Le mutandine dell’amica di mia figlia (cap 6)
di
PifferaioMagico
genere
prime esperienze
Veronica ha cambiato registro. Ora dirige il gioco con il tono di chi conosce il fatto suo.
— Intanto vai a prendermi la borsa. Muoviti! Poi spogliati nudo e aspetta fuori dal bagno.
Per qualche secondo mi viene in mente l’immagine di lei di ritorno da scuola. Con le treccine, lo zaino dei libri sulla spalla, le scarpe da ginnastica da studentessa. Espressioni e voci dal sapore scherzoso, occhi bassi e movimenti incerti. Una diciottenne come molte, con le forme e le malizie al punto giusto.
Quell’innocenza ora si è trasformata in energia dominatrice. Le passo la borsa. Sono nudo, a piedi nudi.
A mente nuda.
— Inizia a chiudere gli occhi — mi dice, secca.
Mi concentro sui rumori. Sento il fruscio di una cerniera che si apre: probabilmente una tasca interna della borsa. D’un tratto sento il suo respiro a pochi centimetri dagli occhi: mi sfiora il naso con le dita, mi incide un labbro con le unghie, mi lecca un lobo di un’orecchio.
— Girati, schiavo di merda.
Dopo un attimo inizia a bendarmi. Ecco cos’aveva nella borsa. Poi mi prende per un braccio e mi guida nuovamente all’interno del bagno. Non vedo nulla, ma è un buio che riempie ogni muscolo del corpo. Siedo di forza sul water, mentre lei mi afferra un polso.
Il rumore di ferraglia dura cinque-sei secondi. Un primo CLANG, a cui ne segue un altro. Quest’ultimo associato a un freddo contatto metallico. CLANG.
— Ora sì che ci siamo — dice con tono soddisfatto.
Ritraggo il braccio, ma resto parzialmente bloccato. La stretta sul mio polso è la morsa di un bracciale.
Cazzo!
Sono ammanettato. Sono imprigionato.
D’istinto, senza aspettare ordini, con la mano libera mi strappo la benda dalla faccia.
La vedo.
Veronica.
Con gli occhi spalancati che sorridono.
Le vedo.
Le manette.
Cazzo!
La cosa strana è la catena, lunga almeno mezzo metro. Collega il mio polso al termosifone. Anzi lo lega indissolubilmente. Lei ride.
— Ora ci divertiamo come pochi sanno fare. Alzati in piedi, verme.
Quasi pentito di essere uscito anche solo per un attimo dal gioco, mi sollevo e mi riprendo.
Non era quello che volevo? Non avrei dato metà del mio stipendio multinazionale per scrivere quella scena nei dettagli?
— Alza un piede, schiavetto. Prima uno e poi l’altro. Fai come ti dico.
Si china leggermente e mi infila a sorpresa le mutandine rosse ricomparse. Ne afferra le estremità laterali, tirandole su a piccoli strappi. L’elastico si tende, il tessuto aderisce piano piano.
— Sei ingrassato, orsetto. Mi aspettavo che portassi una “elle” e invece sei un porco da “ics-elle”. Dì la verità: non avevi capito che erano per te, vero?
No che non l’avevo capito. La sua voce è di nuovo flautata: mi viene vicino, mi parla all’orecchio.
— Ora posso rivelarti il mio piano.
Ma prima di continuare nella confessione, fa scivolare una mano verso le mie parti basse. Accarezza le mutandine dall’esterno, assaggia la consistenza del mio pacco genitale. Poi lo stringe lentamente, senza fretta, tutto insieme: parte da sotto coi testicoli, fino a chiudere la mano con una forza inaspettata.
— Oggi sapevo che eri in città da solo e ti stavo venendo a cercare.
La mano ruota e stringe: non so da che parte concentrarmi.
— L’idea era di appostarmi vicino a casa tua. ti avrei incontrato per caso. Ma tu, brutto ladruncolo merdoso, mi hai preceduto… Ti ho visto salire in auto da lontano e ho aspettato ad attraversare. Fino a quando sei passato tu…
La morsa intorno al mio cazzo ormai rigonfio si allenta. Passando dall’esterno della coscia, la sua mano risale su per la schiena e scende giù, tra le mutandine rosse, a sfiorare le mie natiche indifese. Piano piano mi accarezza la peluria intorno al buco. So che è questione di attimi, forse secondi.
— La tua stupida idea di voler aprire la mia porta blindata stava mandando tutto a monte! Io pensavo che tu, preoccupato di sapermi chiusa fuori, mi avresti offerto di dormire da qualche parte… Magari in uno squallido bed and breakfast?
La osservo come si guarderebbe un ladro vestito da guardia carceraria.
— Dì la verità, stupidino… Mi avresti lasciato per strada?
Non ho il tempo di pensare a una risposta. Con velocità fulminea, la ragazza mi assesta un ceffone a mano piena che mi lascia senza fiato. Lo sguardo è feroce, dura qualche secondo. Dopo un attimo ritorna a miagolare.
— Qualche anno di Aikido serviranno a qualcosa, non credi?
Mentre immagino Veronica nell’atto di neutralizzare un aggressore, con leve e bloccaggi di scuola giapponese, mi accorgo che le sue dita sono ritornate dalle parti del mio orifizio anale. Sento le sue unghie strofinare, piantarsi nella pelle e poi — eccole — infilarsi lentamente senza sconti.
— Oohh — dice lei, togliendomi la battuta — ma questo culetto è proprio asciutto… Apri la boccuccia… Succhia un pochino il mio ditino… Non vorrai mica sentire dolore, vero?
Senza perdersi d’animo, apre un’anta dell’armadietto al lato dello specchio e ne estrae una crema per le mani, che evidentemente aveva scorto in precedenza. Ne spreme un po’ su indice e medio. Poi torna dentro le mie intimità: questa volta il massaggio è profondo e completo. Uscendo ed entrando senza sosta, quelle dita affusolate disegnano paesaggi da Divina Commedia. Paradiso e Inferno rispondono “presente”. Del Purgatorio non sentiamo la mancanza.
— Quando mi hai detto di venire qui a casa tua, mi sono rilassata. Ho capito che anche tu volevi giocare… Guarda come sei bello, con queste mutandine rosse, ammanettato al termosifone come un cane da guardia. E con due dita che ti stanno sfondando questo inutile buco merdoso. Guardati… Sei adorabile! Cosa direbbero i tuoi colleghi manager, eh? O quelle segretarie-troie-pompinare che ti succhiano il cazzo da sotto la scrivania, mentre parli al cellulare con tua moglie o su Skype con la tua mammina, eh?
Gira tutto, vorticosamente. E la serata è soltanto all’inizio.
— Non provare a godere, schiavetto! Questo, lo sai: lo decido io. Fino a domenica sei mio. Cinque giorni, cinque pagine di questa agendina. Qui scriveremo i giochi che faremo: palla avvelenata, nascondino, scopone scientifico e… Come si chiama quello delle domande?
— … Trivial… — mi sfugge dalle labbra. Lo schiaffo che ne segue è tremendo.
— Non provare a parlare se non ti do il permesso!
Come per rinforzare le nuove gerarchie, apre un cassettino del mobile del bagno e ne estrae due pinze per capelli. Due minuscole e dentate pinze a molla rigidissima. Vedo la plastica dentata chiudersi come un’ostrica sui miei capezzoli. Una pinza dopo l’altra. Sobbalzo dal dolore lacerante. Con la mano aperta, mi preme la bocca per tapparmela.
— Non voglio sentirti fiatare, puttanella in procinto di strisciare. E non provare a disturbarmi mentre vado a prepararmi la cena. Se fai il bravo, forse sputerò qualche avanzo bavoso nella tua bocca. Mi servi in forza per i prossimi quattro giorni. E ora girati.
Mentre sono di spalle, sento ancora che lei apre lo sportello. Tira fuori una spazzola di plastica cinese, ne lubrifica il manico con la solita crema per le mani e me lo appoggia all’ingresso del buco del culo.
— Ora vado in cucina e ti lascio giocare alla ninfomane. La ninfomane ammanettata che rovista il suo culetto. Conosci questo gioco?
Mi guarda mentre inizio a spingere all’interno quel manico color verde acqua.
— Bravo… cooosì. Ascoltami bene: quando torno, esaminerò per bene questo tuo buchino. Sono anche dottoressa, sai? Indovina come lo voglio sentire? Sfon-dato, ripeti con me… Sfo-o-ndato. Prima le dita erano soltanto due. Ripeti con me: DUE. Ma “due” - piccola troietta - ti sembra forse un numero perfetto?
[CONTINUA]
— Intanto vai a prendermi la borsa. Muoviti! Poi spogliati nudo e aspetta fuori dal bagno.
Per qualche secondo mi viene in mente l’immagine di lei di ritorno da scuola. Con le treccine, lo zaino dei libri sulla spalla, le scarpe da ginnastica da studentessa. Espressioni e voci dal sapore scherzoso, occhi bassi e movimenti incerti. Una diciottenne come molte, con le forme e le malizie al punto giusto.
Quell’innocenza ora si è trasformata in energia dominatrice. Le passo la borsa. Sono nudo, a piedi nudi.
A mente nuda.
— Inizia a chiudere gli occhi — mi dice, secca.
Mi concentro sui rumori. Sento il fruscio di una cerniera che si apre: probabilmente una tasca interna della borsa. D’un tratto sento il suo respiro a pochi centimetri dagli occhi: mi sfiora il naso con le dita, mi incide un labbro con le unghie, mi lecca un lobo di un’orecchio.
— Girati, schiavo di merda.
Dopo un attimo inizia a bendarmi. Ecco cos’aveva nella borsa. Poi mi prende per un braccio e mi guida nuovamente all’interno del bagno. Non vedo nulla, ma è un buio che riempie ogni muscolo del corpo. Siedo di forza sul water, mentre lei mi afferra un polso.
Il rumore di ferraglia dura cinque-sei secondi. Un primo CLANG, a cui ne segue un altro. Quest’ultimo associato a un freddo contatto metallico. CLANG.
— Ora sì che ci siamo — dice con tono soddisfatto.
Ritraggo il braccio, ma resto parzialmente bloccato. La stretta sul mio polso è la morsa di un bracciale.
Cazzo!
Sono ammanettato. Sono imprigionato.
D’istinto, senza aspettare ordini, con la mano libera mi strappo la benda dalla faccia.
La vedo.
Veronica.
Con gli occhi spalancati che sorridono.
Le vedo.
Le manette.
Cazzo!
La cosa strana è la catena, lunga almeno mezzo metro. Collega il mio polso al termosifone. Anzi lo lega indissolubilmente. Lei ride.
— Ora ci divertiamo come pochi sanno fare. Alzati in piedi, verme.
Quasi pentito di essere uscito anche solo per un attimo dal gioco, mi sollevo e mi riprendo.
Non era quello che volevo? Non avrei dato metà del mio stipendio multinazionale per scrivere quella scena nei dettagli?
— Alza un piede, schiavetto. Prima uno e poi l’altro. Fai come ti dico.
Si china leggermente e mi infila a sorpresa le mutandine rosse ricomparse. Ne afferra le estremità laterali, tirandole su a piccoli strappi. L’elastico si tende, il tessuto aderisce piano piano.
— Sei ingrassato, orsetto. Mi aspettavo che portassi una “elle” e invece sei un porco da “ics-elle”. Dì la verità: non avevi capito che erano per te, vero?
No che non l’avevo capito. La sua voce è di nuovo flautata: mi viene vicino, mi parla all’orecchio.
— Ora posso rivelarti il mio piano.
Ma prima di continuare nella confessione, fa scivolare una mano verso le mie parti basse. Accarezza le mutandine dall’esterno, assaggia la consistenza del mio pacco genitale. Poi lo stringe lentamente, senza fretta, tutto insieme: parte da sotto coi testicoli, fino a chiudere la mano con una forza inaspettata.
— Oggi sapevo che eri in città da solo e ti stavo venendo a cercare.
La mano ruota e stringe: non so da che parte concentrarmi.
— L’idea era di appostarmi vicino a casa tua. ti avrei incontrato per caso. Ma tu, brutto ladruncolo merdoso, mi hai preceduto… Ti ho visto salire in auto da lontano e ho aspettato ad attraversare. Fino a quando sei passato tu…
La morsa intorno al mio cazzo ormai rigonfio si allenta. Passando dall’esterno della coscia, la sua mano risale su per la schiena e scende giù, tra le mutandine rosse, a sfiorare le mie natiche indifese. Piano piano mi accarezza la peluria intorno al buco. So che è questione di attimi, forse secondi.
— La tua stupida idea di voler aprire la mia porta blindata stava mandando tutto a monte! Io pensavo che tu, preoccupato di sapermi chiusa fuori, mi avresti offerto di dormire da qualche parte… Magari in uno squallido bed and breakfast?
La osservo come si guarderebbe un ladro vestito da guardia carceraria.
— Dì la verità, stupidino… Mi avresti lasciato per strada?
Non ho il tempo di pensare a una risposta. Con velocità fulminea, la ragazza mi assesta un ceffone a mano piena che mi lascia senza fiato. Lo sguardo è feroce, dura qualche secondo. Dopo un attimo ritorna a miagolare.
— Qualche anno di Aikido serviranno a qualcosa, non credi?
Mentre immagino Veronica nell’atto di neutralizzare un aggressore, con leve e bloccaggi di scuola giapponese, mi accorgo che le sue dita sono ritornate dalle parti del mio orifizio anale. Sento le sue unghie strofinare, piantarsi nella pelle e poi — eccole — infilarsi lentamente senza sconti.
— Oohh — dice lei, togliendomi la battuta — ma questo culetto è proprio asciutto… Apri la boccuccia… Succhia un pochino il mio ditino… Non vorrai mica sentire dolore, vero?
Senza perdersi d’animo, apre un’anta dell’armadietto al lato dello specchio e ne estrae una crema per le mani, che evidentemente aveva scorto in precedenza. Ne spreme un po’ su indice e medio. Poi torna dentro le mie intimità: questa volta il massaggio è profondo e completo. Uscendo ed entrando senza sosta, quelle dita affusolate disegnano paesaggi da Divina Commedia. Paradiso e Inferno rispondono “presente”. Del Purgatorio non sentiamo la mancanza.
— Quando mi hai detto di venire qui a casa tua, mi sono rilassata. Ho capito che anche tu volevi giocare… Guarda come sei bello, con queste mutandine rosse, ammanettato al termosifone come un cane da guardia. E con due dita che ti stanno sfondando questo inutile buco merdoso. Guardati… Sei adorabile! Cosa direbbero i tuoi colleghi manager, eh? O quelle segretarie-troie-pompinare che ti succhiano il cazzo da sotto la scrivania, mentre parli al cellulare con tua moglie o su Skype con la tua mammina, eh?
Gira tutto, vorticosamente. E la serata è soltanto all’inizio.
— Non provare a godere, schiavetto! Questo, lo sai: lo decido io. Fino a domenica sei mio. Cinque giorni, cinque pagine di questa agendina. Qui scriveremo i giochi che faremo: palla avvelenata, nascondino, scopone scientifico e… Come si chiama quello delle domande?
— … Trivial… — mi sfugge dalle labbra. Lo schiaffo che ne segue è tremendo.
— Non provare a parlare se non ti do il permesso!
Come per rinforzare le nuove gerarchie, apre un cassettino del mobile del bagno e ne estrae due pinze per capelli. Due minuscole e dentate pinze a molla rigidissima. Vedo la plastica dentata chiudersi come un’ostrica sui miei capezzoli. Una pinza dopo l’altra. Sobbalzo dal dolore lacerante. Con la mano aperta, mi preme la bocca per tapparmela.
— Non voglio sentirti fiatare, puttanella in procinto di strisciare. E non provare a disturbarmi mentre vado a prepararmi la cena. Se fai il bravo, forse sputerò qualche avanzo bavoso nella tua bocca. Mi servi in forza per i prossimi quattro giorni. E ora girati.
Mentre sono di spalle, sento ancora che lei apre lo sportello. Tira fuori una spazzola di plastica cinese, ne lubrifica il manico con la solita crema per le mani e me lo appoggia all’ingresso del buco del culo.
— Ora vado in cucina e ti lascio giocare alla ninfomane. La ninfomane ammanettata che rovista il suo culetto. Conosci questo gioco?
Mi guarda mentre inizio a spingere all’interno quel manico color verde acqua.
— Bravo… cooosì. Ascoltami bene: quando torno, esaminerò per bene questo tuo buchino. Sono anche dottoressa, sai? Indovina come lo voglio sentire? Sfon-dato, ripeti con me… Sfo-o-ndato. Prima le dita erano soltanto due. Ripeti con me: DUE. Ma “due” - piccola troietta - ti sembra forse un numero perfetto?
[CONTINUA]
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