Impudicizia

di
genere
masturbazione

Quando pizzicare i capezzoli non mi suscita nessun ulteriore piacere né dolore, mi ribalto sulla pancia, incuneo la mano sotto il ventre e mentre con il palmo massaggio il perineo, con un dito percorro la rima dello sfintere.
Lo scatto di un accendino mi fa capire che il cambio di prospettiva è stato apprezzato.

Non mi interessa sapere il quando o il come o il quanto frequentemente voi lo facciate; ciò che incuriosisce è il perché.
E non mi riferisco a quei perché a cui è facile pensare: combattere la solitudine, la necessità di rilassarsi o il desiderio di sentirsi. E neppure a quelle pratiche che accompagnano o che fanno da corollario al sesso fra due o più persone. Dei motivi per i quali ci si masturba, mi interessa vivere quelli un più morbosi; ad esempio l’impudicizia.

Ruoto la ghiera del vibratore sulla posizione iniziale, e mi penetro con l’asta di lucido metallo. Non sono alla ricerca della profondità, né della dilatazione, ma di quella vibrazione sorda e profonda che, a contatto con la mucosa, genera un punto di condensazione della piacevolezza che sento diffusa lungo il corpo.
Senza fretta, aspetto che l’alchimia si compia.

Ciò che mi ha chiesto è stato di offrirgli la vista della pratica più personale e solitaria che si possa concepire.
Senza coinvolgimento, senza parole, senza azioni. Estroflettere la mia intimità e disporla, in bella vista, senza pudore, senza vergogna, su quel letto affinché lui ne possa godere. E senza possibilità di reciprocità. Assieme, ma ognuno nella sua solitudine.

Quando l’eccitazione è sufficientemente densa, mi rialzo, accosciandomi. Con i calcagni trattengo la base del vibratore che, mentre mi alzo e abbasso sulla ginocchia, scompare e riappare nella mia carne. Il movimento ritmico mi permette di strusciare il sesso gonfio lungo la presa lasca del palmo della mano.
L’altro braccio giace abbandonato lungo il fianco. Rilasso i muscoli del collo, e la testa, vuota di pensieri ed emozioni, dondola assecondando il ritmo del resto del corpo.

Ci siamo scambiati messaggi, prima mail, poi sul cellulare. La sua casa è ordinatissima, il copriletto perfettamente teso, e distendermi li sopra pare quasi uno sfregio. Cerco vanamente un segno che dia personalità a quell’anonimato, ma tutto ciò che riesco a percepire è, da ex fumatore, un leggero odore di tabacco bruciato.
Ho spogliato il mio corpo e offerto la mia anima al suo sguardo senza ricevere riscontro. Allora ho chiuso gli occhi, ho portato le mani ai capezzoli e ho cominciato a pizzicarli cercando il limite fra piacere e dolore.

Il sartorio urla, gonfio di acido lattico. E’ ora di chiudere. Mi basta accentuare di un paio di millimetri la stretta della mano per ottenere una pressione più efficace. Sento il mio respiro arrochirsi affannato, e dopo pochi colpi iniziano le contrazioni che dal pavimento pelvico si estendono alla radice del sesso, poi lungo l’asta, spingendo in avanti il fiotto di sperma che, mentre il cuore batte all’impazzata, alla fine erutta in una parabola che mi bagna il volto e il torace.
Una lunga espirazione accompagna il mio scivolare lungo la schiena. Con l’ultima stilla di lucidità, mentre gocce di liquido colloso ruscelllano lungo i fianchi, estraggo il vibratore e lo spengo. Poco alla volta il respiro si calma e sento i muscoli rilassarsi.

Un nuovo scatto dell’accendino sottolinea la fine. Per un attimo, attore e spettatore, le nostre esistenze di sono incrociate. Io gli ho regalato la possibilità di uno sguardo inedito su come sono veramente. Lui mi ha donato la voglia di ricominciare a fumare.

Fuori il mondo è incasinato come sempre. Abbaiare di cani. Voci di bambini. Automobilisti incarogniti che martellano il clacson al semaforo.
Faccio scattare l’accendino e aspiro una boccata di tabacco bruciato. Il fumo della sigaretta si mescola, in un movimento a spirale, coi gas di scarico e, dopo un attimo di stasi, si dissolve nell'aria.
scritto il
2019-06-01
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