Pesca di carne
di
samas2
genere
tradimenti
Nella sera tiepida del giardino, immersi nell’ombra complice della notte, Max si avvicinò all’orecchio di Cristina, il fiato caldo che le sfiorò la pelle come una carezza proibita. Un sorriso carico di sottintesi incurvò le sue labbra.
— La settimana scorsa in spiaggia… il tuo bikini, così audace, appena un soffio sulle tue curve arroganti, ha incendiato gli sguardi. Uomini di ogni età ti divoravano con gli occhi. Alcuni cercavano di mascherare il loro desiderio, altri invece… ti spogliavano senza pudore, sognando di averti. Da giorni, questo pensiero mi tormenta.
Cristina si umettò le labbra, il languore di quella rivelazione era come un brivido liquido lungo la sua schiena. Aveva giocato con il fuoco, e lo sapeva bene.
— Me ne sono accorta — ammise, la voce un sussurro impastato di piacere. — E confesso… mi è piaciuto. Sentire i loro occhi addosso, il peso del loro desiderio… mi ha fatta sentire piacevolmente troia. Ti infastidisce?
Max scosse il capo, le dita che tracciavano un sentiero leggero lungo il fianco nudo di lei, esplorando, pretendendo.
— No — rispose, la voce più bassa, scura. — Inaspettatamente, mi ha eccitato. Sapere che sei un oggetto di desiderio, che ogni uomo brama la tua pelle, la tua bocca, il tuo corpo, eppure… sei mia. È come possedere un tesoro che tutti sognano, ma che solo io posso sfiorare.
Si fermò un istante, il suo sguardo divenne più intenso, poi superando un impaccio:
— Ma non è solo questo. Ci sono momenti in cui mi sorprendo a immaginarti fra le braccia di un altro. Vedo le sue mani scivolare su di te, le tue labbra che si schiudono per lui, il tuo corpo che si arrende. Mi chiedo come ti muoveresti, che suoni faresti, quanto ti lasceresti andare…
Cristina trattenne il fiato, le sue pupille si dilatarono, attraversate da un lampo oscuro e seducente. Quel pensiero… le aveva mai sfiorato la mente? Forse sì. Forse più di una volta.
— E se accadesse davvero? — mormorò, la voce carica di qualcosa che nemmeno lei riusciva a definire. — Se qualcun altro mi prendesse… se io decidessi di concedermi?
Max la afferrò per il mento, la stretta salda, possessiva, obbligandola a guardarlo. Il suo respiro si mescolò al suo, le pupille dilatate dall’eccitazione, dalla perversione sottile che si annidava nelle sue parole.
— Se mai accadesse… voglio sapere tutto. Voglio che me lo racconti con la tua voce ancora rotta dal piacere, mentre il suo odore ti impregna la pelle. Dimmi come ti ha toccata, come hai gemuto, le oscenità che ti ha sussurrato all’orecchio… e come ti sei arresa.
Cristina rabbrividì. Quelle parole erano un invito? Una sfida? O solo il gioco perverso della loro intimità? Forse non lo sapeva nemmeno lui. O forse… sì.
Pochi giorni dopo, Cristina passeggiava sul lungomare della località isolana, immersa nell’aria densa di salsedine e promesse inconfessabili. Era l’ora sospesa prima della cena, quando la luce dorata del tramonto allungava le ombre e avvolgeva ogni cosa in un bagliore caldo, languido. Gli abitanti si riversavano in strada, nei caffè affacciati sul mare, in un rituale quotidiano fatto di sguardi, chiacchiere sommesse e attese silenziose.
A braccetto con l’anziana zia, Cristina si muoveva con una grazia spontanea, un’eleganza naturale che la rendeva inavvertitamente magnetica. I turisti erano ormai svaniti con la fine dell’alta stagione, e lei, corpo estraneo in quell’equilibrio paesano, attirava inevitabilmente l’attenzione. Non era solo il suo vestito leggero a renderla una calamita per gli occhi maschili — un abito con uno scollo a V strategico, mai sfacciato, ma capace di incorniciare il suo splendido seno come un’opera d’arte. Non erano solo i sandali sottili a lasciare scoperti i suoi piedi perfetti, né il ticchettio ipnotico dei suoi passi sul selciato.
Era altro.
Qualcosa di indefinibile, un fascino esotico che in quel piccolo angolo d’isola la rendeva ancora più irresistibile. Il suo accento suonava come una carezza straniera in mezzo ai dialetti locali. Il suo modo di vestire, semplice eppure raffinato, evocava mondi diversi, città lontane, un’eleganza che non si sforzava di piacere, ma che travolgeva per la sua stessa naturalezza. E poi il solo fatto di essere "nuova", di non appartenere a quei luoghi, accendeva la fantasia di chiunque la guardasse: chi era? Perché era lì? E soprattutto… cosa sarebbe servito per possederla?
Alcuni uomini si limitavano a seguirla con lo sguardo, altri mormoravano commenti smorzati dal vento. Qualcuno, più audace, si lasciava andare a un’occhiata insistente, che le scivolava addosso come un tocco invisibile.
Tra tutti, fu il marchese Fabrizio a notarla con più attenzione. Alto, distinto nel suo completo di lino chiaro, la sua eleganza aveva il sapore di un’epoca in cui il desiderio era un’arte e la seduzione un gioco di sguardi e sottintesi. Il suo viso, segnato appena dal sole e da una vita di piaceri assaporati con calma aristocratica, tradiva un’esperienza raffinata.
Durante l’aperitivo, con la naturalezza di chi è abituato a ottenere ciò che vuole, Fabrizio invitò le due donne al suo tavolo. Il sorriso che le rivolse era un intreccio di cortesia e lusinga velata, di intenzioni non dette e possibilità tutte da esplorare.
Dopo i convenevoli di rito, la conversazione si fece più personale.
— Lei è emiliana? — domandò, con un’inflessione che sapeva di interesse più che di semplice curiosità.
Cristina sollevò lo sguardo, la bocca incurvata in un accenno di sorriso.
— Romagnola, di Cesena.
Il marchese annuì lentamente, socchiudendo gli occhi come per assaporare un ricordo lontano.
— Anni fa si parlava della pesca “Bella di Cesena” — disse, con una nota di vaga nostalgia. Poi abbassò leggermente il tono, il sorriso sulle labbra che si fece più insinuante. — Se fosse stata creata oggi, saprei da chi avrebbe tratto ispirazione il nome.
Cristina abbassò appena le ciglia, schermendosi con una grazia studiata, ma nel lampo che attraversò il suo sguardo c’era una scintilla sottile, una nota di pericolosa complicità.
Fabrizio sorseggiò il suo drink, osservandola con il languore di chi sa attendere, ma non troppo. La sua mente vagava, e l’immagine di lei — succosa, invitante come un frutto maturo — gli si insinuò nel sangue come un veleno dolce. La pelle dorata dal sole, i fianchi che si muovevano con una fluidità quasi peccaminosa… come sarebbe stato affondare le dita nella sua carne morbida, saggiarne il gusto sulla lingua, sentirne il profumo mescolarsi al sudore della notte? Gli occhi di Cristina brillarono per un istante, come se avesse colto quel pensiero sospeso nell’aria. Forse lo aveva sentito insinuarsi dentro di sé, scivolare sotto la pelle come un brivido proibito. E il gioco era appena cominciato. Una conoscente della zia si fermò a scambiare qualche chiacchiera con quest’ultima, lasciando Cristina e Fabrizio quasi soli al tavolo. Il vociare intorno a loro si affievolì, il rumore del mare divenne un sottofondo lontano. In quell'istante, tutto sembrava ridursi al gioco silenzioso che stava prendendo forma tra loro due. L’atmosfera si fece elettrica: ogni gesto, ogni sguardo, ogni pausa si caricavano di promesse non dette, di desideri in bilico tra il lecito e il proibito. Il marchese parlava con il suo tono basso e ipnotico, un susseguirsi di metafore e allusioni che celebravano il desiderio, il possesso, la conquista. Ma fu Cristina a muovere la prima pedina in quel gioco pericoloso. Mossa da un impulso incontrollabile, con una maliziosa determinazione, sfilò lentamente il sandalo, lasciandolo scivolare sotto il tavolo con un tonfo sommesso. Poi, con studiata noncuranza, il suo piedino nudo si allungò fino a sfiorare la gamba di Fabrizio. Un contatto leggerissimo, quasi un'ombra, un accenno di carezza che si dissolse in un attimo… solo per tornare subito dopo, più deciso, più audace.
Fabrizio tacque per un istante. Il suo respiro si fece appena più profondo. Gli occhi, che fino a quel momento avevano brillato di un’ironia raffinata, si scurirono di qualcosa di più intenso, più primitivo.
Cristina continuava a giocare, il piedino che risaliva piano lungo la stoffa leggera del pantalone di lino, tracciando un percorso di provocazione e sfida. Il marchese, colpito dall’audacia di quel gesto inaspettato, si chinò leggermente, lasciando scorrere la mano lungo la sua caviglia sottile, poi più su, fino ad avvolgere per un istante il piedino nella sua presa.
Lo trattenne così, un attimo in più del necessario.
Poi, con la stessa eleganza con cui l’aveva reclamato, sciolse la presa e portò lentamente le dita alle labbra, sfiorandole in un bacio osceno. Un gesto che non lasciava spazio a dubbi, un tacito assenso a un gioco che aveva ormai superato il punto di non ritorno. Cristina lo guardò, e nel suo sguardo ardeva la consapevolezza che la notte non sarebbe finita lì.
Il giorno seguente, all’ora della siesta, il paese era deserto e silenzioso, come se l’aria calda avesse spinto via ogni anima. Cristina si incamminava verso l’antica dimora del marchese, e il breve tratto di strada di campagna, immerso in un silenzio irreale, nei profumi della macchia mediterranea sembrava amplificare ogni sensazione.
— Ti va un bicchiere di vino? — chiese lui con voce bassa, quasi roca.
Cristina annuì, sentendo già il calore dell’attesa scorrerle sotto la pelle. Si sedette sul divano in pelle scura, incrociando le gambe con un movimento studiato, mentre lui le porgeva il calice.
Le dita di Fabrizio sfiorarono appena le sue e, in quel contatto effimero, vibrava la promessa di qualcosa di più audace.
— Allora dimmi, cosa ti ha portata qui? Curiosità? Voglia di avventura? — domandò lui, sedendosi accanto a lei, il braccio poggiato con disinvoltura sullo schienale del divano.
Cristina sorseggiò il vino. Il sapore denso e avvolgente le scivolò sulla lingua mentre fissava Fabrizio negli occhi.
— Forse tutto questo… e forse altro.
Lui sorrise, avvicinandosi appena.
— Ho scoperto che la pèsca a pasta bianca, la “Bella di Cesena”, è un frutto così vellutato, dolce e succoso, da non avere pari. La tua carne, con la sua morbidezza e il suo calore, potrebbe competere con quella perfezione, anzi, superarla. Il modo in cui la tua pelle si offre al sole, la naturalezza del tuo corpo, è un invito irresistibile al piacere… una tentazione che nessuno potrebbe ignorare. La tua bellezza, come quella pesca di Cesena, mi incanta. Ogni dettaglio di te parla di passione… e io desidero assaporarlo. Le parole del marchese, intrise di allusione e raffinatezza, facevano vibrare l’aria intorno a Cristina. In quel momento, lei percepiva che ogni sua curva, ogni gesto, era un’ode alla sensualità della sua terra, un richiamo alle radici romagnole, da sempre celebrazione del gusto per la vita e il piacere. Nella penombra della stanza, si lasciò sfiorare dalla promessa contenuta nelle parole di lui. Il vino aveva sciolto ogni residua inibizione, ma ciò che la spingeva oltre era un desiderio feroce, bruciante. Forse era il luogo, così lontano dalle sue abitudini, o forse quella tensione che sentiva crescere inarrestabile, ma d’un tratto, con una disinvoltura che stupì lo stesso Fabrizio, si spogliò per farsi ammirare. Non aveva mai agito così, con una spregiudicatezza che non le apparteneva. Eppure, in quell’istante, era quella parte di sé a definirla, a dettare ogni gesto, ogni respiro.
Lui la osservò con occhi rapaci di un predatore che punta la sua preda. I seni di Cristina pieni e generosi, traboccavano tra le sue dita, un lusso di carne morbida che si modellava al tocco. Li soppesò con entrambe le mani, sentendone il peso voluttuoso, il calore che sembrava pulsare sotto la pelle serica. Il contrasto tra la loro morbidezza e la tensione dura dei capezzoli lo eccitava ancora di più. Giocò con loro, stringendoli appena, sollevandoli, facendoli rimbalzare tra le mani solo per il piacere di vederli muoversi, di sentirli sfuggire e poi ritrovarli sotto le dita. Il respiro di Cristina si fece più rapido, il petto che si sollevava e abbassava sotto il tocco esperto dell'uomo. Poi lui scivolò più in basso, le labbra a seguire il profilo delle sue curve, la lingua a esplorare, a possederla in anticipo prima che la brutalità del desiderio li travolgesse entrambi.
Il passaggio dalla raffinatezza all’efferatezza in Fabrizio fu improvviso, inaspettato, scatenato dall’avvenenza e dalla lussuria della donna ma, soprattutto, da una antica, mai sopita rabbia.
Le parole indirizzate nei confronti di Cristina si fecero volgari, lussuriose come la carne che bramava di essere posseduta. Le affondò il viso tra le cosce, inspirando a fondo quell’odore intenso di femmina accaldata, lasciando che il sapore selvaggio della sua eccitazione gli invadesse la bocca. Le piccole labbra gonfie fremevano tra le sue dita e la sua lingua.
Lei si lasciò travolgere, provocandolo ancora di più, sfidandolo a dimostrare che dietro quella compostezza nobiliare c'era un uomo capace di darle ciò che voleva davvero: non solo il piacere, ma l'annientamento totale del pudore.
E fu allora che lui la voltò con un gesto deciso, il respiro caldo contro la sua nuca mentre le mani forti la serravano contro il legno massiccio del letto. La voce del marchese si fece più scura, un sussurro feroce al suo orecchio. — Ora ti mostrerò chi è Fabrizio e cosa ti darà davvero: tornerai in Romagna con la figa “sbafata”, “spampanata”.
La invase con una foga brutale, inesorabile, piegandola senza pietà sotto il peso della sua dominazione. — Mostrami quanto è calda la figa delle romagnole, fammi sentire che sei nata per essere chiavata così. Urla la tua sfrenata voglia. — Sìì, usami, scopami, fammi succhiare il tuo uccello.
Ogni affondo la incendiava, ogni insulto la spogliava di ogni resistenza, lasciandola completamente esposta e vulnerabile al suo desiderio. — Brucio. Ficcamelo dentro…così… — Chissà quanti in paese sognano di possederti così, di averti piegata sotto di loro. Se solo sapessero quanto siano facili i tuoi costumi! Vorrei che potessero vederti ora, che spettacolo! La bella, procace forestiera nuda e disponibile fra le mie braccia!
Si sentiva sporca, umiliata, eppure ogni fibra del suo corpo gridava per ottenerne ancora. Ma non si aspettava quel che sarebbe accaduto dopo. Fabrizio le legò le braccia dietro la schiena con una sciarpa di seta. Lei non protestò, presa dal gioco della sottomissione, ma quando la fece inginocchiare e le sollevò il bacino, divaricandole i glutei, capì tutto.
Cercò di divincolarsi, ma era troppo tardi. — Nooo, ti prego, il culo no. Ti supplico, ho paura di sentire male. Cristina non aveva mai amato il coito anale e preferiva evitarlo. — Taci! In fondo, mica è la prima volta, no? — esclamò l’uomo. Le sue dita nell’esplorare la roseola bruna, avevano constatato che il terreno non era vergine. — Voglio la tua pèsca, — rise per il gioco allusivo - “Bella di Cesena”. — Basta, Fabrizio… ahi, sento dolore. — Quante moine! Senti come apro il tuo stupendo culo.
Fu irruente, cattivo, mentre lei strillava per quel gioco imposto, in cui il piacere si confondeva con il dolore, in cui quel glande superato lo sfintere invadeva le sue viscere. Non esisteva più nulla se non la carne, il sudore e il possesso assoluto. Il marchese gemette con un piacere selvaggio, inondandola del suo seme, mentre Cristina, devastata, stanchissima, si abbandonava sul letto, prona con le gambe divaricate e le braccia, liberate dal laccio, allungate.
Il silenzio della stanza era greve, rotto solo dal respiro affannoso di entrambi. Cristina si sollevò a fatica, le gambe ancora tremanti per l'intensità dell'amplesso brutale. Un'improvvisa pressione le serrò il ventre, una necessità impellente la spinse a scattare verso il bagno, il corpo ancora scosso dal piacere e dalla violenza dell'atto appena consumato.
Si chiuse dietro la porta, il cuore martellante nel petto mentre il suo corpo cercava di riassestarsi dopo quell’assalto selvaggio. Si osservò allo specchio: le guance arrossate, i segni del marchese ancora impressi sulla pelle. Nuove ondate di emozioni la travolsero: vergogna, soddisfazione, smarrimento e un'irrefrenabile voglia di arrendersi ancora a quel piacere crudo e pervasivo. Lui l'aveva presa, dominata e lei, in quel momento, non avrebbe potuto desiderare di più. Cristina tornò nella stanza, ancora scossa, il marchese la osservò dall'alto del suo distacco aristocratico, sistemando con calma il polsino della camicia. — Ora sai qual è la tua vocazione — disse con un sorriso sprezzante. — Il tuo corpo è fatto esclusivamente per divertire, un utensile da riempire, senza limiti. Cristina abbassò lo sguardo, una fitta di vergogna mista a un'eccitazione proibita le attraversò la pelle. La crudezza di quelle parole la feriva e, al tempo stesso, l'accendeva in un modo che non avrebbe mai ammesso ad alta voce. Sentiva ancora su di sé il segno delle sue mani, della sua bocca. E in fondo non riusciva a capire se desiderasse fuggire o restare per essere presa ancora, più forte, più brutalmente. Lui le si avvicinò, sollevandole il mento con due dita, costringendola a guardarlo negli occhi. — Ora vattene, tornatene a casa. E quando il tuo corpo urlerà ancora per me, saprai dove trovarmi, “bottana”.
L’offesa irridente, estranea al contesto erotico che avrebbe potuto giustificarla, la colpì come un colpo di frusta: pungente e dolorosa. Eppure, insieme all’umiliazione, qualcosa di oscuro e seducente guadagnò spazio in lei: un veleno insidioso. Cristina non era una donna che si potesse piegare senza conseguenze. La sua pelle ardeva ancora per lui, ma la sua mente stava in agguato come una lama nell’oscurità, attendendo il momento giusto per colpire. Si ricompose con una lentezza calcolata, lasciando che il silenzio tra loro si tendesse come una corda sul punto di spezzarsi. Poi alzò gli occhi in una sfida sottile e, con un sorriso che sapeva di fiele e miele, lasciò cadere parole come pietre. — Posso trovare di molto meglio di te, se mai ne avessi voglia. E a proposito di “bottane”, come sta tua moglie?
Un lampo attraversò gli occhi di Fabrizio. La sua sicurezza si incrinò. La moglie fuggita un anno prima con un altro uomo era una ferita ancora aperta, un'umiliazione che non avrebbe mai confessato. Cristina aveva colpito nel segno e lo sapeva. Fabrizio incassò in silenzio, mortificato. Un tic nervoso gli contrasse la mascella mentre, con un gesto distratto, aprì la porta per congedarla, senza proferire verbo. Cristina uscì nella calura opprimente del pomeriggio siciliano con un senso di leggerezza. Il marchese, ne era certa, avrebbe ricordato la lezione.
— La settimana scorsa in spiaggia… il tuo bikini, così audace, appena un soffio sulle tue curve arroganti, ha incendiato gli sguardi. Uomini di ogni età ti divoravano con gli occhi. Alcuni cercavano di mascherare il loro desiderio, altri invece… ti spogliavano senza pudore, sognando di averti. Da giorni, questo pensiero mi tormenta.
Cristina si umettò le labbra, il languore di quella rivelazione era come un brivido liquido lungo la sua schiena. Aveva giocato con il fuoco, e lo sapeva bene.
— Me ne sono accorta — ammise, la voce un sussurro impastato di piacere. — E confesso… mi è piaciuto. Sentire i loro occhi addosso, il peso del loro desiderio… mi ha fatta sentire piacevolmente troia. Ti infastidisce?
Max scosse il capo, le dita che tracciavano un sentiero leggero lungo il fianco nudo di lei, esplorando, pretendendo.
— No — rispose, la voce più bassa, scura. — Inaspettatamente, mi ha eccitato. Sapere che sei un oggetto di desiderio, che ogni uomo brama la tua pelle, la tua bocca, il tuo corpo, eppure… sei mia. È come possedere un tesoro che tutti sognano, ma che solo io posso sfiorare.
Si fermò un istante, il suo sguardo divenne più intenso, poi superando un impaccio:
— Ma non è solo questo. Ci sono momenti in cui mi sorprendo a immaginarti fra le braccia di un altro. Vedo le sue mani scivolare su di te, le tue labbra che si schiudono per lui, il tuo corpo che si arrende. Mi chiedo come ti muoveresti, che suoni faresti, quanto ti lasceresti andare…
Cristina trattenne il fiato, le sue pupille si dilatarono, attraversate da un lampo oscuro e seducente. Quel pensiero… le aveva mai sfiorato la mente? Forse sì. Forse più di una volta.
— E se accadesse davvero? — mormorò, la voce carica di qualcosa che nemmeno lei riusciva a definire. — Se qualcun altro mi prendesse… se io decidessi di concedermi?
Max la afferrò per il mento, la stretta salda, possessiva, obbligandola a guardarlo. Il suo respiro si mescolò al suo, le pupille dilatate dall’eccitazione, dalla perversione sottile che si annidava nelle sue parole.
— Se mai accadesse… voglio sapere tutto. Voglio che me lo racconti con la tua voce ancora rotta dal piacere, mentre il suo odore ti impregna la pelle. Dimmi come ti ha toccata, come hai gemuto, le oscenità che ti ha sussurrato all’orecchio… e come ti sei arresa.
Cristina rabbrividì. Quelle parole erano un invito? Una sfida? O solo il gioco perverso della loro intimità? Forse non lo sapeva nemmeno lui. O forse… sì.
Pochi giorni dopo, Cristina passeggiava sul lungomare della località isolana, immersa nell’aria densa di salsedine e promesse inconfessabili. Era l’ora sospesa prima della cena, quando la luce dorata del tramonto allungava le ombre e avvolgeva ogni cosa in un bagliore caldo, languido. Gli abitanti si riversavano in strada, nei caffè affacciati sul mare, in un rituale quotidiano fatto di sguardi, chiacchiere sommesse e attese silenziose.
A braccetto con l’anziana zia, Cristina si muoveva con una grazia spontanea, un’eleganza naturale che la rendeva inavvertitamente magnetica. I turisti erano ormai svaniti con la fine dell’alta stagione, e lei, corpo estraneo in quell’equilibrio paesano, attirava inevitabilmente l’attenzione. Non era solo il suo vestito leggero a renderla una calamita per gli occhi maschili — un abito con uno scollo a V strategico, mai sfacciato, ma capace di incorniciare il suo splendido seno come un’opera d’arte. Non erano solo i sandali sottili a lasciare scoperti i suoi piedi perfetti, né il ticchettio ipnotico dei suoi passi sul selciato.
Era altro.
Qualcosa di indefinibile, un fascino esotico che in quel piccolo angolo d’isola la rendeva ancora più irresistibile. Il suo accento suonava come una carezza straniera in mezzo ai dialetti locali. Il suo modo di vestire, semplice eppure raffinato, evocava mondi diversi, città lontane, un’eleganza che non si sforzava di piacere, ma che travolgeva per la sua stessa naturalezza. E poi il solo fatto di essere "nuova", di non appartenere a quei luoghi, accendeva la fantasia di chiunque la guardasse: chi era? Perché era lì? E soprattutto… cosa sarebbe servito per possederla?
Alcuni uomini si limitavano a seguirla con lo sguardo, altri mormoravano commenti smorzati dal vento. Qualcuno, più audace, si lasciava andare a un’occhiata insistente, che le scivolava addosso come un tocco invisibile.
Tra tutti, fu il marchese Fabrizio a notarla con più attenzione. Alto, distinto nel suo completo di lino chiaro, la sua eleganza aveva il sapore di un’epoca in cui il desiderio era un’arte e la seduzione un gioco di sguardi e sottintesi. Il suo viso, segnato appena dal sole e da una vita di piaceri assaporati con calma aristocratica, tradiva un’esperienza raffinata.
Durante l’aperitivo, con la naturalezza di chi è abituato a ottenere ciò che vuole, Fabrizio invitò le due donne al suo tavolo. Il sorriso che le rivolse era un intreccio di cortesia e lusinga velata, di intenzioni non dette e possibilità tutte da esplorare.
Dopo i convenevoli di rito, la conversazione si fece più personale.
— Lei è emiliana? — domandò, con un’inflessione che sapeva di interesse più che di semplice curiosità.
Cristina sollevò lo sguardo, la bocca incurvata in un accenno di sorriso.
— Romagnola, di Cesena.
Il marchese annuì lentamente, socchiudendo gli occhi come per assaporare un ricordo lontano.
— Anni fa si parlava della pesca “Bella di Cesena” — disse, con una nota di vaga nostalgia. Poi abbassò leggermente il tono, il sorriso sulle labbra che si fece più insinuante. — Se fosse stata creata oggi, saprei da chi avrebbe tratto ispirazione il nome.
Cristina abbassò appena le ciglia, schermendosi con una grazia studiata, ma nel lampo che attraversò il suo sguardo c’era una scintilla sottile, una nota di pericolosa complicità.
Fabrizio sorseggiò il suo drink, osservandola con il languore di chi sa attendere, ma non troppo. La sua mente vagava, e l’immagine di lei — succosa, invitante come un frutto maturo — gli si insinuò nel sangue come un veleno dolce. La pelle dorata dal sole, i fianchi che si muovevano con una fluidità quasi peccaminosa… come sarebbe stato affondare le dita nella sua carne morbida, saggiarne il gusto sulla lingua, sentirne il profumo mescolarsi al sudore della notte? Gli occhi di Cristina brillarono per un istante, come se avesse colto quel pensiero sospeso nell’aria. Forse lo aveva sentito insinuarsi dentro di sé, scivolare sotto la pelle come un brivido proibito. E il gioco era appena cominciato. Una conoscente della zia si fermò a scambiare qualche chiacchiera con quest’ultima, lasciando Cristina e Fabrizio quasi soli al tavolo. Il vociare intorno a loro si affievolì, il rumore del mare divenne un sottofondo lontano. In quell'istante, tutto sembrava ridursi al gioco silenzioso che stava prendendo forma tra loro due. L’atmosfera si fece elettrica: ogni gesto, ogni sguardo, ogni pausa si caricavano di promesse non dette, di desideri in bilico tra il lecito e il proibito. Il marchese parlava con il suo tono basso e ipnotico, un susseguirsi di metafore e allusioni che celebravano il desiderio, il possesso, la conquista. Ma fu Cristina a muovere la prima pedina in quel gioco pericoloso. Mossa da un impulso incontrollabile, con una maliziosa determinazione, sfilò lentamente il sandalo, lasciandolo scivolare sotto il tavolo con un tonfo sommesso. Poi, con studiata noncuranza, il suo piedino nudo si allungò fino a sfiorare la gamba di Fabrizio. Un contatto leggerissimo, quasi un'ombra, un accenno di carezza che si dissolse in un attimo… solo per tornare subito dopo, più deciso, più audace.
Fabrizio tacque per un istante. Il suo respiro si fece appena più profondo. Gli occhi, che fino a quel momento avevano brillato di un’ironia raffinata, si scurirono di qualcosa di più intenso, più primitivo.
Cristina continuava a giocare, il piedino che risaliva piano lungo la stoffa leggera del pantalone di lino, tracciando un percorso di provocazione e sfida. Il marchese, colpito dall’audacia di quel gesto inaspettato, si chinò leggermente, lasciando scorrere la mano lungo la sua caviglia sottile, poi più su, fino ad avvolgere per un istante il piedino nella sua presa.
Lo trattenne così, un attimo in più del necessario.
Poi, con la stessa eleganza con cui l’aveva reclamato, sciolse la presa e portò lentamente le dita alle labbra, sfiorandole in un bacio osceno. Un gesto che non lasciava spazio a dubbi, un tacito assenso a un gioco che aveva ormai superato il punto di non ritorno. Cristina lo guardò, e nel suo sguardo ardeva la consapevolezza che la notte non sarebbe finita lì.
Il giorno seguente, all’ora della siesta, il paese era deserto e silenzioso, come se l’aria calda avesse spinto via ogni anima. Cristina si incamminava verso l’antica dimora del marchese, e il breve tratto di strada di campagna, immerso in un silenzio irreale, nei profumi della macchia mediterranea sembrava amplificare ogni sensazione.
— Ti va un bicchiere di vino? — chiese lui con voce bassa, quasi roca.
Cristina annuì, sentendo già il calore dell’attesa scorrerle sotto la pelle. Si sedette sul divano in pelle scura, incrociando le gambe con un movimento studiato, mentre lui le porgeva il calice.
Le dita di Fabrizio sfiorarono appena le sue e, in quel contatto effimero, vibrava la promessa di qualcosa di più audace.
— Allora dimmi, cosa ti ha portata qui? Curiosità? Voglia di avventura? — domandò lui, sedendosi accanto a lei, il braccio poggiato con disinvoltura sullo schienale del divano.
Cristina sorseggiò il vino. Il sapore denso e avvolgente le scivolò sulla lingua mentre fissava Fabrizio negli occhi.
— Forse tutto questo… e forse altro.
Lui sorrise, avvicinandosi appena.
— Ho scoperto che la pèsca a pasta bianca, la “Bella di Cesena”, è un frutto così vellutato, dolce e succoso, da non avere pari. La tua carne, con la sua morbidezza e il suo calore, potrebbe competere con quella perfezione, anzi, superarla. Il modo in cui la tua pelle si offre al sole, la naturalezza del tuo corpo, è un invito irresistibile al piacere… una tentazione che nessuno potrebbe ignorare. La tua bellezza, come quella pesca di Cesena, mi incanta. Ogni dettaglio di te parla di passione… e io desidero assaporarlo. Le parole del marchese, intrise di allusione e raffinatezza, facevano vibrare l’aria intorno a Cristina. In quel momento, lei percepiva che ogni sua curva, ogni gesto, era un’ode alla sensualità della sua terra, un richiamo alle radici romagnole, da sempre celebrazione del gusto per la vita e il piacere. Nella penombra della stanza, si lasciò sfiorare dalla promessa contenuta nelle parole di lui. Il vino aveva sciolto ogni residua inibizione, ma ciò che la spingeva oltre era un desiderio feroce, bruciante. Forse era il luogo, così lontano dalle sue abitudini, o forse quella tensione che sentiva crescere inarrestabile, ma d’un tratto, con una disinvoltura che stupì lo stesso Fabrizio, si spogliò per farsi ammirare. Non aveva mai agito così, con una spregiudicatezza che non le apparteneva. Eppure, in quell’istante, era quella parte di sé a definirla, a dettare ogni gesto, ogni respiro.
Lui la osservò con occhi rapaci di un predatore che punta la sua preda. I seni di Cristina pieni e generosi, traboccavano tra le sue dita, un lusso di carne morbida che si modellava al tocco. Li soppesò con entrambe le mani, sentendone il peso voluttuoso, il calore che sembrava pulsare sotto la pelle serica. Il contrasto tra la loro morbidezza e la tensione dura dei capezzoli lo eccitava ancora di più. Giocò con loro, stringendoli appena, sollevandoli, facendoli rimbalzare tra le mani solo per il piacere di vederli muoversi, di sentirli sfuggire e poi ritrovarli sotto le dita. Il respiro di Cristina si fece più rapido, il petto che si sollevava e abbassava sotto il tocco esperto dell'uomo. Poi lui scivolò più in basso, le labbra a seguire il profilo delle sue curve, la lingua a esplorare, a possederla in anticipo prima che la brutalità del desiderio li travolgesse entrambi.
Il passaggio dalla raffinatezza all’efferatezza in Fabrizio fu improvviso, inaspettato, scatenato dall’avvenenza e dalla lussuria della donna ma, soprattutto, da una antica, mai sopita rabbia.
Le parole indirizzate nei confronti di Cristina si fecero volgari, lussuriose come la carne che bramava di essere posseduta. Le affondò il viso tra le cosce, inspirando a fondo quell’odore intenso di femmina accaldata, lasciando che il sapore selvaggio della sua eccitazione gli invadesse la bocca. Le piccole labbra gonfie fremevano tra le sue dita e la sua lingua.
Lei si lasciò travolgere, provocandolo ancora di più, sfidandolo a dimostrare che dietro quella compostezza nobiliare c'era un uomo capace di darle ciò che voleva davvero: non solo il piacere, ma l'annientamento totale del pudore.
E fu allora che lui la voltò con un gesto deciso, il respiro caldo contro la sua nuca mentre le mani forti la serravano contro il legno massiccio del letto. La voce del marchese si fece più scura, un sussurro feroce al suo orecchio. — Ora ti mostrerò chi è Fabrizio e cosa ti darà davvero: tornerai in Romagna con la figa “sbafata”, “spampanata”.
La invase con una foga brutale, inesorabile, piegandola senza pietà sotto il peso della sua dominazione. — Mostrami quanto è calda la figa delle romagnole, fammi sentire che sei nata per essere chiavata così. Urla la tua sfrenata voglia. — Sìì, usami, scopami, fammi succhiare il tuo uccello.
Ogni affondo la incendiava, ogni insulto la spogliava di ogni resistenza, lasciandola completamente esposta e vulnerabile al suo desiderio. — Brucio. Ficcamelo dentro…così… — Chissà quanti in paese sognano di possederti così, di averti piegata sotto di loro. Se solo sapessero quanto siano facili i tuoi costumi! Vorrei che potessero vederti ora, che spettacolo! La bella, procace forestiera nuda e disponibile fra le mie braccia!
Si sentiva sporca, umiliata, eppure ogni fibra del suo corpo gridava per ottenerne ancora. Ma non si aspettava quel che sarebbe accaduto dopo. Fabrizio le legò le braccia dietro la schiena con una sciarpa di seta. Lei non protestò, presa dal gioco della sottomissione, ma quando la fece inginocchiare e le sollevò il bacino, divaricandole i glutei, capì tutto.
Cercò di divincolarsi, ma era troppo tardi. — Nooo, ti prego, il culo no. Ti supplico, ho paura di sentire male. Cristina non aveva mai amato il coito anale e preferiva evitarlo. — Taci! In fondo, mica è la prima volta, no? — esclamò l’uomo. Le sue dita nell’esplorare la roseola bruna, avevano constatato che il terreno non era vergine. — Voglio la tua pèsca, — rise per il gioco allusivo - “Bella di Cesena”. — Basta, Fabrizio… ahi, sento dolore. — Quante moine! Senti come apro il tuo stupendo culo.
Fu irruente, cattivo, mentre lei strillava per quel gioco imposto, in cui il piacere si confondeva con il dolore, in cui quel glande superato lo sfintere invadeva le sue viscere. Non esisteva più nulla se non la carne, il sudore e il possesso assoluto. Il marchese gemette con un piacere selvaggio, inondandola del suo seme, mentre Cristina, devastata, stanchissima, si abbandonava sul letto, prona con le gambe divaricate e le braccia, liberate dal laccio, allungate.
Il silenzio della stanza era greve, rotto solo dal respiro affannoso di entrambi. Cristina si sollevò a fatica, le gambe ancora tremanti per l'intensità dell'amplesso brutale. Un'improvvisa pressione le serrò il ventre, una necessità impellente la spinse a scattare verso il bagno, il corpo ancora scosso dal piacere e dalla violenza dell'atto appena consumato.
Si chiuse dietro la porta, il cuore martellante nel petto mentre il suo corpo cercava di riassestarsi dopo quell’assalto selvaggio. Si osservò allo specchio: le guance arrossate, i segni del marchese ancora impressi sulla pelle. Nuove ondate di emozioni la travolsero: vergogna, soddisfazione, smarrimento e un'irrefrenabile voglia di arrendersi ancora a quel piacere crudo e pervasivo. Lui l'aveva presa, dominata e lei, in quel momento, non avrebbe potuto desiderare di più. Cristina tornò nella stanza, ancora scossa, il marchese la osservò dall'alto del suo distacco aristocratico, sistemando con calma il polsino della camicia. — Ora sai qual è la tua vocazione — disse con un sorriso sprezzante. — Il tuo corpo è fatto esclusivamente per divertire, un utensile da riempire, senza limiti. Cristina abbassò lo sguardo, una fitta di vergogna mista a un'eccitazione proibita le attraversò la pelle. La crudezza di quelle parole la feriva e, al tempo stesso, l'accendeva in un modo che non avrebbe mai ammesso ad alta voce. Sentiva ancora su di sé il segno delle sue mani, della sua bocca. E in fondo non riusciva a capire se desiderasse fuggire o restare per essere presa ancora, più forte, più brutalmente. Lui le si avvicinò, sollevandole il mento con due dita, costringendola a guardarlo negli occhi. — Ora vattene, tornatene a casa. E quando il tuo corpo urlerà ancora per me, saprai dove trovarmi, “bottana”.
L’offesa irridente, estranea al contesto erotico che avrebbe potuto giustificarla, la colpì come un colpo di frusta: pungente e dolorosa. Eppure, insieme all’umiliazione, qualcosa di oscuro e seducente guadagnò spazio in lei: un veleno insidioso. Cristina non era una donna che si potesse piegare senza conseguenze. La sua pelle ardeva ancora per lui, ma la sua mente stava in agguato come una lama nell’oscurità, attendendo il momento giusto per colpire. Si ricompose con una lentezza calcolata, lasciando che il silenzio tra loro si tendesse come una corda sul punto di spezzarsi. Poi alzò gli occhi in una sfida sottile e, con un sorriso che sapeva di fiele e miele, lasciò cadere parole come pietre. — Posso trovare di molto meglio di te, se mai ne avessi voglia. E a proposito di “bottane”, come sta tua moglie?
Un lampo attraversò gli occhi di Fabrizio. La sua sicurezza si incrinò. La moglie fuggita un anno prima con un altro uomo era una ferita ancora aperta, un'umiliazione che non avrebbe mai confessato. Cristina aveva colpito nel segno e lo sapeva. Fabrizio incassò in silenzio, mortificato. Un tic nervoso gli contrasse la mascella mentre, con un gesto distratto, aprì la porta per congedarla, senza proferire verbo. Cristina uscì nella calura opprimente del pomeriggio siciliano con un senso di leggerezza. Il marchese, ne era certa, avrebbe ricordato la lezione.
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