Un desiderio inconfessabile
di
Thomas Prostata
genere
confessioni
Era da tempo che io e mia moglie Sofia parlavamo di provare l’immersione subacquea. Lei, triestina “patoca”, come dicono da loro, con il mare sotto casa ci è cresciuta. E anche a me, bresciano di terra ferma, l’acqua mi aveva sempre attratto, non tanto per le sue promesse di frescura o svago, ma per quel suo mistero arcano che sembrava nascondere un mondo altrimenti inaccessibile ai profani. Così, quando per caso venimmo a sapere di un corso di immersioni organizzato presso una piccola scuola sul lago di Garda, non ci pensammo due volte. Ci iscrivemmo con quell'entusiasmo che si riserva a un’avventura tanto desiderata quanto mai osata prima.
Già al primo incontro con il gruppo, nella luce obliqua di un tardo pomeriggio lacustre, notai una figura che, quasi istintivamente, si era fatta subito avanti. Era un uomo dall'aria distratta, ma con un occhio di falco, che sondava con una precisione inaspettata. In realtà, il suo sguardo non era rivolto tanto verso l'orizzonte, quanto piuttosto verso il corpo di mia moglie. Lo scrutava con una lentezza studiata, dalla testa ai piedi, come si scruta una mappa che promette tesori nascosti. Non c'era nulla di casuale nei suoi gesti.
«Interessante questa cosa delle immersioni, no?» disse, rompendo il silenzio mentre i suoi occhi si indugiavano sui fianchi di lei. «Non capita tutti i giorni di esplorare territori inesplorati».
Mia moglie, fingendo di non cogliere l’allusione, sorrise vagamente, con quella sua grazia naturale che poteva sia attrarre che confondere. Mi rivolsi verso di lui, cercando di ignorare l’insofferenza che cresceva dentro di me, e dissi: «Sì, le profondità sono sempre un invito all’ignoto».
L’uomo si fece più vicino, come se il nostro breve scambio di battute lo avesse solo incoraggiato. «L’ignoto, già… c’è qualcosa nell’oscurità che attrae, non credete? Qualcosa di... sensuale, potrei dire».
A quel punto mia moglie, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, sollevò appena lo sguardo, ma senza dire nulla. Era chiaro che anche lei aveva percepito l’ambiguità delle sue parole, ma preferì lasciar scorrere la conversazione, come l’acqua scorre tra le dita.
Mi limitai a un breve cenno del capo, cercando di mantenere la calma mentre l’uomo ci osservava con un sorriso che non riuscivo a decifrare.
L’uomo continuava a sorriderle, con un’insistenza che a tratti mi pareva quasi studiata. Ogni parola che le rivolgeva era accompagnata da uno sguardo lungo, misurato, come se volesse tessere un filo invisibile tra i suoi pensieri e il corpo di mia moglie. Non c’era fretta nei suoi gesti, ma una pazienza da predatore. Cercava di coinvolgerla in una conversazione, argomentando in modo affabile su argomenti leggeri – il lago, il sole, le immersioni – ma il suo intento era chiaro, e non c’era bisogno di dirlo ad alta voce.
Io, nel frattempo, osservavo la scena con una tensione che si insinuava in ogni muscolo del mio corpo. Altri uomini, forse, si sarebbero fatti avanti, avrebbero interrotto quel gioco insinuante. Qualcuno più audace avrebbe potuto affrontarlo direttamente, chiedendo di moderare i suoi atteggiamenti. Ma io? Io esitavo.
Lui era più alto di me, e il suo corpo era fatto di una materia diversa dalla mia. Spalle larghe, braccia potenti che, sotto la luce del sole, sembravano scolpite nella roccia. Ogni movimento parlava di una forza che io non possedevo, e quella consapevolezza mi gravava addosso come un peso invisibile. Mi sembrava che, con un solo soffio, avrebbe potuto spazzarmi via come polvere nella brezza marina.
A un certo punto, si voltò verso di me, con un sorriso che pareva più una sfida che un gesto di cortesia.
«Spero che non ti dispiaccia se chiacchiero un po' con tua moglie», disse, con un tono che sembrava fatto apposta per lasciare pochi margini di replica. «Sa, è raro trovare qualcuno con cui parlare di cose così... interessanti.»
Mia moglie sorrise educatamente, ma si limitò a un cenno del capo, senza alimentare ulteriormente quella conversazione. C’era in lei una sorta di grazia imperturbabile, come se fosse abituata a gestire situazioni simili, mentre io, di fronte alla sua tranquillità, sentivo una crescente inquietudine.
Cercai di intervenire, ma le parole sembravano intrappolate in gola. «Non... non c'è problema», riuscii a dire, anche se dentro di me sentivo il peso di ogni parola, come se confermasse la mia impotenza.
L’uomo mi fissò per un attimo, come se valutasse la mia risposta, poi tornò a rivolgersi a lei. «Dunque, le immersioni... È la sua prima volta? Deve essere eccitante pensare di scendere così in profondità, vero?»
Io, in silenzio, rimasi lì, sentendo che non c'era nulla che potessi fare, tranne osservare quella scena con la consapevolezza di quanto fosse precario il mio ruolo in quel momento.
Quando finalmente giungemmo al bordo della grande piscina che fungeva da palestra, lo scintillio dell'acqua rifletteva il cielo come uno specchio inquieto. Le istruzioni dell'istruttore risuonavano nell'aria, ma la mia attenzione era altrove, catturata da un dettaglio che non avrei potuto ignorare, anche volendo. L’uomo, con la sua disinvoltura quasi spavalda, si muoveva davanti a noi, e i suoi pantaloncini da bagno, aderenti fino all’estremo, non nascondevano nulla. Anzi, enfatizzavano un rigonfiamento che sembrava sfidare il decoro del momento.
Non osai distogliere lo sguardo con troppa rapidità, e soprattutto non osai guardare mia moglie. Eppure, sapevo. Sapevo che anche lei l’aveva notato, con quella sua attenzione acuta e discreta, sempre capace di captare ciò che accadeva attorno a noi senza mai lasciar trasparire troppo. E, quasi per una bizzarra intuizione, ero certo che anche gli altri membri del gruppo avessero percepito l’evidenza di quella presenza carnale così inopportuna e sfacciata.
Un colpo. Una botta, davvero. Ma non nel senso fisico della parola. Era una botta alla mia compostezza, un colpo che sentii dritto nelle viscere, come se quell’uomo non si limitasse a occupare spazio nella piscina, ma stesse, in qualche modo, ridefinendo le regole non scritte della situazione. Un confronto silenzioso, eppure palese, che mi costringeva a rimanere impassibile mentre l’acqua s’increspava lieve ai nostri piedi.
Con lo sguardo fisso davanti a me, come a voler resistere all'imbarazzo che mi stringeva la gola, mi limitai a respirare profondamente.
Dopo la sessione in piscina, dovevamo risciacquare i nostri corpi con acqua clorata nelle cabine doccia all'aperto, piccole e aperte, appena fuori dagli spogliatoi. Un gesto di igiene, certo, ma quel momento si trasformò in qualcos'altro. Non appena entrai nell'area, lo vidi di nuovo, questa volta in una posa ancora più disarmante.
Era lì, in piedi sotto il getto d’acqua, esposto senza il minimo imbarazzo. Il suo corpo, definito come una statua antica, si lavava con gesti lenti e misurati, ma ciò che catturò immediatamente la mia attenzione fu quello che ora non potevo più ignorare: il rigonfiamento che avevo intravisto prima non era affatto un'illusione. Era semplicemente enorme. Il suo cazzo, inerte eppure evidente, pendeva con una naturalezza quasi allegra, oscillando lievemente mentre l’acqua lo accarezzava.
Gli altri uomini del gruppo, imbarazzati da quella visione così evidente, distoglievano rapidamente lo sguardo, cercando rifugio nel pudore. Ma io? Io non ci riuscivo. Qualcosa mi tratteneva, un misto di fascino e repulsione. Forse era la brutalità di quel confronto silenzioso che mi legava lì, incapace di staccare gli occhi.
«Che spettacolo, eh?» disse qualcuno, forse uno dei membri del gruppo, tentando di rompere il silenzio con una risata nervosa.
Non risposi, ma dentro di me ogni pensiero si faceva più nitido, più pungente. Il suo cazzo era flaccido, eppure già lungo almeno quindici centimetri. Un'idea mi attraversò la mente, un frammento di conoscenza che mi ero imbattuto in qualche vecchio studio: non si diceva che circa il 7% degli uomini vedeva il proprio pene raddoppiare di dimensioni quando in erezione? E quest’uomo, così sfacciato nella sua nudità, era chiaramente parte di un’élite ancor più rara. Era come se, sotto quella doccia, mi trovassi di fronte a uno tra cento, uno di quelli destinati ad avere una virilità che sfidava le regole comuni. Ventitré centimetri? Forse di più. Il pensiero mi colpì con la violenza di una rivelazione. Il suo cazzo era non solo lungo, ma anche spesso, il doppio del mio, e ciò mi colmava di una frustrazione che non potevo decifrare.
Poi, senza preavviso, lo sentii parlare, con quella sua voce profonda e calma.
«Sembra che il corso sia più interessante del previsto, non trovi?» disse, gettando uno sguardo fugace verso di me, consapevole del mio turbamento.
Non sapevo come rispondere. Un nodo mi chiudeva la gola, mentre nella mia mente si mescolavano rabbia e inadeguatezza. Pensai a mia moglie, a come lui avesse flirtato con lei senza il minimo ritegno, e il pensiero di quel suo grosso cazzo, così palesemente manifesto, mi suscitava emozioni contrastanti: una gelosia mista a desiderio, una strana combinazione di vergogna e attrazione.
«Forse per qualcuno lo è», riuscii a mormorare, cercando di nascondere il tremito nella mia voce.
Lui sorrise appena, un sorriso ambiguo, privo di malizia apparente, ma carico di qualcosa che non potevo ignorare. E mentre l'acqua continuava a scorrere sulle sue spalle larghe, io rimasi lì, prigioniero di quella visione che mi riempiva di un desiderio inconfessabile e un senso di inadeguatezza che non potevo scrollarmi di dosso.
Mi svegliai quella mattina con la nausea che ormai conoscevo bene, un malessere sottile che spesso mi prendeva al risveglio, senza un motivo apparente. Tuttavia, quel giorno, non era solo un disagio fisico. Era come se i pensieri della sera precedente si fossero insinuati nella mia mente, gettando un'ombra su ogni cosa. Rimanendo immobile nel letto, avvolto dalle lenzuola ancora tiepide, sentivo il peso di quelle immagini che non riuscivo a scacciare, immagini che avevano preso dimora nei recessi più oscuri della mia immaginazione.
I miei pensieri si volsero inevitabilmente a lui, all'uomo con cui avevamo condiviso quelle ore in piscina e sotto la doccia. L'immagine del suo corpo possente, del suo cazzo, mi tormentava. E poi, c’era mia moglie. La vedevo, nella mia mente, nuda e distesa sotto di lui, mentre lui la possedeva con una brutalità elegante, una virilità che io non avrei mai potuto eguagliare. Immaginavo il suo respiro affannoso, i suoi gemiti profondi che accompagnavano ogni spinta, ogni movimento di quell'uomo dentro di lei.
La mia mano, quasi senza che ne avessi piena consapevolezza, scivolò sotto le coperte, trovando rifugio in un piacere che non avrei voluto ammettere neanche a me stesso. Mi masturbavo, e lo facevo allegramente, mentre la mia mente disegnava ogni scena con dettagli sempre più vividi. Lo vedevo sopra di lei, le mani salde sui suoi fianchi, mentre mia moglie sospirava, selvaggiamente, profondamente, ad ogni spinta, come se il mondo si riducesse a quel solo atto, a quel solo momento di unione carnale.
Ma poi, i miei pensieri presero una piega ancora più oscura, una piega che mi fece trattenere il respiro per un istante. Nella mia fantasia, lo vedevo voltarsi verso di me, con quello stesso sorriso ambiguo che avevo notato sotto la doccia. Si avvicinava, con una calma quasi beffarda, e mi diceva, con voce bassa e sicura: «Vieni qui. In ginocchio.»
Nel sogno, non opponevo resistenza. Mi inginocchiavo davanti a lui, sentendo il calore del suo corpo e l'odore dei loro succhi mescolati. Mi ordinava di leccargli il cazzo, di ripulirlo dai resti del loro piacere condiviso, e io, in quella visione, lo facevo senza protestare, come se fosse naturale, come se fosse l'unico modo per partecipare a quell’atto di possesso che mi escludeva e, allo stesso tempo, mi coinvolgeva.
«Bravo», mi diceva, con un sussurro carico di complicità e potere, mentre mi chinavo su di lui.
Non osai mai parlare del mio sogno a Sofia. C'era qualcosa di inconfessabile in quei pensieri, in quella parte di me che non volevo rivelare, neppure a lei. Eppure, una domanda continuava a tormentarmi: anche lei, forse, aveva pensato a quel rigonfiamento nei suoi pantaloncini da bagno attillati? Quel corpo, così sfacciatamente esibito sotto i nostri occhi, non poteva essere sfuggito alla sua attenzione. Ogni volta che lo guardavamo durante le nostre lunghe ore di immersioni subacquee — quindici ore in tutto — sentivo crescere dentro di me un senso di tensione, un misto di desiderio e inadeguatezza.
Ricordo bene quei momenti. Mentre gli altri si preparavano con calma, controllando le attrezzature o discorrendo in modo distratto, io cercavo un pretesto per osservare lui. L’acqua scivolava sul suo corpo come se ne fosse parte integrante, e c'era qualcosa di quasi rituale nel modo in cui si lavava. Lo guardavo di nascosto, ma con crescente interesse. E più lo facevo, più il desiderio di vederlo grande, pienamente eretto, mi divorava dall'interno.
Una volta, dopo una lunga giornata di immersioni, mia moglie si avvicinò mentre eravamo in spogliatoio, e senza preavviso mi chiese, con una leggerezza che sembrava nascondere un qualche sottotesto: «Hai notato quanto è... disinvolto? Sembra non preoccuparsi di niente.»
«Sì, disinvolto è un buon modo di descriverlo», risposi, cercando di mantenere un tono neutro, mentre dentro di me si agitava un turbamento profondo.
Lei sorrise, come se avesse capito più di quanto volesse ammettere, e si allontanò verso la doccia, lasciandomi da solo con i miei pensieri.
Quell’immagine di lui, di quel corpo possente e di quel suo grosso cazzo, continuò a perseguitarmi per mesi. Ogni volta che chiudevo gli occhi, lo vedevo. Lo immaginavo nella sua piena potenza, duro, eretto, come una presenza che dominava ogni mio pensiero. E così, spesso, mi trovavo sdraiato, la mente invasa da fantasie in cui il suo sesso, non più flaccido, si ergeva in tutta la sua grandezza. Mi masturbavo, cercando di soffocare quel desiderio segreto, ma ogni volta era più forte, più vivido.
«Non riesco a togliermelo dalla testa», pensai tra me e me, ma non potevo dirlo a nessuno. E quella consapevolezza mi spingeva ancora di più a ritornare, notte dopo notte, a quelle stesse immagini, a quel suo corpo che aveva preso dimora nei miei sogni.
Già al primo incontro con il gruppo, nella luce obliqua di un tardo pomeriggio lacustre, notai una figura che, quasi istintivamente, si era fatta subito avanti. Era un uomo dall'aria distratta, ma con un occhio di falco, che sondava con una precisione inaspettata. In realtà, il suo sguardo non era rivolto tanto verso l'orizzonte, quanto piuttosto verso il corpo di mia moglie. Lo scrutava con una lentezza studiata, dalla testa ai piedi, come si scruta una mappa che promette tesori nascosti. Non c'era nulla di casuale nei suoi gesti.
«Interessante questa cosa delle immersioni, no?» disse, rompendo il silenzio mentre i suoi occhi si indugiavano sui fianchi di lei. «Non capita tutti i giorni di esplorare territori inesplorati».
Mia moglie, fingendo di non cogliere l’allusione, sorrise vagamente, con quella sua grazia naturale che poteva sia attrarre che confondere. Mi rivolsi verso di lui, cercando di ignorare l’insofferenza che cresceva dentro di me, e dissi: «Sì, le profondità sono sempre un invito all’ignoto».
L’uomo si fece più vicino, come se il nostro breve scambio di battute lo avesse solo incoraggiato. «L’ignoto, già… c’è qualcosa nell’oscurità che attrae, non credete? Qualcosa di... sensuale, potrei dire».
A quel punto mia moglie, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, sollevò appena lo sguardo, ma senza dire nulla. Era chiaro che anche lei aveva percepito l’ambiguità delle sue parole, ma preferì lasciar scorrere la conversazione, come l’acqua scorre tra le dita.
Mi limitai a un breve cenno del capo, cercando di mantenere la calma mentre l’uomo ci osservava con un sorriso che non riuscivo a decifrare.
L’uomo continuava a sorriderle, con un’insistenza che a tratti mi pareva quasi studiata. Ogni parola che le rivolgeva era accompagnata da uno sguardo lungo, misurato, come se volesse tessere un filo invisibile tra i suoi pensieri e il corpo di mia moglie. Non c’era fretta nei suoi gesti, ma una pazienza da predatore. Cercava di coinvolgerla in una conversazione, argomentando in modo affabile su argomenti leggeri – il lago, il sole, le immersioni – ma il suo intento era chiaro, e non c’era bisogno di dirlo ad alta voce.
Io, nel frattempo, osservavo la scena con una tensione che si insinuava in ogni muscolo del mio corpo. Altri uomini, forse, si sarebbero fatti avanti, avrebbero interrotto quel gioco insinuante. Qualcuno più audace avrebbe potuto affrontarlo direttamente, chiedendo di moderare i suoi atteggiamenti. Ma io? Io esitavo.
Lui era più alto di me, e il suo corpo era fatto di una materia diversa dalla mia. Spalle larghe, braccia potenti che, sotto la luce del sole, sembravano scolpite nella roccia. Ogni movimento parlava di una forza che io non possedevo, e quella consapevolezza mi gravava addosso come un peso invisibile. Mi sembrava che, con un solo soffio, avrebbe potuto spazzarmi via come polvere nella brezza marina.
A un certo punto, si voltò verso di me, con un sorriso che pareva più una sfida che un gesto di cortesia.
«Spero che non ti dispiaccia se chiacchiero un po' con tua moglie», disse, con un tono che sembrava fatto apposta per lasciare pochi margini di replica. «Sa, è raro trovare qualcuno con cui parlare di cose così... interessanti.»
Mia moglie sorrise educatamente, ma si limitò a un cenno del capo, senza alimentare ulteriormente quella conversazione. C’era in lei una sorta di grazia imperturbabile, come se fosse abituata a gestire situazioni simili, mentre io, di fronte alla sua tranquillità, sentivo una crescente inquietudine.
Cercai di intervenire, ma le parole sembravano intrappolate in gola. «Non... non c'è problema», riuscii a dire, anche se dentro di me sentivo il peso di ogni parola, come se confermasse la mia impotenza.
L’uomo mi fissò per un attimo, come se valutasse la mia risposta, poi tornò a rivolgersi a lei. «Dunque, le immersioni... È la sua prima volta? Deve essere eccitante pensare di scendere così in profondità, vero?»
Io, in silenzio, rimasi lì, sentendo che non c'era nulla che potessi fare, tranne osservare quella scena con la consapevolezza di quanto fosse precario il mio ruolo in quel momento.
Quando finalmente giungemmo al bordo della grande piscina che fungeva da palestra, lo scintillio dell'acqua rifletteva il cielo come uno specchio inquieto. Le istruzioni dell'istruttore risuonavano nell'aria, ma la mia attenzione era altrove, catturata da un dettaglio che non avrei potuto ignorare, anche volendo. L’uomo, con la sua disinvoltura quasi spavalda, si muoveva davanti a noi, e i suoi pantaloncini da bagno, aderenti fino all’estremo, non nascondevano nulla. Anzi, enfatizzavano un rigonfiamento che sembrava sfidare il decoro del momento.
Non osai distogliere lo sguardo con troppa rapidità, e soprattutto non osai guardare mia moglie. Eppure, sapevo. Sapevo che anche lei l’aveva notato, con quella sua attenzione acuta e discreta, sempre capace di captare ciò che accadeva attorno a noi senza mai lasciar trasparire troppo. E, quasi per una bizzarra intuizione, ero certo che anche gli altri membri del gruppo avessero percepito l’evidenza di quella presenza carnale così inopportuna e sfacciata.
Un colpo. Una botta, davvero. Ma non nel senso fisico della parola. Era una botta alla mia compostezza, un colpo che sentii dritto nelle viscere, come se quell’uomo non si limitasse a occupare spazio nella piscina, ma stesse, in qualche modo, ridefinendo le regole non scritte della situazione. Un confronto silenzioso, eppure palese, che mi costringeva a rimanere impassibile mentre l’acqua s’increspava lieve ai nostri piedi.
Con lo sguardo fisso davanti a me, come a voler resistere all'imbarazzo che mi stringeva la gola, mi limitai a respirare profondamente.
Dopo la sessione in piscina, dovevamo risciacquare i nostri corpi con acqua clorata nelle cabine doccia all'aperto, piccole e aperte, appena fuori dagli spogliatoi. Un gesto di igiene, certo, ma quel momento si trasformò in qualcos'altro. Non appena entrai nell'area, lo vidi di nuovo, questa volta in una posa ancora più disarmante.
Era lì, in piedi sotto il getto d’acqua, esposto senza il minimo imbarazzo. Il suo corpo, definito come una statua antica, si lavava con gesti lenti e misurati, ma ciò che catturò immediatamente la mia attenzione fu quello che ora non potevo più ignorare: il rigonfiamento che avevo intravisto prima non era affatto un'illusione. Era semplicemente enorme. Il suo cazzo, inerte eppure evidente, pendeva con una naturalezza quasi allegra, oscillando lievemente mentre l’acqua lo accarezzava.
Gli altri uomini del gruppo, imbarazzati da quella visione così evidente, distoglievano rapidamente lo sguardo, cercando rifugio nel pudore. Ma io? Io non ci riuscivo. Qualcosa mi tratteneva, un misto di fascino e repulsione. Forse era la brutalità di quel confronto silenzioso che mi legava lì, incapace di staccare gli occhi.
«Che spettacolo, eh?» disse qualcuno, forse uno dei membri del gruppo, tentando di rompere il silenzio con una risata nervosa.
Non risposi, ma dentro di me ogni pensiero si faceva più nitido, più pungente. Il suo cazzo era flaccido, eppure già lungo almeno quindici centimetri. Un'idea mi attraversò la mente, un frammento di conoscenza che mi ero imbattuto in qualche vecchio studio: non si diceva che circa il 7% degli uomini vedeva il proprio pene raddoppiare di dimensioni quando in erezione? E quest’uomo, così sfacciato nella sua nudità, era chiaramente parte di un’élite ancor più rara. Era come se, sotto quella doccia, mi trovassi di fronte a uno tra cento, uno di quelli destinati ad avere una virilità che sfidava le regole comuni. Ventitré centimetri? Forse di più. Il pensiero mi colpì con la violenza di una rivelazione. Il suo cazzo era non solo lungo, ma anche spesso, il doppio del mio, e ciò mi colmava di una frustrazione che non potevo decifrare.
Poi, senza preavviso, lo sentii parlare, con quella sua voce profonda e calma.
«Sembra che il corso sia più interessante del previsto, non trovi?» disse, gettando uno sguardo fugace verso di me, consapevole del mio turbamento.
Non sapevo come rispondere. Un nodo mi chiudeva la gola, mentre nella mia mente si mescolavano rabbia e inadeguatezza. Pensai a mia moglie, a come lui avesse flirtato con lei senza il minimo ritegno, e il pensiero di quel suo grosso cazzo, così palesemente manifesto, mi suscitava emozioni contrastanti: una gelosia mista a desiderio, una strana combinazione di vergogna e attrazione.
«Forse per qualcuno lo è», riuscii a mormorare, cercando di nascondere il tremito nella mia voce.
Lui sorrise appena, un sorriso ambiguo, privo di malizia apparente, ma carico di qualcosa che non potevo ignorare. E mentre l'acqua continuava a scorrere sulle sue spalle larghe, io rimasi lì, prigioniero di quella visione che mi riempiva di un desiderio inconfessabile e un senso di inadeguatezza che non potevo scrollarmi di dosso.
Mi svegliai quella mattina con la nausea che ormai conoscevo bene, un malessere sottile che spesso mi prendeva al risveglio, senza un motivo apparente. Tuttavia, quel giorno, non era solo un disagio fisico. Era come se i pensieri della sera precedente si fossero insinuati nella mia mente, gettando un'ombra su ogni cosa. Rimanendo immobile nel letto, avvolto dalle lenzuola ancora tiepide, sentivo il peso di quelle immagini che non riuscivo a scacciare, immagini che avevano preso dimora nei recessi più oscuri della mia immaginazione.
I miei pensieri si volsero inevitabilmente a lui, all'uomo con cui avevamo condiviso quelle ore in piscina e sotto la doccia. L'immagine del suo corpo possente, del suo cazzo, mi tormentava. E poi, c’era mia moglie. La vedevo, nella mia mente, nuda e distesa sotto di lui, mentre lui la possedeva con una brutalità elegante, una virilità che io non avrei mai potuto eguagliare. Immaginavo il suo respiro affannoso, i suoi gemiti profondi che accompagnavano ogni spinta, ogni movimento di quell'uomo dentro di lei.
La mia mano, quasi senza che ne avessi piena consapevolezza, scivolò sotto le coperte, trovando rifugio in un piacere che non avrei voluto ammettere neanche a me stesso. Mi masturbavo, e lo facevo allegramente, mentre la mia mente disegnava ogni scena con dettagli sempre più vividi. Lo vedevo sopra di lei, le mani salde sui suoi fianchi, mentre mia moglie sospirava, selvaggiamente, profondamente, ad ogni spinta, come se il mondo si riducesse a quel solo atto, a quel solo momento di unione carnale.
Ma poi, i miei pensieri presero una piega ancora più oscura, una piega che mi fece trattenere il respiro per un istante. Nella mia fantasia, lo vedevo voltarsi verso di me, con quello stesso sorriso ambiguo che avevo notato sotto la doccia. Si avvicinava, con una calma quasi beffarda, e mi diceva, con voce bassa e sicura: «Vieni qui. In ginocchio.»
Nel sogno, non opponevo resistenza. Mi inginocchiavo davanti a lui, sentendo il calore del suo corpo e l'odore dei loro succhi mescolati. Mi ordinava di leccargli il cazzo, di ripulirlo dai resti del loro piacere condiviso, e io, in quella visione, lo facevo senza protestare, come se fosse naturale, come se fosse l'unico modo per partecipare a quell’atto di possesso che mi escludeva e, allo stesso tempo, mi coinvolgeva.
«Bravo», mi diceva, con un sussurro carico di complicità e potere, mentre mi chinavo su di lui.
Non osai mai parlare del mio sogno a Sofia. C'era qualcosa di inconfessabile in quei pensieri, in quella parte di me che non volevo rivelare, neppure a lei. Eppure, una domanda continuava a tormentarmi: anche lei, forse, aveva pensato a quel rigonfiamento nei suoi pantaloncini da bagno attillati? Quel corpo, così sfacciatamente esibito sotto i nostri occhi, non poteva essere sfuggito alla sua attenzione. Ogni volta che lo guardavamo durante le nostre lunghe ore di immersioni subacquee — quindici ore in tutto — sentivo crescere dentro di me un senso di tensione, un misto di desiderio e inadeguatezza.
Ricordo bene quei momenti. Mentre gli altri si preparavano con calma, controllando le attrezzature o discorrendo in modo distratto, io cercavo un pretesto per osservare lui. L’acqua scivolava sul suo corpo come se ne fosse parte integrante, e c'era qualcosa di quasi rituale nel modo in cui si lavava. Lo guardavo di nascosto, ma con crescente interesse. E più lo facevo, più il desiderio di vederlo grande, pienamente eretto, mi divorava dall'interno.
Una volta, dopo una lunga giornata di immersioni, mia moglie si avvicinò mentre eravamo in spogliatoio, e senza preavviso mi chiese, con una leggerezza che sembrava nascondere un qualche sottotesto: «Hai notato quanto è... disinvolto? Sembra non preoccuparsi di niente.»
«Sì, disinvolto è un buon modo di descriverlo», risposi, cercando di mantenere un tono neutro, mentre dentro di me si agitava un turbamento profondo.
Lei sorrise, come se avesse capito più di quanto volesse ammettere, e si allontanò verso la doccia, lasciandomi da solo con i miei pensieri.
Quell’immagine di lui, di quel corpo possente e di quel suo grosso cazzo, continuò a perseguitarmi per mesi. Ogni volta che chiudevo gli occhi, lo vedevo. Lo immaginavo nella sua piena potenza, duro, eretto, come una presenza che dominava ogni mio pensiero. E così, spesso, mi trovavo sdraiato, la mente invasa da fantasie in cui il suo sesso, non più flaccido, si ergeva in tutta la sua grandezza. Mi masturbavo, cercando di soffocare quel desiderio segreto, ma ogni volta era più forte, più vivido.
«Non riesco a togliermelo dalla testa», pensai tra me e me, ma non potevo dirlo a nessuno. E quella consapevolezza mi spingeva ancora di più a ritornare, notte dopo notte, a quelle stesse immagini, a quel suo corpo che aveva preso dimora nei miei sogni.
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