Il riflesso dell'oblio

di
genere
tradimenti

Carlo era tornato dal viaggio di lavoro. Un'odissea di nove ore, fatta di schienali scomodi e tentativi di appisolarsi al ritmo di scossoni e rumori metallici, lo aveva lasciato con una stanchezza profonda, la stanchezza che non si accontenta di un sonnellino o di un pasto veloce, ma che richiede il conforto tangibile di un letto accogliente nel silenzio domestico.
Ma Mariavittoria aveva chiamato. “Cena!”, aveva detto, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Carlo, purtroppo, non aveva mai saputo dire di no a sua figlia. Così, dopo aver trascinato le borse attraverso la porta di casa, le aveva lasciate cadere nell'ingresso ed era nuovamente uscito, imponendo al suo corpo spossato di compiere un ulteriore atto di eroismo.

Si ritrovò al tavolo del ristorante concordato, dove attese Mariavittoria, masticando impazienza. Con un certo retrogusto amaro: l'eredità di Giovanna, che aveva trasmesso alla figlia non solo il DNA, ma anche quell'insopportabile abitudine di arrivare tardi. L'eco di sua moglie si faceva sentire in tanti dettagli: Mariavittoria e Giovanna condividevano più di un legame familiare; era una gemmazione, un processo per cui le due donne, pur separate dal tempo, sembravano crescere come rami di uno stesso albero, specchiandosi l'una nell'altra, con quella grazia magra e flessuosa, quei capelli biondo-rossicci che sembravano una dichiarazione di unicità, che le contraddistingueva in mezzo agli altri. Per strada, Carlo si compiaceva delle occhiate invidiose che riceveva quando era con loro. Due dee della bellezza, avrebbe detto qualcuno, e lui, il modesto mortale che le accompagnava, si nutriva di quell'attenzione, come un riflesso della loro luce.
Ma quella sera, l'arrivo di Mariavittoria non portò il solito sollievo. Gli occhi, di un gonfiore che si opponeva al resto del viso, quasi come una premonizione di ciò che stava per dire, raccontavano una storia diversa. Carlo, che aveva affinato l'arte di decifrare i volti di sua figlia come un linguista di frontiera, percepì il peso dell'inevitabile. Cercò di anticipare il colpo: il fidanzato l'aveva lasciata? Una crisi lavorativa? Sapeva, dall'esperienza di ventidue anni, che la confessione sarebbe venuta solo dopo un opportuno avvio di convenevoli, come un colpo che si prepara dietro una serie di finte.

Mentre la cena avanzava, Mariavittoria si aprì a racconti ordinari, ma il suo tono tradiva qualcosa, un sottotesto che Carlo cercava di afferrare come un lettore smaliziato cerca di scoprire la trama prima che l'autore gliela sveli. E poi, senza preavviso, Mariavittoria sganciò la bomba.
"Papà, c'è una cosa che devi sapere."
Le sue parole scivolarono fuori con quella gravità che inizia nel petto e si riflette nel basso del collo.
Carlo, sentì l'aria raffreddarsi improvvisamente come prima di un temporale, si preparò al peggio.
"Che succede, tesoro?"
La domanda scivolò fuori, quasi una formalità, come se il linguaggio, in quel momento, avesse perso la capacità di contenere la realtà che temeva. Si preparò alla retorica del dramma, sapendo di essere uno spettatore non preparato, inadeguato, perché in queste situazioni era sempre stata Giovanna la protagonista, quella che sapeva esattamente cosa dire e come dirlo.
"Non riguarda me. Riguarda la mamma."
Eccola, la tempesta. Carlo si sentì affogare in un mare di intuizioni devastanti, l'inevitabile susseguirsi di pensieri che convergevano su una sola parola, un monolite di orrore: cancro. Non aveva bisogno di dirlo, non osava, perché dirlo significava renderlo reale.
Trattenne il fiato.
"È malata?", chiese, ma in realtà affermava, con quella disillusione che nasce dal desiderio di proteggere ciò che più si ama.
Mariavittoria, vedendo il terrore negli occhi di suo padre, decise che non c'era spazio per giri di parole.
"No, papà. Non è malata. Ha una relazione."
La rivelazione cadde come una pietra nel lago della sua coscienza, e all'inizio, come ogni pietra che colpisce l'acqua, l'impatto generò onde di confusione. Carlo, ancora aggrappato a un sollievo maldestro per il fatto che non si trattava di una malattia, scoppiò in una risata nervosa, dissonante.
Ma Mariavittoria non rideva. Lei, invece, lo guardava con un'espressione solenne, quella che si riserva alle verità inevitabili, scomode, ma che non possono essere ignorate.
"Sì, papà. L'ho affrontata e lei lo ha ammesso. Non voleva che te lo dicessi, ma io... io dovevo dirtelo. Dovevi saperlo."
Carlo rimase senza parole.
“Ma dai… la mamma? Non fa certe cose!”, rise ancora Carlo.
“Te lo giuro, papà. L’ho vista io con i miei occhi.”
"Chi? Chi è?", riuscì infine a balbettare, come se il nome potesse in qualche modo dare un senso alla devastazione.
"Un tizio. Si chiama Daniel. Lo ha conosciuto in palestra. Fanno yoga insieme."
Le parole arrivavano come frecce, e ogni parola aggiunta era come un colpo che si conficcava sempre più in profondità.
"E lei lo ha ammesso... a te?"
La domanda era quasi un riflesso condizionato, come se la sua mente cercasse ancora di scappare dalla realtà.
"Sì, papà", ripeté Mariavittoria con una pazienza infinita, come se stesse cercando di insegnargli una lezione dolorosa ma necessaria. "Li ho visti assieme che si abbracciavano, E lei mi ha detto che vanno a letto insieme."
Carlo continuava a rifiutarlo.
"No. Non può essere. Ci deve essere un errore. Giovanna non...", le parole si spegnevano prima di formarsi, come un fuoco che si spegne sotto una pioggia inesorabile. E mentre Mariavittoria continuava a parlare, a spiegare, a confermare, il mondo di Carlo si ricostruiva intorno a una nuova, dolorosa verità.

Tornando a casa, la sua mente si avvolse in immagini che non voleva vedere, che non avrebbe mai voluto immaginare. Vedeva Giovanna con un altro uomo, un uomo più giovane, più forte, uno di quelli che si allenano in palestra con muscoli scolpiti e corpi che sembrano fatti di granito. E mentre la sua mente, traditrice, scivolava in fantasie sempre più dettagliate, si rese conto che la rabbia si stava trasformando in qualcosa di diverso, qualcosa di oscuro e inconfessabile.
L’immagine di Giovanna, avvolta dalle braccia di un altro, i suoi seni che rimbalzavano con un’energia che lui non ricordava di aver mai visto, si impossessò di lui. E quando la immaginò gridare di piacere, più forte di quanto non avesse mai fatto con lui, sentì il proprio corpo rispondere in un modo che lo lasciò senza fiato, terrorizzato dalla propria reazione. Il suo cazzo era completamente eretto.

Arrivato a casa, Carlo vide l’auto di Giovanna parcheggiata nel vialetto, una sagoma familiare che, in quel momento, sembrava un segnale di pericolo luminoso. Non si mosse subito; invece, rimase in macchina, il motore ancora acceso, le dita che tamburellavano il volante come se il battito delle mani potesse in qualche modo sincronizzarsi con il caos nella sua testa. Una sorta di riflesso condizionato, quasi fuori dal suo controllo, lo portò a sfiorare la cerniera dei pantaloni. E senza nemmeno rendersene conto, le sue mani si erano già infilate dentro, i suoi pensieri - frenetici, confusi, un turbinio di immagini di Giovanna con qualcun altro, qualcun altro che non era lui - trasformarono la sua eccitazione in un impulso che non riconosceva.
Non si aspettava di venire, era solo un modo per placare l'ansia, per distrarsi dal vortice, eppure fu colto alla sprovvista dall’intensità del proprio orgasmo, un’esplosione improvvisa che lo prese come un'onda inattesa. Fuori controllo.
Si lasciò andare sul sedile dell’auto, il respiro affannato che si mescolava alla musica soffusa che continuava a uscire dalle casse, una colonna sonora banale e per questo perfetta. Quando tutto finì, Carlo si ritrovò appoggiato contro il sedile, lo sguardo fisso sul soffitto dell’abitacolo, come se cercasse di leggere nel tessuto grigio qualche risposta che non poteva essere trovata altrove.
Quella che lo spaventava davvero non era tanto l’atto stesso — il fatto che si fosse masturbato in macchina, un’esperienza che non aveva mai contemplato prima, figuriamoci dopo aver ricevuto una notizia così devastante — ma la realizzazione di ciò che lo aveva provocato. Il pensiero, ricorrente e involontario, di Giovanna con un altro uomo, un'immagine che ora sembrava impossibile da allontanare, ma che, in quel momento, si era intrecciata con la sua eccitazione in un modo che trovava simultaneamente ripugnante e inebriante.

Nei giorni successivi, decise di non affrontare subito Giovanna. Il conflitto era qualcosa che aveva sempre evitato con la stessa cura con cui si evita un serpente velenoso in un sentiero stretto; e per ora, la via più facile sembrava quella di lasciare che tutto scorresse, come acqua sotto un ponte che non si voleva attraversare. Stranamente, si scoprì più attratto da lei che mai, come se l’ombra di quell’altro uomo avesse aggiunto una nuova dimensione al suo desiderio. Si avvicinava a lei ogni notte, come un adolescente in preda a un’infatuazione, ma sapeva che non era Giovanna, non davvero, quella che stava cercando.
Ogni notte faceva l’amore con sua moglie, ogni notte la sua mente vagava, si perdeva in fantasie sempre più vivide e dettagliate, in cui Giovanna non era mai con lui, ma con quell’immagine mentale di un altro, qualcuno più forte, più giovane, più vivo. Queste immagini si trasformavano, ogni notte, in una sorta di ossessione, un ciclo vizioso di desiderio e auto-inganno che si avvitava su sé stesso.

Passò una settimana intera prima che Carlo decidesse di fare qualcosa. Una mattina, mentre Giovanna era sotto la doccia, prese il suo telefono, il cuore che gli batteva nelle orecchie come un tamburo, e accese la geolocalizzazione condivisa, un’azione che segnava l’inizio di un nuovo capitolo nella sua discesa in questo labirinto di sospetti.
Seguì ogni sua mossa nei giorni successivi, un detective alle prime armi che si trova improvvisamente nel mezzo di un caso che lo coinvolge troppo da vicino: il tragitto verso il lavoro, il supermercato, i soliti negozi. Poi, finalmente, il tardo pomeriggio di venerdì, la vide deviare dal solito percorso, dirigendosi verso un quartiere a lui sconosciuto, verso una casa che non aveva mai visto prima.
La tentazione di correre subito lì, di affrontare la realtà nel momento in cui si stava svolgendo, era forte, quasi travolgente, ma Carlo scelse di rimandare, di evitare lo scontro diretto. Si ripromise di andarci il giorno successivo, quando la situazione sarebbe stata meno ambigua, e avrebbe affrontato l’uomo che stava dormendo con sua moglie.

Quella sera, Giovanna rientrò tardi, e come da copione, offrì la sua spiegazione.
"Mi dispiace di essere così in ritardo, tesoro", disse, il tono di voce che tentava di essere casuale ma che a Carlo suonava quasi grottesco nella sua familiarità. "La cena di addio per Renata è durata un'eternità. Chi avrebbe mai pensato che una che odiava l'ufficio sarebbe stata così piagnucolosa al momento di andarsene?"
Carlo ascoltò le parole, le bugie che ora riconosceva come tali, con la testa che annuiva meccanicamente: il suo corpo stava rispondendo con una cortesia automatica, mentre la sua mente era altrove, già impegnata a pianificare cosa fare l’indomani. Forse c'erano state decine, centinaia di queste storie, e lui le aveva credute tutte, ogni singola volta. Ora, però, sapeva, o almeno pensava di sapere, e decise che tutto sarebbe finito il giorno seguente.

La mattina dopo, Carlo si trovò di nuovo nella sua macchina, davanti alla stessa casa in quel quartiere sconosciuto. L’incertezza lo colpì, un colpo di coda della paura che lo aveva trattenuto fin lì. Si chiese se valesse la pena affrontare Daniel, o se fosse meglio lasciar perdere tutto, come un incubo da cui ci si sveglia sudati ma sollevati. Giovanna e lui avevano fatto più sesso nell’ultima settimana di quanto non avessero fatto in mesi, forse anni, anche se quel sesso era stato popolato da fantasmi di altri corpi. Alla fine, la sua volontà, o ciò che ne rimaneva, lo spinse a scendere dall'auto. Doveva affrontare l’uomo. Doveva combattere per sua moglie, o almeno così si disse, un mantra che perdeva significato ogni volta che lo ripeteva.

Quando finalmente si trovò davanti alla porta, Carlo si rese conto di non avere la minima idea di cosa avrebbe detto. Non aveva un piano, nessuna strategia, solo un vago desiderio di risolvere qualcosa che non sapeva nemmeno da dove iniziare a risolvere. La porta si aprì, rivelando un uomo che assomigliava incredibilmente a quello che Carlo aveva immaginato in tutte quelle sue fantasie notturne, come se la sua mente avesse materializzato quel pensiero. Rimase lì, a bocca aperta, senza parole, il cuore che martellava nel petto, mentre il mondo sembrava girare fuori dal suo controllo.

Daniel aspettava Giovanna con la calma di chi sa che la sua giornata è iniziata bene e potrebbe solo migliorare. Avevano passato la sera precedente nella sua casa, una di quelle tipiche case suburbane che puntano tutto sulla funzionalità ma che, per una strana alchimia, riescono comunque a trasudare un certo calore domestico. Era una serata di quelle che ti rimangono addosso come un odore familiare: una cena speciale, cucinata con la goffa ma genuina dedizione di chi sa che il cibo è un mezzo, non un fine, seguita da una lenta e metodica esplorazione dei rispettivi corpi nella camera da letto.
La stanza di Daniel, ben illuminata dalla luce mattutina che filtrava attraverso le tende sottili, aveva una peculiarità che a Giovanna piaceva particolarmente: un’intera parete rivestita di specchi. Rifletteva non solo l’attrezzatura da palestra - un vogatore, un tapis roulant, un set di pesi liberi, posizionati con la precisione ossessiva - ma anche, e soprattutto, l’immagine di lei e Daniel mentre facevano l’amore. Giovanna trovava qualcosa di profondamente eccitante nel vedersi, riflessa, in quell’atto che, sebbene comune, sembrava avere una qualità quasi ritualistica quando poteva guardarlo svolgersi da una prospettiva esterna. Era come un teatro privato, e lei era l’attrice principale, con Daniel come partner di scena. A volte si chiedeva se fosse proprio l’atto o la sua rappresentazione specchiata a eccitarla di più.
Era tardi quando Giovanna decise, con una certa riluttanza, che sarebbe dovuta tornare da Carlo. C’era un sottile senso di obbligo, forse più verso un’idea che verso una persona. Prima di andarsene, aveva accennato, con quella leggerezza che è propria di chi sa di avere ancora tempo, che sarebbe tornata la mattina seguente.

Così, quando Daniel aprì la porta quella mattina, indossando una canottiera senza maniche e dei pantaloncini da ginnastica che aderivano ai suoi muscoli con la stessa premeditata noncuranza con cui un pittore sfiora la tela, si aspettava di vedere Giovanna, con quel suo sorriso enigmatico che già pregustava il piacere. Invece, davanti a lui si trovava un uomo che sembrava uscito da un catalogo di abiti casual per chi ha smesso di preoccuparsi: jeans mal tagliati, una camicia che non sapeva se essere troppo larga o troppo stretta, e un’espressione che oscillava tra il confuso e il terrorizzato.
"Posso aiutarti?" chiese Daniel, il tono non tanto gentile quanto curiosamente indifferente, come se stesse parlando a un venditore porta a porta che cercava di piazzargli l'ennesimo abbonamento a qualcosa di inutile.
"Io sono, uh, tu sei Daniel?" chiese Carlo, con la voce di chi sa di essere già oltre la sua capacità di gestire la situazione.
"Sì, sono Daniel. Perché non mi dici cosa vuoi?"
La risposta di Daniel fu secca, cercando di mantenere una certa linearità in un dialogo che prometteva di deragliare da un momento all’altro.
Carlo stava iniziando a sentirsi soffocare da un’ondata di panico, come un subacqueo a cui improvvisamente manca l’aria, ma non è ancora in grado di decidersi se emergere o rimanere sotto la superficie, in attesa di qualcosa.
"Penso che tu conosca mia moglie, Giovanna," disse infine, ma la frase uscì a scatti, spezzata come un vecchio nastro che si riavvolge male.
Daniel rise, una risata breve e priva di calore, una di quelle risate che sembrano più un’espressione automatica che una vera reazione emotiva.
"Tu devi essere Carlo! Ho sentito molto parlare di te. Sono sorpreso che ci sia voluto così tanto tempo perché tu mi trovassi. Avanti, entra."
Carlo, totalmente spiazzato, varcò la soglia, in una confusione totale che si traduceva in movimenti rigidi e goffi. La porta si chiuse dietro di lui con un suono che rimbombò troppo a lungo nelle sue orecchie, e per un attimo pensò di essere intrappolato in una di quelle situazioni in cui tutto sembra accadere troppo in fretta, mentre lui rimane fermo, incapace di muoversi. Ma non era la velocità degli eventi a sopraffarlo, quanto piuttosto l'assurda familiarità con cui Daniel lo trattava, come se fosse stato previsto tutto, come se fosse un’inevitabile sequenza di mosse in una partita già decisa.

I due uomini si fissarono per un momento, intrappolati in uno stallo che sembrava dilatarsi all’infinito. Carlo, che di solito evitava il confronto come una forma d’arte, trovava difficile perfino iniziare a mettere insieme le parole che avrebbero dovuto dare un senso a tutto questo. Alla fine, fu lui a rompere il silenzio, ma quando parlò, le parole uscirono in un balbettio quasi ridicolo.
"Devi smetterla..." e qui la sua mente si bloccò, incapace di trovare il termine giusto, di capire come chiamare quello che Daniel e Giovanna stavano facendo. ‘Fare sesso’ sembrava troppo clinico, ‘scopare’ troppo volgare, e in quel momento ogni parola sembrava sbagliata.
Daniel lo fissava con uno sguardo penetrante, come un insegnante esasperato che aspetta che il suo allievo finalmente capisca la lezione.
"Cosa devo smettere, Carlo?" urlò infine, un grido che riempì la stanza, riverberando contro le pareti. "Dillo, Carlo!"
Carlo abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello di Daniel, e in qualche modo trovò la forza di pronunciare le parole, anche se ogni sillaba sembrava portargli via un pezzo di vita.
"Devi smetterla... devi smetterla di SCOPARE MIA MOGLIE!"
Le parole erano state pronunciate, e con esse venne una sensazione di vuoto, ogni energia risucchiata da quel grido disperato. Le lacrime gli iniziarono a rigare il viso, e prima di rendersene conto, era caduto in ginocchio, implorante, la voce spezzata dall’angoscia.
"PER FAVORE!" disse, e il suono della sua voce sembrò fendere l’aria, un’eco che si disperdeva in un vuoto che nessuna risposta avrebbe potuto colmare.

Carlo si ritrovò a fissare il pavimento, sentendo il peso della risata di Daniel rimbalzare nella stanza, rimbombare nelle sue orecchie, un suono che sfidava qualsiasi logica o dignità.
"Vuoi davvero che smetta di scopare con Giovanna? Ah, e cosa direbbe lei? Posso immaginare perfettamente le sue parole, me le sento in testa, proprio qui, e risuonano tipo ‘Non ci credo! Non smetterò di fare il miglior sesso della mia vita solo perché lo dice il mio caro maritino che non riesce nemmeno a farmi venire una volta, figuriamoci due!’"
Carlo, silenzioso, sperava che l’impatto delle parole si dissipasse nel tempo, ma la verità era che ogni parola affondava come un coltello affilato, scavando in lui una consapevolezza scomoda e innegabile.
Daniel continuò, la sua voce un incrocio tra una lezione e una condanna.
"Sai qual è il problema, Carlo? Sei l'epitome dell'amante egoista, l’archetipo del marito che si preoccupa solo di se stesso. Ti infili dentro di lei senza un minimo di preavviso, come se fosse solo un'altra faccenda da sbrigare, un altro compito nella tua routine senza gioia, e poi, boom, dopo la tua sborratina è finito tutto. E Giovanna? Giovanna ha bisogno di altro, e lo ha trovato qui da me."
Avrebbe voluto gridare, negare ogni accusa con tutto il fiato che aveva, proclamare con forza che sì, lui sapeva soddisfare sua moglie, che Daniel era solo un bugiardo. Ma una verità scomoda gli chiudeva la gola: non era mai stato con nessun'altra donna prima di Giovanna, e per lui, il sesso era sempre stato solo una questione di arrivare a quel "traguardo" finale, come attraversare una linea di meta invisibile. In quel preciso momento, una rivelazione fredda e paralizzante si fece strada nella sua coscienza: non era abbastanza, non lo era mai stato.

Quando finalmente alzò lo sguardo dalla sua posizione in ginocchio, si sentì inchiodato al pavimento da una sorpresa gelida: Daniel aveva abbassato i pantaloni, e il suo membro eretto puntava direttamente verso il suo volto, come un'accusa, un comando. Tentò di alzarsi, di fuggire dalla scena, ma si scoprì incapace di muoversi, paralizzato da un miscuglio letale di paura, vergogna e un'altra emozione che non riusciva a nominare. Daniel avanzò di un solo passo, sufficiente per far sì che il suo membro sfiorasse la guancia di Carlo.
"Succhiamelo, verme" sibilò Daniel, e quelle parole tagliarono l'aria come un coltello.
"No," si sentì dire Carlo, una parola che sembrava svanire nell'istante stesso in cui lasciava le sue labbra. In un atto che sembrava sfidare ogni logica personale, ogni principio a cui si era aggrappato, sentì le sue labbra aprirsi e accogliere l'intruso. Non aveva mai fatto niente del genere prima, e se solo quella mattina gli avessero chiesto se mai lo avrebbe fatto, avrebbe risposto con un categorico "Assolutamente no!"
Ma ora, mentre il membro di Daniel riempiva la sua bocca, si accorse del cambiamento, sentì la pressione crescere, sentì il soffocamento che lo travolgeva quando la punta raggiunse il fondo della sua gola. Daniel, incurante del suo disagio, continuava a spingere, spingere, spingere, in un ritmo che sembrava ignorare il confine tra piacere e tortura.

Carlo non riusciva a scacciare dalla mente l’immagine vivida e disturbante di quel pene che gli era stato infilato in bocca, lo stesso che era stato dentro sua moglie.
Improvvisamente, quel pene si ritirò, lasciandolo in un vuoto fisico e mentale, mentre Daniel si allontanava leggermente, con il marchio di fabbrica di quell’aria di superiorità. Carlo era ancora seduto sulle ginocchia, i suoi occhi puntati sull’erezione massiccia di Daniel che gli pulsava contro il naso, come una minaccia o una promessa, o entrambe le cose allo stesso tempo.
"Per ora basta, piccolo verme," disse Daniel con un ghigno, ritraendosi con una calma glaciale. "Voglio risparmiarmi per la rossa bollente che arriverà da un momento all'altro."
Rossa bollente? Il cervello di Carlo registrò il termine con una lentezza quasi comica. Si riferiva a Giovanna? Sua moglie? L’avrebbe vista? Daniel avrebbe raccontato tutto a Giovanna, ogni sordido dettaglio di ciò che era appena accaduto? Un'ondata di panico lo invase, mescolata a una sensazione di disgusto verso se stesso che sembrava accumularsi nelle profondità del suo stomaco. Si alzò goffamente, un tentativo maldestro di scappare, di sfuggire a quella realtà surreale, ma prima che potesse fare un solo passo, Daniel lo afferrò per un braccio, tirandolo con una forza inesorabile, come se fosse un oggetto, una cosa, non un uomo.
"Pensi di scappare, piccolo succhiacazzi? Impossibile, non abbiamo ancora finito con te. C'è dell'altro in arrivo, e comunque," e qui Daniel fece una pausa, guardando giù verso Carlo con un sorriso contorto, "sembra che ti stia divertendo," disse con un cenno della testa verso il rigonfiamento evidente nei pantaloni di Carlo.
Era solo in quel momento, con un orrore crescente, che Carlo si rese conto di quanto fosse eccitato. L’evidenza del desiderio che gli pulsava tra le gambe era innegabile, e non riusciva a comprendere come fosse possibile, come il semplice atto di succhiare un cazzo, una cosa che solo poche ore prima gli sarebbe sembrata inconcepibile, potesse provocargli un’eccitazione così violenta. Era come se il suo corpo stesse rispondendo a qualcosa di profondamente nascosto, qualcosa che aveva ignorato o represso per tutta la sua vita.

Daniel lo trascinò nella camera da letto, un ambiente che a Carlo sembrava improvvisamente alieno e ostile, come se ogni oggetto avesse perso il suo significato originario, trasformandosi in qualcosa di minaccioso.
"Sdraiati sulla schiena, proprio qui, sul pavimento, davanti al tapis roulant," ordinò Daniel, la sua voce ora priva di ogni traccia di sarcasmo, divenuta invece un comando freddo e autoritario. E, sorprendentemente, Carlo obbedì senza esitazione, come se la sua volontà si fosse dissolta, come se non avesse altra scelta che fare esattamente ciò che gli veniva detto.
Sdraiato lì, sentiva una sottomissione totale, una resa che non aveva mai conosciuto prima. Eppure, il pensiero che continuava a martellargli in testa era uno solo: voleva, più di ogni altra cosa in quel momento, succhiare di nuovo quel cazzo. Voleva portare Daniel al culmine e sentire lo sperma scivolargli giù per la gola, un pensiero che lo spaventava e lo eccitava allo stesso tempo. Si chiedeva, confuso e terrorizzato, cosa significasse tutto questo. Era forse bisessuale? O forse era gay e non l’aveva mai saputo? E cosa significava questo per tutto ciò che credeva di sapere su se stesso? Le domande rimbalzavano nella sua mente, senza risposte, mentre attendeva ciò che sarebbe venuto dopo, in quello stato di aspettativa febbrile e inquietante.

Carlo, disteso supino con la schiena premuta contro il pavimento freddo, osservava Daniel sollevare con una facilità inquietante due manubri che, a occhio e croce, dovevano pesare almeno cinquanta chili ciascuno.
"Mani dritte sopra la testa, verme," ordinò Daniel, e Carlo, in uno stato quasi automatico, obbedì.
Lo osservò mentre Daniel bloccava i suoi polsi al pavimento, intrappolandolo sotto quei pesi massicci. Legato con alcune spesse fascette fa elettricista, all'improvviso si trovò immobilizzato, una sensazione che combinava l'opprimente claustrofobia fisica con una paralizzante consapevolezza mentale. Non c'era modo di sollevare le braccia, non c'era modo di sedersi; ogni tentativo di divincolarsi si riduceva a calci frenetici e inefficaci, come un insetto capovolto.
Daniel, con la stessa calma metodica di chi compie un rituale già praticato infinite volte, si inginocchiò sulle gambe di Carlo, e allungando la mano verso la fibbia dei suoi jeans, iniziò a slacciarli. In pochi secondi, con una precisione che sembrava meccanica, tirò giù pantaloni e mutande fino alle caviglie, legando i piedi di Carlo in un groviglio di tessuto, lasciandolo inchiodato al pavimento, esposto, vulnerabile, il suo pene eretto che puntava in aria come una bandiera che annuncia la sua resa.
Daniel si fermò, come a contemplare il risultato del suo lavoro, lasciando passare minuti che a Carlo sembravano ore, un silenzio che rimbombava nella sua testa come un tamburo lontano. Poi, senza un suono, Daniel si tolse gli shorts e si posizionò sopra di lui, di spalle, in modo che l'unica cosa che Carlo potesse vedere fosse il fondoschiena scolpito, ogni muscolo ben definito, un'ostentazione di potenza fisica che non aveva bisogno di parole. Mentre fissava quell’immagine, fascino e terrore, vide il sedere di Daniel avvicinarsi, scendere verso di lui, fino a quando il suo naso si trovò a un soffio dalla fessura.
Carlo si preparò al soffocamento, al disgusto, a qualcosa di innominabile che avrebbe messo fine a tutto. Ma il soffocamento non arrivò, e nemmeno il disgusto che si aspettava con tanto fervore. Al contrario, sentì un odore che, per quanto distintivo e intriso di sudore, non lo ripugnava come avrebbe dovuto. Era un odore di atletismo, di sforzo fisico, e in qualche modo lo trovò… non spiacevole. Guidato da un impulso che non riconosceva, tirò fuori la lingua con cautela, esitando solo un istante prima di spingerla avanti, lambendo il buco dell’uomo sopra di lui. Ogni fibra del suo essere gli diceva che avrebbe dovuto provare repulsione, disgusto, una reazione viscerale che lo costringesse a fermarsi. Ma no, continuò a leccare, cercando persino di spingere la lingua più in profondità, cercando qualcosa che non sapeva nemmeno di voler trovare.

Poi, proprio quando Carlo stava iniziando a sentire una strana forma di accettazione, una fusione tra corpo e mente che gli faceva perdere il senso del tempo e dello spazio, Daniel si alzò improvvisamente e uscì dalla stanza, lasciandolo lì, solo e vulnerabile, con la mente che correva a mille all'ora. Carlo udì un suono distante, come un campanello, e sentì il panico stringersi attorno al suo cuore come un pugno gelido. Non poteva sopportare l’idea che qualcuno, soprattutto Giovanna, lo vedesse in quella posizione: disteso sul pavimento, legato, i pantaloni abbassati, il cazzo eretto in aria come un trofeo macabro.

Carlo tese le orecchie, ogni fibra del suo corpo sintonizzata sui suoni che provenivano dall'altra parte della porta. Pregava che fosse solo un fattorino o un venditore, qualcuno che sarebbe andato via in fretta, senza lasciare traccia. Ma le voci si fecero più forti, avvicinandosi, riempiendo la sua mente di immagini orribili, di scenari catastrofici.
Quando la porta finalmente si aprì, il sollievo di vedere solo Daniel fu immediato, ma breve. Daniel lo fissò con un'espressione che era un mix di divertimento crudele e qualcosa di più oscuro.
"Le signore sono qui," sussurrò, le parole che rimbombavano nella stanza vuota come un eco. "È ora della lezione."
Lezione? Carlo sentì il gelo della paura invaderlo, ma ciò che lo terrorizzava davvero era la parola "signore." Al plurale. Più di una donna. La presenza di Giovanna sarebbe stata imbarazzante oltre ogni limite, ma l'idea di qualcun'altra, o peggio, di più persone, lì a vederlo, lo terrorizzava al punto da farlo sentire sull'orlo della follia. Tentò disperatamente di liberarsi, lottando contro i manubri che lo inchiodavano al pavimento, ma ogni sforzo era vano. Se solo fosse riuscito a liberare i polsi, se solo avesse potuto alzarsi, tirarsi su i pantaloni e scappare via, via da quell’incubo in cui si era ritrovato prigioniero. Ma non c'era via di fuga, solo la consapevolezza crescente di ciò che stava per accadere.

Con un movimento conteneva in sé un’intera filosofia di controllo e dominio, Daniel si inginocchiò accanto a Carlo con la lentezza meditativa che usano solo quelli che sanno esattamente cosa stanno per fare.
"Questo potrebbe renderti le cose un po’ più facili," disse, mentre una benda scura scivolava sulla testa di Carlo.
L'oscurità lo avvolse immediatamente, una cortina nera che chiudeva fuori il mondo visibile e accendeva tutti gli altri sensi. Senza la vista, le orecchie di Carlo entrarono in iperfunzione, cercando disperatamente di dare un senso a ogni fruscio, a ogni passo, a ogni spostamento d'aria che gli arrivava come un sussurro sulla pelle.
Nessuna parola venne pronunciata, ma il suono dei passi indicava chiaramente che c’erano almeno tre persone nella stanza, il che aumentava esponenzialmente la sua ansia. Poi il fruscio dei vestiti, il suo cervello lavorava a pieno regime, cercando di mettere insieme i pezzi: qualcuno si stava spogliando. E poi sentì, in modo quasi surreale, la presenza fisica di qualcuno sopra di lui, in equilibrio precario con un piede su ciascun lato delle sue costole.

Giovanna sapeva perfettamente cosa stava facendo. Carlo, nonostante la sua attuale impotenza, aveva sempre avuto quella sottile consapevolezza che lei fosse molto più sveglia di lui, molto più attenta a ogni sfumatura, molto più brava a nascondere la sua insoddisfazione dietro a una maschera di serenità. Quante volte gli aveva succhiato il cazzo senza ottenere nulla in cambio? Quante volte aveva sperato, solo per rimanere delusa quando lui si ritirava subito dopo aver raggiunto il suo obiettivo egoistico? Quella era la mattina in cui finalmente avrebbe avuto la sua vendetta, la prima volta da mesi che avrebbe raggiunto l'orgasmo con suo marito, con la cruda ironia che lui non ne avrebbe ottenuto nulla in cambio.
Giovanna si sistemò a cavalcioni sul petto di Carlo, il peso del suo corpo che si distribuiva sulle ginocchia piantate saldamente nelle sue ascelle, come un fermo simbolico del suo dominio. Prima di chinarsi in avanti per chiudere quel breve ma infinito spazio tra i loro volti, tirò su la benda per guardarlo dritto negli occhi. Le sue pupille sembravano scavare dentro di lui, non c'era nulla di romantico o affettuoso nel modo in cui lo guardava; era fredda e calcolatrice, e Carlo sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Giovanna alzò lo sguardo verso Daniel, che osservava la scena come un regista compiaciuto della sua creazione.
"Penso che sarebbe meglio se avesse tutti i sensi, e che veda bene cosa gli farò fare," disse, come se fosse la cosa più logica del mondo.
Carlo, intrappolato da quell’intensità implacabile, non riusciva a vedere la reazione di Daniel, perché il viso di Giovanna era così vicino al suo che i loro nasi si sfioravano, bloccandogli ogni altra visuale.
"Ciao tesoro," disse lei, la voce dolce e calma, un’inquietante normalità che contrastava violentemente con l’assurdità della situazione.
Sembrava una moglie che accoglie il marito a casa dopo una lunga giornata di lavoro. "Oggi mi darai piacere e non ti fermerai finché non sarò completamente soddisfatta. Hai capito?"
Carlo non riusciva a parlare, la lingua immobilizzata in un silenzio che non aveva mai conosciuto prima. Riuscì solo a scuotere la testa in segno di assenso, un gesto che sembrava insignificante e disperato.

Giovanna si sollevò appena, il suo corpo che scivolava verso l’alto in modo fluido, mentre le sue piccole tette gli scivolavano sul viso, un tocco quasi innaturale nella sua leggerezza. Dopo che i suoi seni uscirono dalla visuale di Carlo, lui seguì con lo sguardo la sua pancia sottile che si allontanava, per poi vedere il suo inguine avvicinarsi. I peli pubici gli solleticarono il viso, e poi sentì l’umidità, quel tipo di umidità che conosceva bene ma che in quel momento aveva un significato completamente diverso. Anche se non si era mai trovato prima in quella posizione, non c’era dubbio su cosa doveva fare.
Giovanna si posizionò perfettamente con la figa sopra la sua bocca, e Carlo iniziò a muovere la lingua, esplorandola con una diligenza che non gli era mai stata familiare.
Lei sentiva ogni sua reazione, ogni piccolo movimento del corpo, e con una precisione quasi chirurgica si spostò più in basso, fino a far incontrare la sua lingua con la clitoride. Ci vollero solo un paio di minuti - ma per Carlo sembrarono eterni - prima che Giovanna spingesse forte contro il suo viso, il corpo teso come un arco, e lasciasse uscire un urlo di piacere, un suono che Carlo non aveva mai sentito prima, una canto primordiale che riecheggiò nella sua mente.

Quando Giovanna si allontanò, lasciando dietro di sé solo il respiro affannoso e le guance di Carlo ricoperte dei suoi succhi, si chinò nuovamente su di lui, guardandolo negli occhi con una freddezza che era quasi più dolorosa dell'atto stesso.
"Bel lavoro," disse, e la sua voce era una lama di ghiaccio, "ma avresti dovuto farlo negli ultimi venticinque anni. Se l’avessi fatto, oggi non saremmo qui."
Con un gesto secco, tirò giù la benda, riportando Carlo nell’oscurità totale, lasciandolo solo con i suoi pensieri, in un buio che era ormai più che familiare, un buio che conteneva tutte le sue paure e i suoi rimpianti.

Ci fu quel silenzio denso, tangibile, un silenzio che piegava il tempo e allungava ogni secondo in una eternità distorta, riempita di quel tipo di attesa che si prova solo nei momenti in cui sai che qualcosa di irrevocabile sta per accadere, ma non hai idea di cosa sia o come ti cambierà. Carlo giaceva lì, immobilizzato, con la mente in uno stato di iperconsapevolezza, i pensieri che rimbalzavano caoticamente tra il desiderio di fuggire e la paradossale curiosità di sapere cosa sarebbe successo dopo. Stava vivendo una sorta di esperimento sociale perverso in cui la sua umanità veniva spogliata strato dopo strato, lasciando solo un nucleo crudo e vulnerabile di paura e vergogna.

Poi, senza alcun preavviso, sentì di nuovo la pressione di due piedi, uno su ciascun lato del suo stomaco. L’istinto lo spinse a irrigidirsi, ma la realtà era che non c’era modo di prepararsi per qualcosa di così alieno, così profondamente disorientante. Questa volta, non c’erano parole. Nessuna voce femminile che lo rimproverava o gli ordinava di fare qualcosa. Solo il silenzio opprimente e il peso di un altro corpo sopra di lui, un inguine sconosciuto che premeva contro le sue labbra in un gesto che aveva conosciuto poco prima con sua moglie, ma che non per questo gli sembrava meno surreale.
La prima cosa che notò fu l’assenza di peli. Questo dettaglio lo colpì con una forza sorprendente, come se il cervello si aggrappasse disperatamente a qualsiasi cosa concreta, qualsiasi cosa che potesse essere analizzata o compresa in un mare di confusione. La pelle liscia e il profumo dolce erano così in contrasto con l’esperienza precedente, eppure c’era un senso di continuità, come se stesse seguendo un copione che non aveva mai letto ma che in qualche modo conosceva. Il corpo sopra di lui si mosse in un ritmo che sembrava già familiare, ma quando l’orgasmo arrivò, fu rapido e violento, un’esplosione di energia compressa che lo colpì con un’intensità che lo fece quasi sobbalzare. Il peso della donna premeva contro il suo viso con una forza tale che per un momento pensò che avrebbe potuto soffocare, o forse peggio, che avrebbe voluto soffocare, pur di mettere fine a quell’incubo che stava vivendo con una chiarezza quasi dolorosa.
Poi, tutto finì. In un battito di ciglia, il corpo sopra di lui si ritirò e Carlo rimase solo con il respiro affannoso e il suono dei passi che si allontanavano. Le sue orecchie captarono tre serie di passi, un ritmo che sembrava quasi una beffa del suo stato di vulnerabilità, come se la realtà stesse giocando con lui, sussurrandogli che il peggio era passato, solo per poi schiacciarlo di nuovo.
Ma no, un rumore di passi cessò, e Carlo sentì dei piedi che si avvicinavano, di qualcuno che tornava verso di lui. Daniel. Lo sentì chinarsi, il suo respiro che sfiorava la pelle umida e appiccicosa del viso di Carlo, prima che la benda venisse rimossa, riportandolo bruscamente alla luce, alla cruda e implacabile realtà.

Quando Carlo girò la testa, il suo sguardo si posò su due schiene magre che si allontanavano, entrambe adornate da lunghi capelli biondo rossicci che cadevano quasi fino al sedere. C'era qualcosa di ipnotico nel modo in cui quei corpi si muovevano, una sincronia che per un istante lo catturò, lo trascinò via dall’orrore. Uno dei corpi si girò, e Carlo sentì il mondo crollare su di lui in un colpo solo. Il cuore gli si fermò. Mariavittoria, sua figlia, lo guardava con un disprezzo che era quasi tangibile, un disprezzo che scavava più a fondo di qualsiasi parola o azione potesse fare. In quello sguardo c'era tutto: la condanna, la rabbia, la delusione, un intero universo di emozioni che lo trafisse, lasciandolo inchiodato sul pavimento, incapace di muoversi, incapace di fare qualsiasi cosa tranne guardare quella che era la manifestazione fisica del suo fallimento come padre, come marito, come uomo.

E poi, come se l'universo volesse davvero assicurarsi che non ci fosse via di scampo, lo specchio rifletté l’immagine di Giovanna, sua moglie, che cavalcava Daniel come una cowgirl, i loro corpi che si muovevano in una danza oscena e crudele. E lì, sopra di lui, la figlia che sedeva sul suo viso, in una posizione che nessun padre dovrebbe mai vedere, figuriamoci sperimentare. Le due donne si fronteggiavano, i loro sguardi che si incontravano e si capivano in un modo che escludeva completamente Carlo, un'intesa che non avrebbe mai potuto decifrare, mentre raggiungevano orgasmi simultanei, un'armonia perversa che lo lasciò paralizzato.

Mentre tutto questo accadeva, Carlo si ritrovò a chiedersi, in una sorta di trance dissociativa, se la sua erezione - quell’erezione dura come la roccia, così assurda e fuori luogo - si sarebbe mai placata, o se fosse destinato a rimanere intrappolato per sempre in questo incubo grottesco, con il corpo che tradiva la mente, incatenato in una condizione che non avrebbe mai potuto spiegare, né a se stesso né a nessun altro.
scritto il
2024-11-02
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