La donna che visse due volte

di
genere
etero

Ogni tanto torno a cercare quel racconto sul sito, ma non lo trovo. Una frustrazione mi brucia dentro. E mi chiedo perché non me lo sia salvato in qualche maniera.
Provo a fare una ricerca tra qualche parola chiave, qualche termine che ricordo, ma nulla.
Provo con il suo nome, Sofia. Ma inevitabilmente viene fuori una valanga di risultati: saffici, etero, incesti (e come potrebbero mancare)
393 racconti.
I piedi di Sofia
5 cazzi per Sofia

Inutile tentare quella strada.

Provo allora con i riferimenti più inusuali.

Casablanca: 31 racconti. Non c’è
Vertigo: 2 racconti. Neanche lì.
Torrance. 3 racconti…uno che sembra interessante, dovrei leggerlo, ma non è quello che cerco.

In nessuno di quei racconti c’è Sofia e la nostra cena aziendale. In nessuno di quei racconti c’è lei che mi ubbidisce quando le chiedo di toccarsi. In nessuno di quei racconti c’è il dito che scende ad esplorarsi nelle nelle mutandine, che scorre nelle pieghe della sua carne umida, che si impregna del suo odore… che si impregna del TUO odore, che estrai dai pantaloni e che avvicini al mio naso.
“Splendido, Sofia, splendido!”

Ed io mi ritrovo qui davanti al computer, a cercare la nostra storia senza trovarla, il mio cazzo che protesta con il mio cervello per averlo ingannato con il ricordo dell’odore della sua fica. Ma tu non avresti mai utilizzato questi termini. “Cazzo” solo come imprecazione. “Fica” solo nascosta tra altre parole …come “edificante”.

Ammettiamolo: ero io quello volgare, anche se volevo passare per l’uomo acculturato, le citazioni cinematografiche in quella testa brizzolata. Con le mie richieste sconce. I miei ordini perentori. Le mie pretese oscene. Avevo goduto nel trascinarti nel mio gioco di dominazione, tu donna sposata, io uomo libero con – in più – il bonus di una posizione aziendale da cui poter avere l’impressione di controllare ogni cosa. Inclusa la tua sudditanza, che aggiungeva piacere al piacere.

Il nostro sesso in macchina e il nostro sesso sulla collina davanti alla città. Masturbarti per riempire la mano del tuo odore. Vederti inginocchiata davanti a me, impossessarti del mio cazzo, impossessarti del mio piacere. Un pompino per venirti in bocca, le mie mani sui tuoi capelli e farti mia.
Quel pompino deve avermi privato di quel poco di intelligenza che ancora credevo di avere. Dopo quella sera volli giocare un’insensata partita a scacchi. Mi programmai quel viaggio di lavoro senza avvertirti, partendo senza salutarti, credendo di essere molto furbo, credendo di giocare al gatto e al topo, sottraendomi a te per farmi desiderare e infine controllarti meglio.

Mi scrivesti, ma non ti risposi mai, contando di tornare in ufficio, e trovarti a quel punto seduta sulla mia scrivania, il poster di Hitchcock alle tue spalle, la gonna tirata su e le tue cosce oscenamente aperte che mi avrebbero supplicato di infilarmi tra di loro. Le tue mutandine fradice per me.
Che fosse il mio naso a rubarti l’odore, o il mio membro a violarti l’intimità, poco sarebbe importato. Sarebbe stata puramente una mia decisione, un capriccio del mio desiderio, cosa più mi sarebbe piaciuto in quel momento.

Ma quando son tornato, pregustando il momento, scoprii che ti eri licenziata. Il responsabile dell’ufficio del personale era andato su tutte le furie perché te ne eri infischiata del preavviso.
Avevano preannunciato cause. Avevano minacciato di trattenere parte della buonuscita.
Mirko, il direttore delle HR, mi aveva riferito la tua risposta, rosso in volto: “Francamente me ne infischio!” gli hai detto, condendo la citazione colta con la più convincente – per lui – parola “Vertenza”.
Cazzo! Chi è qui quello con le palle? Espressione che so che mi si ritorcerebbe contro in un attimo.
Mi aveva chiesto cosa avessi combinato. Mi aveva chiesto ragione di quella tua reazione, anticipandomi un’indagine interna, anticipandomi ripercussioni sulla mia carriera.
Ed io, invece, in quel momento, riuscivo a pensare ad una cosa soltanto: perché quella sera non ti avevo comandato di toglierti le mutandine e farmene omaggio? Almeno avrei avuto qualcosa di te, in cui cercare il tuo odore.

Forse sei tu che stai giocando al gatto e al topo ora. Io a farmi compagnia solo del tuo ricordo e della mia frustrata erezione. Che non c’è più un cazzo di racconto su quel sito in cui rileggere di noi.

Questo stavo scrivendo, un attimo prima che mi arrivasse la notifica della posta in arrivo.
Da: Sofia88@xxxxx.com
Oggetto: “Ti ho detto che ti amavo!”

+++

“Ti ho detto che ti amavo! Ti ho detto che volevo essere tua!! E questi sono i risultati? Ho buttato nel cesso un matrimonio per cosa? Per essere la tua puttana a comando?” Visti da fuori siamo due adulti che litigano. Uno più maturo dell’altra. Una più isterica dell’altro. Entrambi eleganti. Un uomo di quasi un metro e novanta, dalle spalle larghe, con il corpo asciutto e atletico e con lo sguardo basso a fissarsi le scarpe che giocano distrattamente con dei mozziconi di sigaretta. Una donna, più giovane, venti centimetri più bassa, che nella concitazione dello sfogo continua a togliersi dal volto i capelli castani che il vento le fa mulinare davanti agli occhi.
Visti da fuori. E infatti invidio gli occhi di quella bambina che, combattendo le braccia della madre, prova a non perdersi nulla della scena a cui sta assistendo. Magari pensando a quanto siamo buffi noi adulti. Già, buffi. Ma la verità è che dentro di me ti odio. Dal cuore. E odio anche me stessa per averti fatto entrare nella mia vita.”

Sai cosa è successo? Ti interessa?

E’ successo che davanti a quel poster di Vertigo nel tuo ufficio, mi sono immaginata a scrivere una lettera come questa qui sopra, prima o poi, andando a ripescare un ricordo di me da bambina.

E’ stata una convinzione che è cresciuta lentamente dentro di me, nonostante il vortice di desiderio in cui mi avevi trascinata. In piedi, davanti al poster di Hitchcock è bastata una domanda di Claudia, entrata in quel momento, a dar voce a quella certezza che avevo già dentro di me e a cui non volevo dare ascolto. “Sofia: che cazzo stai facendo?”
Claudia (la Claudia che tu provasti a sminuire con meschine suggestioni, provando a mettere due colleghe una contro l’altra) mi ha trovato nella tua stanza, uno di quei giorni di quella settimana in cui ti sei sottratto senza preavviso.
Mi ha trovato nella tua stanza ed è bastata quella domanda: “Che cazzo stai facendo?”

Già.
Carlo.
Che cazzo stavo facendo?

Perché un conto è una scopata. Ed un tradimento, che forse stavo intimamente giustificando dentro di me.
Un conto è quello che tu stavi facendo a me. Con i tuoi giochetti di dominazione psicologica.
Attenzione: non dico che non apprezzassi l’articolo. Se ti ho lasciato spazio è anche perché mi piaceva giocare questo gioco con te. Il collega autorevole e rispettato. Le spalle larghe. La voce profonda. L’eleganza. Anche quella sfumatura intellettuale di cinefilo, a lasciar intuire che la tua vita non si esauriva nel lavoro, che c’era di più dietro l’apparenza.
Ma poi è arrivata quella domanda di Claudia e, per qualche motivo, un ricordo che è riemerso dalla mia memoria. “Che cazzo sto facendo?”

Solo di una cosa devo ringraziarti. E non solo io: di un’ultima notte di sesso con mio marito.
Il desiderio insoddisfatto per la tua mancanza, mi ha regalato una cazzo di scopata come cristo comanda che non ci concedevamo da troppo tempo. Quelle serate di cui avevamo perso memoria. Vederlo masturbarsi nel guardarmi mentre mi spogliavo. Sentirmi desiderata. E non più solo da te, con le tue fantasie di dominazione. Che, va bene, ci possono stare, non nego mi abbiano affascinato.
Ma ora non me le meritavo.
Meritavo altro.
Mi meritavo di smettere di fare finta, e vivere.

Io ho fatto finta all'università.
Ho fatto finta a lavoro.
Ho fatto finta da moglie.
Ho fatto finta per una vita.
E allora avrei voluto fare finta ancora una volta. Ma nel mio interesse.
Sarei voluta tornare in ufficio. Trovarti lì. Illuderti di stare al tuo gioco. Concedermi di fare la gatta morta per darti l’impressione di avere ancora il controllo, di avere il potere su Sofia, di tenerla schiacciata sotto il tuo pollice. Mi sarei passata un’altra volta la mano sulla mia intimità, nel profondo delle mie mutandine, per regalarti il mio odore di donna. E vederti perso nell’illusione di possedermi in quell’odore.

Ti avrei scopato nell’inganno che fossi tu a scopare me.
Ti avrei fottuto il cervello, lasciandoti a nuotare nella convinzione che fossi tu a fottermi il cervello.
Ti avrei tenuto per le palle, mentre pensavi di essere tu a svuotarti le palle dentro di me.
Ma io non sono come te.
Io sono meglio di te.

E mi sono licenziata. Che mi merito di più.
Perché mi rifiuto di trovarmi a scrivere una lettera come quella che ti avrei scritto. Quella di una donna che lascia che uno come te entri nella sua vita per darle l’illusione dell’avventura, un simulacro di passione.
Perché, per una volta, preferisco il titolo italiano di quel film di Hitchcock.
Che voglio essere la donna che visse due volte.
E vaffanculo.
scritto il
2024-12-01
1 . 3 K
visite
1 3
voti
valutazione
5.2
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Tre Desideri

racconto sucessivo

Siciliani di merda
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.