Le mutandine dell’amica di mia figlia (cap 1)

di
genere
prime esperienze

Le trecce da adolescente erano ormai soltanto un ricordo. Veronica era diventata maggiorenne e i miei sogni cominciavano a diventare pulsioni insostenibili. L’avevo vista crescere, sbocciare come un fiore: le gambe lunghe e atletiche, il sedere sodo e ben formato, i seni sempre più esplosivi. E poi quel trucco che faceva risaltare le ciglia morbide e le labbra carnose.

Quante volte ho immaginato una conversazione, io e lei da soli in auto, che iniziava innocente - si chiacchierava di temi scolastici, di amici in comune o familiari - e diventava col passare dei minuti pericolosamente stuzzicante. Nel mio dialogo interno percepivo la fantasia della sua voce fintamente smielata, da piccola bambina capricciosa che desidera provocare per farsi sculacciare.

Dopo lunghi giri di argomenti generici, ci vedevo scivolare su frasi maliziose, provocazioni dal sapore innocuo ma dal gusto carico di sensualità. La trovata artistica era il cambio finale di registro: all’improvviso ecco con una frase porca di lei (“Adesso basta chiacchiere, tiramelo fuori che voglio riempirmi la bocca”) o un suo gesto spiazzante disegnato dalle dita affusolate.

Al volante mi vedevo barcollare, forzandomi di guardare la strada, sebbene con la coda dell’occhio iniziassi a percepire timidi sospiri e movimenti sensuali. L’odore di Veronica riempiva a poco a poco l’abitacolo, fino a saturarmi le narici e ad annebbiarmi la vista. All’inizio era un misto di sudore e profumo da teenager. Un afrore dolciastro e pungente al tempo stesso. Poi arrivava quell’essenza speziata di vagina diciottenne, che lei - sorridendo maliziosa - mi faceva respirare dopo essersi intrufolata con le dita tra le gambe.

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Sono andato avanti così per oltre un anno, a fantasticare e immaginare dialoghi piccanti tra me e la diciottenne Veronica. Con il cazzo che mi si induriva a sangue ogni volta che visualizzavo una storia di provocazioni e sesso nei particolari. Come se non bastasse, ogni tanto me la ritrovavo insieme a mia figlia e le sue amiche in macchina o a casa impegnate nello studio. Nello specchietto retrovisore ne studiavo i lineamenti nei particolari: la bocca (che immaginavo emettere parole di seduzione, poi di stupore, poi di mugolìo, infine di godimento), il seno rigonfio sotto le maglie attillate, gli orecchini e il trucco da modella, le mani da musicista con le unghie laccate di rosso vermiglio.

Un giorno, ormai dissuaso dall’ipotesi di qualsiasi contatto reale, l’Universo ha voluto ricompensarmi di tutti i pensieri e le masturbazioni dedicate a Veronica. Era un pomeriggio di fine luglio ed ero solo in città. Rientrando verso casa con la macchina, ho incrociato lo sguardo della mia diciottenne preferita che attraversava trafelata le strisce pedonali. Quando mi ha riconosciuto, avendola io salutata con un gesto della mano, invece di ricambiare e proseguire, mi ha fatto cenno di fermarmi e accostare.

Dopo aver deglutito almeno 2-3 volte in una frazione di secondo, metto le quattro frecce e scendo per andarle incontro.
— Ciao, scusami se ti ho fermato — mi dice imbarazzata, con lo sguardo che rimbalza tra me e il terreno davanti alle sue scarpe.
— Ciao Veronica, che ci fai in giro con questo caldo? Tutto bene?
— Sì tutto bene, ma è successo un casino…

Osservo Veronica nei particolari per cercare di fissare il dialogo e arricchirlo di dettagli. È truccata come al solito, con una t-shirt bianca (sempre molto attillata) e una salopette di jeans a calzoncino, a righe bianche e azzurre. Alcuni anellini distribuiti tra le dita completano il quadro della forza di attrazione. Le unghie con lo smalto bianco a metà sono il tocco finale che mi costringe a riprendere fiato per non distrarmi dalle sue parole.

— Mi sono chiusa fuori casa e non so come fare!

Veronica è più infastidita che spaventata. Capisco solo dopo il casino in cui è finita: i suoi genitori sono al mare e non rientreranno prima del fine settimana. Lei è rimasta in città per studiare e prendere ripetizioni. Ma ora non sa come rientrare nel suo appartamento. Di chiamare i familiari per chiedere aiuto, non se ne parla.
— Quelli se ne fregano. Anzi si incazzerebbero a morte dandomi della rincoglionita. E mi farebbero prendere il treno per andare subito da loro. No, io voglio restare qui ancora cinque giorni, fino a domenica. Ma le chiavi sono rimaste sul mio letto e le finestre sono tutte chiuse…
— Scusa Veronica, esistono sempre i fabbri. Ne chiamiamo uno e lo facciamo venire subito a forzare la tua serratura. Che dici?
— Non lo so, non mi è mai successo. So solo che una volta mio padre si è arrabbiato tantissimo perché un fabbro gli aveva chiesto trecento euro!

Mentre parla, alcune piccole gocce di sudore le imperlano il contorno degli occhi e gli angoli della bocca. I capezzoli si sono inturgiditi, forse per la concitazione. E si intuiscono chiaramente tra le bretelle e il cotone della maglietta. La mia mente prova a mettere insieme qualche pensiero sensato. Devo impormi con vigore di scollegare il mio cazzo dalla situazione che sto vivendo. Lo sento viaggiare per conto suo, tra le mutande e i pantaloni. Devo controllarmi per non rovinare tutto. È il momento per cui sono grato di essere nato.
— Forse un rimedio c’è — dico io, con un sorriso e una pausa studiata ad arte.
— Oh davvero? Che posso fare?
— Dobbiamo fare una prova con questa cosa qui.

Sul sedile posteriore della macchina ho una borsa che contiene alcune cartelline di lavoro. Facendo il manager di una grande multinazionale, spesso la mia auto è un secondo ufficio. Computer portatili, iPad, presentazioni stampate in formato A3 e giornali di varia dimensione. Proprio quella mattina ho ritirato dal centro diagnostico una serie di radiografie che il medico sportivo mi aveva ordinato per controllare la mia cervicale. Prendo una delle lastre e faccio finta di guardarla in controluce: solo per confonderle le idee e farlo sembrare un gioco di prestigio.
— Hai mai visto come fanno i ladri ad aprire le porte dall’esterno?
— I ladri? Che c’entrano i ladri?
— I ladri fanno cose che non si dovrebbero fare. E oggi noi faremo cose che non si dovrebbero fare. Ti va l’idea?

Veronica sorride imbarazzata. Non sa se ringraziarmi o rifiutare l’offerta di cui ancora non ha capito i contorni. Fa solo di sì con la testa.
— Allora d’accordo. Tu mi offri una Coca-Cola in questo bar e io in cambio provo ad aprire quello che apparentemente sembra chiuso. — Mi stupisco di come mi sia uscita questa frase, che solo a sentirla mi spinge il cazzo in gola. — Così per cinque giorni non abbiamo più pensieri…
— Oddio, grazie! Sì prima beviamo, che sono ore che non ci vedo più dalla sete.

Avrei qualcosa di liquido, sebbene molto denso, da darle per inondare la sua bocca. Ma so che tutto deve procedere con pazienza. Senza fretta, per non sbagliare la benché minima mossa.
— Andiamo! — dico con malcelata calma. Mi fa strada per entrare nel bar. Le guardo il sedere, e immagino di sfiorare quelle mutandine che si intravedono in rilievo. Dio esiste. Ora lo so.

[CONTINUA]
scritto il
2018-11-20
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