Femmina
di
Inchiostro&Miele
genere
gay
Organizzammo il viaggio in fretta e furia: aereo, appartamento, bagaglio. Fu facile convincere i miei genitori. Gli dissi che a Parigi, da solo, avrei potuto studiare gli impressionisti dal vivo, così da potermi trovare avvantaggiato nel lavoro per la mia tesi di laurea. Si limitarono a scuotere la testa e farmi sapere, subito, che per loro non c'erano problemi: "Tutto quello che si fa per studio, disse mio padre, è ben fatto".
Così partii, ci incontrammo all'aeroporto - non vi dirò di quale città - e ci tenemmo stretti la mano, io e lui, per tutta la durata del viaggio. Qualcuno ci guardò storto, certo, ma ormai la gente sembrava abituata alla nostra presenza; o forse soltanto spaventata dalla reazione che avrebbe potuto avere il mio ragazzo, nel caso infastidito. Era fisicamente ben messo - con il petto leggermente peloso, ed una striscia di pelo che dall'ombelico arriva al pube - e guardarlo, oltre a trasmettermi sicurezza, mi eccitava così tanto che ero costretto a chiudere gli occhi e tirare lunghi respiri - ma anche in quel caso, con gli occhi chiusi, avevo la mente invasa da lui, da noi, nell'intimità della nostra casa.
Mi immaginai già, quella sera, nel momento in cui slacciandogli i jeans sarebbero apparsi i primi peli - a pochi centimetri dalla mia bocca, proprio davanti ai miei occhi.
Lui aspettava dove sarebbero passati i bagagli, mentre io lo guardavo appoggiato ad un altra valigia; lui chiamava il taxi e parlava in inglese, mentre io silenzioso sedevo e guardavo Parigi dal finestrino. Non credo che valga la pena di riassumere - e forse ripetere - quello che vedemmo. Parigi è una città ormai nota a chi l'ha visitata e a chi ne ha soltanto letto o sentito parlare. Racconterò di quella prima sera.
Avevamo cenato in un ristorante, e lui m'aveva spinto a bere del vino, ed ogni volta che vedeva il mio bicchiere, vuoto, s'apprestava a riempirlo con un largo sorriso. "Amore, gli dicevo, non ce la faccio", e lui rispondeva che era la nostra prima sera a Parigi, che a Parigi si beve e si fa l'amore, e che tornare a casa e spogliarsi, dopo, sarebbe stato più bello con un po' di vino nel sangue. Io gli dissi che aveva ragione, ma già ora, nel ristorante, davanti a tutti, lo desideravo e mi sentivo morire all'idea di dover aspettare ancora - un'ora? Due? - per averlo dentro di me. Sorrise, semplicemente.
Aprii la porta della camera e barcollai - con sguardo invitante, e muovendo il dito come per dirgli "Seguimi" - fino al divano. Lì mi stesi di pancia e lui sopra di me. Mi baciava il collo e nient'altro - stavamo così bene. Io allora mi alzo e dico: "Bonne nuit", facendo finta d'essere intenzionato ad andare a dormire. Lui m'afferra per il bacino, da dietro, e mentre ridiamo mi sbatte sul divano.
"Non voglio", gli dico.
"Neanche io", mi risponde mentre mi strappa le mutande e accosta la bocca, poi la lingua, tra le mie natiche. Sono completamente depilato, e lui scorre sul mio ano con rapidità, a piccoli tocchi, ma talvolta invece con violenza e la lingua cerca d'entrarmi dentro, il più dentro possibile, mentre io affondo la faccia sullo schienale morbido del divano.
Gli do le spalle. Lui è in piedi dietro di me, scostato da me, ed io lo guardo inclinando la testa; le mie gambe sono aperte, la mia schiena è piegata. Sono nella posizione del sesso, coperto dell'odore del sesso, e pronto ad accoglierlo dentro di me. La cinta si slaccia, il jeans casca alle caviglie. Lui è gia duro e con ancora le mutande è appoggiato alle mie natiche: "Femmina", mi chiama.
Io lo guardo: mentre l'intimo viene giù ed affiorano i peli, l'uccello, le palle, poi l'interno coscia e il ginocchio e le caviglie. Getta la mutanda all'indietro, non so dove.
"Femmina"
"Maschio" gli rispondo.
"Sei la mia femminuccia", mi dice mentre la pressione del suo pene sul mio ano aumenta, mentre è quasi dentro, mentre è dentro per metà, mentre è tutto, interamente, dentro di me!
"Ah!"
Esclama: "Sei stretto".
"Sei grosso" gli ribatto.
E poi non ricordo più cosa ci dicemmo: ricordo soltanto che eravamo perfetti l'uno per l'altro, io così e lui così, con le nostre voci e i nostri corpi e le nostre posizioni. Ricordo che non ci fu niente di meccanico e che non potrei descrivere, ora, quel nostro fare l'amore - parlarne unicamente come un movimento oscillatorio di un organo dentro un altro, sarebbe sbagliato e riduttivo. E ci fu un secondo - so che dirlo è una follia, so che potrei sembrare matto al solo pensarlo! - quel secondo improvviso in cui lui mi venne dentro, quel secondo!, in cui pensai di poter rimanere incinta.
Così partii, ci incontrammo all'aeroporto - non vi dirò di quale città - e ci tenemmo stretti la mano, io e lui, per tutta la durata del viaggio. Qualcuno ci guardò storto, certo, ma ormai la gente sembrava abituata alla nostra presenza; o forse soltanto spaventata dalla reazione che avrebbe potuto avere il mio ragazzo, nel caso infastidito. Era fisicamente ben messo - con il petto leggermente peloso, ed una striscia di pelo che dall'ombelico arriva al pube - e guardarlo, oltre a trasmettermi sicurezza, mi eccitava così tanto che ero costretto a chiudere gli occhi e tirare lunghi respiri - ma anche in quel caso, con gli occhi chiusi, avevo la mente invasa da lui, da noi, nell'intimità della nostra casa.
Mi immaginai già, quella sera, nel momento in cui slacciandogli i jeans sarebbero apparsi i primi peli - a pochi centimetri dalla mia bocca, proprio davanti ai miei occhi.
Lui aspettava dove sarebbero passati i bagagli, mentre io lo guardavo appoggiato ad un altra valigia; lui chiamava il taxi e parlava in inglese, mentre io silenzioso sedevo e guardavo Parigi dal finestrino. Non credo che valga la pena di riassumere - e forse ripetere - quello che vedemmo. Parigi è una città ormai nota a chi l'ha visitata e a chi ne ha soltanto letto o sentito parlare. Racconterò di quella prima sera.
Avevamo cenato in un ristorante, e lui m'aveva spinto a bere del vino, ed ogni volta che vedeva il mio bicchiere, vuoto, s'apprestava a riempirlo con un largo sorriso. "Amore, gli dicevo, non ce la faccio", e lui rispondeva che era la nostra prima sera a Parigi, che a Parigi si beve e si fa l'amore, e che tornare a casa e spogliarsi, dopo, sarebbe stato più bello con un po' di vino nel sangue. Io gli dissi che aveva ragione, ma già ora, nel ristorante, davanti a tutti, lo desideravo e mi sentivo morire all'idea di dover aspettare ancora - un'ora? Due? - per averlo dentro di me. Sorrise, semplicemente.
Aprii la porta della camera e barcollai - con sguardo invitante, e muovendo il dito come per dirgli "Seguimi" - fino al divano. Lì mi stesi di pancia e lui sopra di me. Mi baciava il collo e nient'altro - stavamo così bene. Io allora mi alzo e dico: "Bonne nuit", facendo finta d'essere intenzionato ad andare a dormire. Lui m'afferra per il bacino, da dietro, e mentre ridiamo mi sbatte sul divano.
"Non voglio", gli dico.
"Neanche io", mi risponde mentre mi strappa le mutande e accosta la bocca, poi la lingua, tra le mie natiche. Sono completamente depilato, e lui scorre sul mio ano con rapidità, a piccoli tocchi, ma talvolta invece con violenza e la lingua cerca d'entrarmi dentro, il più dentro possibile, mentre io affondo la faccia sullo schienale morbido del divano.
Gli do le spalle. Lui è in piedi dietro di me, scostato da me, ed io lo guardo inclinando la testa; le mie gambe sono aperte, la mia schiena è piegata. Sono nella posizione del sesso, coperto dell'odore del sesso, e pronto ad accoglierlo dentro di me. La cinta si slaccia, il jeans casca alle caviglie. Lui è gia duro e con ancora le mutande è appoggiato alle mie natiche: "Femmina", mi chiama.
Io lo guardo: mentre l'intimo viene giù ed affiorano i peli, l'uccello, le palle, poi l'interno coscia e il ginocchio e le caviglie. Getta la mutanda all'indietro, non so dove.
"Femmina"
"Maschio" gli rispondo.
"Sei la mia femminuccia", mi dice mentre la pressione del suo pene sul mio ano aumenta, mentre è quasi dentro, mentre è dentro per metà, mentre è tutto, interamente, dentro di me!
"Ah!"
Esclama: "Sei stretto".
"Sei grosso" gli ribatto.
E poi non ricordo più cosa ci dicemmo: ricordo soltanto che eravamo perfetti l'uno per l'altro, io così e lui così, con le nostre voci e i nostri corpi e le nostre posizioni. Ricordo che non ci fu niente di meccanico e che non potrei descrivere, ora, quel nostro fare l'amore - parlarne unicamente come un movimento oscillatorio di un organo dentro un altro, sarebbe sbagliato e riduttivo. E ci fu un secondo - so che dirlo è una follia, so che potrei sembrare matto al solo pensarlo! - quel secondo improvviso in cui lui mi venne dentro, quel secondo!, in cui pensai di poter rimanere incinta.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Sei fragileracconto sucessivo
Più di uno shampoo
Commenti dei lettori al racconto erotico