La casa infestata

di
genere
fantascienza

Era l'anno del signore 1284, e l'inverno era lungo e rigido, e Donna Letitia si era comprata da un oscuro viandante le conoscenze necessarie per fare un patto con il maligno, pagando con l'unica cosa che aveva: il suo corpo giovane, vergine e non ancora sformato da gravidanze e lavoro, dato che – malgrado fosse da anni in età da marito – a diciotto inverni non aveva ancora conosciuto uomo prima dell'oscuro viandante. Aveva pattuito, la sua verginità per le conoscenze arcane per evocare il maligno e ottenerne i favori, se avesse fatto tutto nel modo corretto.

La stanza del casale era buia e fumosa per la cucina che bruciava legna raccattata dal bosco, non c'erano soldi per lumi a olio e la notte era sempre molto buia, specialmente quella, dove la luna era nuova, come richiesto dal rituale. Gli scuri erano chiusi, i vicini non dovevano vedere niente, o c'era il rischio di finire sul rogo, come tante donne prima, anche innocenti; figuriamoci nel suo caso, che innocente non era proprio. La stanza, al primo piano, era direttamente sopra la stalla per sfruttare il calore prodotto dalle vacche per scaldarla d'inverno, ma le vacche non c'erano più. Non c'era più niente, neppure la speranza.

Aveva tutto il necessario: il prezioso sale, il gesso, le candele nere che si era fatta dare dal viandante come parte dell'accordo, i capelli di vergine (erano suoi tagliati e raccolti prima che pagasse il debito) e quelli di morta, che era la ciocca di capelli che aveva conservato come ricordo della sorella minore quando era morta di tosse sanguinante, e era completamente nuda, come il rituale voleva.

Fece il disegno col sale e col gesso, come doveva essere fatto, con cura estrema, controllando ogni singolo incrocio di linee per assicurarsi che non ci fossero neanche spazietti troppo piccoli anche per un topo, ma che per Lui sarebbero stati più che sufficienti. Lo controllò più e più volte, e poi con cura meticolosa piazzò le candele nere dove dovevano stare, agli estremi della stella.

Con un rametto incendiato le accese, e cominciò a salmodiare i versi che aveva studiato per una settimana notte e giorno fino a consumarsi gli occhi: neanche una sillaba, neanche una lettera doveva essere errata o anche solo pronunciata non chiaramente, o avrebbe pagato il fio di quello che stava facendo. Una, due, tre volte. Dopo tre smise di contare, tanto doveva continuare fino a quando non sarebbe successo quello che doveva succedere, una volta iniziato non ci si poteva fermare, ci fossero volute anche ore e ore.

La notte proseguiva, e Donna Letitia sapeva che le sue ginocchia stavano per cedere stando a quattro zampe come una cagna, una capra anzi, come il rituale prevedeva; ad un tratto ci fu un boato fortissimo, come un tuono che cade nell'aia, ma dentro la stanza e la porta che dava sulle scale si spalancò con tale violenza che uno dei cardini cedete, e l'infisso restò pendente in diagonale.

Dal vano vide passare un gigantesco corpo di uomo nudo che si dovette chinare quasi sa metà per passare dal vano della porta, e quando fu passato vide che l'altezza era di almeno due metri e mezzo corna a parte, perché l'uomo aveva la testa di una capra e nere corna rugose, e il suo fiato puzzava di zolfo, i suoi occhi brillavano di luce rossa, la sua bava colava in piccole gocce dal labbro inferiore, e quando parlava ne faceva piccoli spruzzi: “Il rituale è completo e non sono riuscito a trovare niente che non andasse per maledire te e liberare me dagli obblighi, ma sai che devi pagare per quello che ti darò” - la sua voce raschiava come la mola del mulino, e l'intonazione era colma di maligno odio e disprezzo. Letitia vide di sfuggita il pene dell'essere, che se fosse stato proporzionato al corpo che lo possedeva sarebbe stato enorme, ma non era in proporzione, era enorme, più di quello di uno stallone. Letitia cominciò a dubitare di poter portare l'affare fino in fondo e provare brividi di terrore, ma non aveva scelta, ormai doveva andare avanti o morire tra atroci sofferenze e poi passare l'eternità all'inferno.

Donna Letitia fece il gesto di sottomissione previsto dal rituale, chinandosi fino con la fronte sul pavimento e lasciando il suo culo in aria. “Si signore Pazuzu, riscuoti quanto ti devo” e strinse gli occhi e forte la bocca, perché nel rituale era previsto che lei non emettesse un suono, non un gemito, non un rantolo.

Pazuzu le girò intorno, con l'asta in erezione lunga mezzo metro e dal diametro di una bottiglia, e riscosse il suo dovuto penetrando con forza estrema l'ano della ragazza, cercando con la violenza di strapparle un urlo, un gemito, un mugolio, e così liberarsi dagli obblighi.

La ragazza provava un dolore come mai nella vita aveva provato, era come una condanna a morte per impalamento, il mostruoso membro la squartava, sentiva la pelle cedere, la carne aprirsi, ma strinse tra i denti la rozza coperta che fungeva da tappeto e non emise alcun suono, non dando alcun appiglio al demone che la percuoteva con tale foga da far scricchiolare il pavimento, fino a quando dal palo grande come un albero maestro di una goletta uscì un getto viscoso e ghiacciato, non a spruzzi successivi come quando il viandante aveva preso il suo piacere nella sua fighetta, ma continuo, come una grondaia che rovescia acqua durante un temporale, ancora e ancora, fino a quando Donna Letitia sentì il ventre gonfio per il liquido riversato dentro, crampi che le attanagliavano la pancia e le sembrò di morire una seconda volta dopo il dolore della penetrazione. Ma non emise un solo gemito.

Pazuzu uscì dall'ano devastato della ragazza, che sentì liquido gelido e grumoso colare fuori dal foro che ormai mai più si sarebbe richiuso come avrebbe dovuto, come neve sulle cosce nude, ma non disse niente. “Hai compiuto il rituale e pagato come il rituale vuole, ora possiedi il potere di controllare le malattie, i raccolti e la fertilità e molti altri poteri” - la ragazza alzò il capo, come previsto, con gli occhi incrinati dal dolore e senza riuscire a vedere bene, ma Pazuzu non aveva finito: “Ma il casale ha scricchiolato e si è lamentato. Il casale è MIO.” e con una fiammata sparì da questo piano di esistenza.

Donna Letitia era soddisfatta, ci aveva rimesso la casa ma avrebbe avuto ben di più Decise che la vecchia sdentata sarebbe morta, e lei morì nel suo letto in quel momento, e il suo testamento, nel comodino, diceva che la fattoria andava a Donna Letitia invece che ai figli.

Letizia si svegliò di soprassalto nel suo letto nuovo nella casa nuova che aveva sognato per una vita, e che con tanta passione aveva cercato nelle campagne della Toscana, e ristrutturato secondo il suo gusto e volere, arredato con cura investendoci tutti i suoi risparmi.

Era piena di dolori, e un dolorosissimo, tremendo crampo all'ano era probabilmente all'origine dell'incubo appena fatto. “Ahh... che male, porca miseria” disse alzandosi. Appena si mise in piedi senti qualcosa di freddo e grumoso come granita colare dal suo ano. Si toccò con la mano, non era un crampo, il suo ano era dilatato e devastato, perdeva sangue e una sostanza grigiastra grumosa e gelida.

Il terrore la bloccò. Si mise addosso qualcosa, buttò nel trolley i soldi che aveva nel cassettone, il pc portatile e qualche vestito, e uscì nella notte camminando sciancata dal dolore allo sfintere: non è mai più tornata al casale, neanche per recuperare la sua roba, lo ha venduto arredato “nello stato in cui si trova”, ma con estrema fatica, la gente del posto sapeva, e Letizia dovette venderlo sottocosto a dei tedeschi. Ci rimise tutti i suoi risparmi, perdendo duecentomila euro, e ancora oggi, nelle notti di luna nuova, il suo sfintere le duole e si infiamma, impedendole di dimenticare.
scritto il
2024-08-10
1 . 3 K
visite
3 1
voti
valutazione
6.6
il tuo voto
Segnala abuso in questo racconto erotico

commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.