzi, ero un giovane uomo dal corpo asciutto e vigoroso, con i muscoli ben scolpiti da anni di lavoro nell’orto del monastero.
Non vorrei cadere nel peccato di superbia, Dio me ne scampi, ma posso affermare di avere un corpo che faceva onore al nostro Signore e faceva gola a più di un fratello, soprattutto a quelli più anziani, me ne rendevo conto vedendo i loro sguardi obliqui, specialmente quando ci lavavamo nei bagni del convento, e le gomitate e i commenti che alcuni di loro facevano al mio passaggio, o mentre mangiavamo nel refettorio.
Ma fino ad allora ero riuscito a preservare intatto il mio corpo, evitando di mettermi in situazioni equivoche e rifiutando le proposte ambigue di alcuni dei miei fratelli più chiacchierati.
Scusate se mi dilungo, dicevo che non subii quella degradante aberrazione perché volle il caso che il gruppo di soldati che si riversò nel nostro monastero fosse agli ordini di un comandante meno selvaggio e brutale di altri.
O forse la verità era solo che fosse più interessato a preservarci intatti per ricavare il massimo ricavo dal proprio bottino di guerra.
Tutti noi monaci fummo radunati nel chiostro principale e fummo legati l’uno all’altro come bestie, in attesa di essere condotti alle navi per venire successivamente portati a qualche mercato di schiavi.
Solo Procopio, il nostro buon priore venne fatto inginocchiare e sgozzato come un capretto davanti ai nostri occhi inorriditi, probabilmente per farci intendere che sarebbe stato molto meglio non cercare di fuggire.
Eravamo tutti in lacrime, prostrati in ginocchio sul pavimento di pietra, piangendo e pregando per l'anima del buon priore, quando quello che suppongo fosse il Comandante entrò nel chiostro per osservare da vicino il frutto della razzia dei suoi uomini.
Era un uomo alto, dal portamento eretto e fiero, e tutti i suoi, timorosi di incontrare il suo sguardo tagliente, abbassavano il volto al suo passaggio.
Indossava una tunica blu, che copriva una leggera corazza in cuoio berbero riccamente cesellata al bulino.
Il capo era coperto da un turbante anch’esso color blu cobalto intenso, i cui lembi erano drappeggiati in modo da nasconderne gran parte del volto abbronzato.
Si potevano vedere solo i due fieri occhi, neri come la notte, lanciare a destra e a manca rapidi sguardi rapaci, con cui avrebbe trafitto chiunque avesse osato sfidato con uno sguardo.
Si fermò davanti a noi con i pugni sui fianchi, sembrava assai soddisfatto, come se vedesse non uomini ma piccole sacchi di denaro sonante.
Alzai gli occhi timoroso per guardarlo, lui si abbassò verso di me, mi mise un dito sotto il
mento e mi sollevò il volto facendolo ruotare a destra e a sinistra per guardarmi meglio.
Poi diede un ordine ad uno dei suoi sgherri che mi fece alzare in malo modo e con un gesto secco mi strappò la tunica di dosso, lasciandomi seminudo e tremebondo mentre lui e i suoi soldati ridacchiavano dandosi di gomito.
Mi separarono dagli altri, che vennero condotti in malo modo verso le navi che aspettavano in rada.
Non seppi più nulla di nessuno di loro, io invece, insieme al resto del bottino sottratto al monastero, fui portato nella capitale dell’isola.
Palermo, conquistata nel 831 era chiamata dagli infedeli Balarm, ed era diventata la capitale della Sicilia musulmana.
Arrivai dopo tre giorni di viaggio, legato al dorso di un mulo e fui sistemato in una specie di cella che si trovava nel sotterraneo di un nobile palazzo cittadino.
Il mattino seguente due enormi sgherri accompagnarono da me delle serve, che mi portarono al piano di sopra e mi fecero lavare in una grande vasca di mosaico, riempita di acqua bollente e mi cosparsero il corpo con un olio leggermente profumato.
Con immensa vergogna, nonostante recitassi tutte le preghiere possibili, non potei evitare che il mio organo sessuale si indurisse e si alzasse a causa delle loro attenzioni, che pure non erano affatto lascive e avevano il solo intento di ripulirmi accuratamente.
In seguito mi fecero indossare una corta tunica in lino che mi strinsero in vita con una cintura di seta intrecciata con perline di vetro multicolore.
Mi fecero cenno di seguirle e mi condussero in una grande stanza con al centro un enorme letto a baldacchino.
Le sue colonne a tortiglione, riccamente scolpite nel legno di sandalo, si ergevano verso il soffitto a cupola, e sorreggevano delle travi leggere, scolpite anch’esse, da cui pendevano leggeri veli di garza che si gonfiavano al minimo soffio d’aria.
Fui fatto accomodare sul grande e morbido letto, coperto da lenzuola di lino ricamate e venni lasciato in balia di me stesso e dei miei più cupi pensieri.
Di fianco a me, su un tavolino ottagonale, riccamente intarsiato di madreperla e legni pregiati, un grande vassoio d’argento colmo di frutta fresca e datteri e una caraffa d’acqua con due bicchieri di argento sbalzato.
Non avrei voluto toccare quel cibo, ma dopo tutte quelle ore di attesa e una notte digiuna non resistetti oltre e mi gettai su quella meravigliosa frutta.
Era squisita, mai nella mia vita avevo assaggiato dei datteri così dolci e così ricchi di zucchero.
Bevvi anche uno o forse due calici acqua e presto non riuscii a evitare di addormentarmi cullato dai caldi raggi del sole pomeridiano che penetravano attraverso i pesanti tendaggi ricamati.
Non so dopo quante ore mi risvegliai, ma ne dovevano essere passate parecchie perché fuori ormai il sole era tramontato e qualcuno si era introdotto nella stanza e aveva acceso il fuoco in un grande braciere di ottone al centro del locale, oltre a mille e mille candele che con le loro fiammelle tremolanti davano alla grande stanza un’aria magica.
Non ero ancora completamente desto quando le grandi porte si spalancarono e il capo, quello che, qualche giorno prima mi aveva squadrato come un capo di bestiame fece il suo ingresso.
Mi gettò uno sguardo che sembrava assai compiaciuto e poi fu preso in consegna da quattro giovani serve che gentilmente lo fecero entrare in una grande tinozza di acqua bollente, anch’essa comparsa come per miracolo nella stanza senza che me ne rendessi conto.
Le giovani schiave giravano attorno a lui lavandolo e coccolandolo come farebbe un gruppo di api operaie intorno alla loro regina, fino a quando, stufo di tutte queste attenzioni, l’uomo si erse, completamente nudo al centro della tinozza, avrei dovuto voltare la testa, ne sono consapevole mio Signore, ma non riuscii a togliere lo sguardo dal suo sesso scuro che semi eretto si ergeva orgogliosamente, puntando verso il soffitto.
Le tre serve si dileguarono velocemente tra mille risolini, solo una, più anziana si fermò per aiutare il suo signore ad asciugarsi e infilarsi una leggera vestaglia di seta color zafferano, dai mille ricami bordeaux e azzurro cielo.
Poi fu la volta anche per lei di lasciare la stanza, camminando all’indietro sparì attraverso una delle tante porte nascoste.
Ora ero solo con lui, la stanza illuminata da mille fiammelle risplendeva come se non fossimo in una stanza ma sotto la volta celeste.
Io giacevo ancora sul grande letto, ma ormai ero completamente sveglio, e di nuovo, mio Signore, in preda a un’erezione che non ha altra spiegazione se non quella dello zampino di Lucifero in persona.
Il mussulmano si sfilò la tunica dalle spalle e la fece cadere sul pavimento, mentre si avvicinava guardandomi dritto negli occhi.
Era un bellissimo uomo, il corpo muscoloso e asciutto, dalla pelle ambrata, la mascella volitiva nascosta da una bella barba nera come la notte, nonostante le folte sopracciglia, gli occhi marroni luccicavano ardenti.
Venne così vicino che la sua erezione e la mia si sfiorarono mentre mi spogliò, lasciando che anche la mia tunica scivolasse a terra.
Dio misericordioso, ti chiedo perdono per i pensieri impuri che mi passarono per il cervello.
Mi giravano nella testa quelle immagini immonde di uomini che si univano carnalmente tra loro, immagini che non avrei mai voluto vedere ma che un vecchio monaco mi aveva costretto a guardare nella biblioteca del monastero di Siracusa.
Il capo degli infedeli mi girò intorno in modo da trovarsi dietro di me, appoggiando il suo corpo muscoloso contro il mio dorso, cingendomi le spalle con le sue braccia incredibilmente muscolose e baciandomi delicatamente il collo.
Il suo fallo duro come la pietra premeva contro le mie bianche natiche e (Dio abbi pietà di me), anche il mio non era da meno.
“Stanotte non ti chiederò di ripudiare il tuo falso Dio” mi disse, “ma solo di ripudiare la tua natura di uomo, non ti chiederò di accettare il vero e unico Dio, quello che ci è stato rivelato da Profeta Maometto, ma solo di accogliere dentro di te la mia verga e il mio seme.”
Mi spinse delicatamente facendomi cadere a pancia sotto sul morbido materasso.
Lui si inginocchiò alla base del letto, mi afferrò per le caviglie e mi tirò a sé.
Mi allargò le natiche con le sue dita d’acciaio e tuffò la faccia proprio lì in mezzo.
Quando la sua lingua infedele si mise a scavare dei solchi tra i miei glutei e a penetrare sempre più profondamente dentro il mio corpo capii che stavo perdendo anche la più remota possibilità di varcare le porte del Paradiso.
Non perché stavo per essere violato, ma perché mi piaceva!
Con la coda dell’occhio vidi che il mio carnefice, o meglio il carnefice della mia povera anima, visto ché il mio corpo stava benissimo, stava immergendo le dita di una mano in un vasetto di vetro azzurro, le ritrasse cosparse di un unguento profumato che utilizzò per lubrificare adeguatamente il mio orifizio anale.
Una volta che fui sufficientemente preparato per il sacrificio sentii che mi appoggiava la sua scimitarra di carne contro la mia di carne, fremente di timore ma anche di desiderio.
Chiusi gli occhi e inoltrai una muta preghiera sperando che arrivasse fino al cielo, chiedendo di non provare dolore e sperando di poter essere perdonato se avessi invece dovuto provare piacere.
Successero entrambe le cose, quando il suo membro entrò dentro di me, mi causò un po’ di dolore, ma le dolci parole che mi sussurrò all’orecchio mi tranquillizzarono e in effetti dopo qualche secondo la mia carne cominciò a provare un leggero piacere, e via, via che mi penetrava più in profondità si trasformò in un vero e proprio godimento.
Dio mio potrai mai perdonarmi? L’infedele mi stava scopando come fossi la sua donna e io provavo un piacere inaudito, non solo fisico ma anche mentale al pensiero di essere suo.
Lui andò avanti a scoparmi come se fossi la sua femmina, la sua schiava, la sua donna, penetrandomi sempre più a fondo, mordendomi le spalle e il collo, baciandomi lascivamente le orecchie e dicendomi che ero suo e io godevo come non avrei mai pensato di poter godere, e venni, riempiendo quelle lenzuola immacolate del mio seme impuro.
Ad un certo punto sentii che si arrestava e poi spingendo il suo fallo più a fondo possibile tra le mie carni lo sentii urlare come un demone mentre mi scaricava il suo seme blasfemo negli sfinteri.
Si abbandonò inerme sulla mia schiena il sudore di entrambi suggellava i nostri corpi bollenti, e mi sussurrò nelle orecchie che da ora sarei stato il suo amante cristiano.
Sentivo ancora il suo fallo dentro di me che lentamente tornava a delle dimensioni normali mentre la sua bianca linfa fuoriusciva quasi gorgogliando e colava lungo le mie cosce.
Io realizzavo di aver perduto la mia anima e nello stesso tempo ringraziavo Dio per aver messo questo uomo sulla mia strada e avermi permesso di provare questa esperienza.
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