L'ultima volta del signor Giuseppe

di
genere
etero

Giorno dopo giorno, i lamenti del signor Giuseppe divengono più flebili. La vita lo sta lasciando - ed il suo corpo smagrito somiglia ad un nome cancellato.
L'ho seguito dal suo ingresso nell'ospedale: portava dei capelli grigiastri e scombinati. "Odia pettinarsi", ci disse ridendo la moglie. All'epoca si rideva ed anche oggi, nonostante tutto, cerchiamo di vivere con il sorriso - di accettare la morte con ironia.
Io sono una semplice infermiera, ed in più sono sana. Il mio corpo è perfetto, non c'è nulla che non vada. Eppure partecipo alle sofferenze dei miei pazienti - in mente ho delle immagini fisse, sparate dalla realtà; pensieri che mi fanno chiedere, tra le varie malattie, quale sarà quella che arriverà a stroncare la mia vita? So che un giorno sarò io, inevitabilmente, al posto del signor Giuseppe.
È da quando lavoro in ospedale che ho smesso di dormire nel letto; a casa dormo sul divano. È una sciocchezza, lo so, ma il pensiero della morte mi tartassa, mi colpisce e mi divora - e la morte mi appare sempre allo stesso modo: una persona nel letto che grida e grida, finché non ha più la forza neanche di ribellarsi. Non c'è più "rivolta", come direbbe Camus.

- Come va oggi, si sente meglio?
Faccio questa domanda per cortesia, ma so fin troppo bene che non mi risponderà.
La sua pelata lucida riflette quei miseri raggi di sole che filtrano attraverso la persiana. Noto che lo infastidiscono.
- Vuole che chiudo tutto?
- Si, sarebbe... mi farebbe un piacere.
La sua voce è debole. Stento a capire cosa dice. Ma faccio come vuole: nella stanza non c'è più un filo di luce. Siamo solo io e lui. E... e ci ho pensato più volte. Lo farei per lui, s'intende - anche se dietro questo pensiero, ultimamente, dietro questo altruismo non vedo altro che una giustificazione al mio sentimento perverso: mi chiedo cosa si prova ad essere posseduta da un moribondo. Mi chiedo se riuscirebbe, quel corpo debole, a trovare la forza di prendermi; se il piacere, la ricerca del godimento, spinga l'uomo a trovare forze, a prendersi forze, che in realtà non sono più nel suo corpo.
Lo faccio. Gli infilo una mano sotto il lenzuolo. Lui ha come un balzo. Ma non dice nulla. Mi guarda. Ma resta in silenzio.
La mia mano è intorno ai suoi testicoli; gli tasto l'uccello, lo massaggio, ma non dà risposte. È microscopico e rattrappito. Provo e riprovo. Provo e riprovo.

Quando esco dalla stanza mi sento in colpa: mi sono resa responsabile della morte di quell'uomo, che avverrà. Avverrà ed io gliene ho dato la certezza, l'ho privato delle ultime, minuscole, speranze.

scritto il
2018-11-25
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