Melissa
di
fabrizio
genere
etero
Melissa, dal greco antico μέλίσσα, mitologica ninfa inventrice dell’apicoltura; pianta perenne erbacea aromatica, appartenente alla famiglia delle Lamiacee.
Con la mano nascondo qualche lettera della scritta rovesciata, e leggo il risultato: Mel-a. La mela di Newton, quella di Guglielmo Tell; i dischi dei Beatles e la saga di Steve Jobs. E poi ovviamente il paradiso terrestre, il serpente tentatore, ed Eva che cede e addenta il peccato. Abbasso gli occhi su Melissa, che come la sua antenata, sta assaporando con mugolii di piacere la mia asta, sfilandola e introducendola fra le labbra mentre con la lingua massaggia il glande. Immagino che, a differenza di Eva, non sia precisamente il primo peccato che assapora.
Strano nome, Melissa, per una baby boomer nata in anni di Marie e di tutte le sue declinazioni, Annamaria, Maria Grazia, Maria Luisa e perfino qualche Maria Catena. Probabilmente genitori hippy, che per la loro pargoletta si erano prefigurati un futuro di “flower power”, di camminate a piedi nudi nei boschi e psichedelico amore universale, e proprio non immaginavano che l’avrei incontrata qui, in questo scantinato che ospita un remoto e polveroso archivio comunale, zeppo di pratiche accatastate fino al soffitto in precari equilibri cartacei.
Non era stato difficile sedurci vicendevolmente, reduci di un mondo che pensavamo avremmo conquistato e che invece ci ha sospinto, centimetro dopo centimetro, sottoterra. Quando hai più passato che futuro, e il sesso è privo di ogni temibile prospettiva sentimentale o aspettative che oltrepassino l’ora successiva, è normale giocarsi all-in la mano che ti è stata smazzata. Così un’occhiata e un contatto sono più eloquenti di mille parole e il resto sono solo quei pochi centimetri da percorrere prima che la mia mano si posi sul suo seno e la sua sul mio sesso.
Sposto la mano appoggiata alla sua schiena che accompagna il movimento della bocca, e la scritta si trasmuta in issa; come per telepatia, la donna si stacca, si issa a cavalcioni porgendomi la schiena, infine mi afferra il sesso e lo guida dentro di sé. Ripiegandosi mi afferra le caviglie, offrendomi la vista di me stesso che scompaio e riappaio al ritmo del dondolio che le fa ballonzolare i fianchi.
Mi chiedo perché una donna che ha attraversato gli stessi miei decenni, con tutto ciò che comporta in termini di fascino della maturità e di flaccidità delle carni, senta il bisogno di tatuarsi, in eleganti caratteri calligraphy, il nome di una pianta erbacea della famiglia delle Lamiate proprio sopra la linea dei glutei. L’inchiostro è sbiadito, i caratteri non sono così netti, probabilmente la scritta risale agli anni nei quali tatuarsi era testimonianza della marginalità di marinai e galeotti. O, assieme all’orologio sul polsino, dell’eccentricità di Giovanni Agnelli.
La placida determinazione con la quale mi sta scopando suggerisce l’idea di una donna in pace con sé e la sua storia, qualunque sia, e che nell’afferrare brandelli di vita non deve dimostrare nulla a nessuno, neppure a se stessa; così immagino che il senso della scritta abbia a che fare con l’idea di essere orgogliosamente unica ed inimitabile, e che questa unicità debba restare ben impressa al fortunato avventore che, nel suo umano peregrinare, capiti di soffermarsi nei dintorni delle sue chiappe.
Personalmente non ho di queste pretese di memorabilità, sono assolutamente convinto che nel nostro incedere lasciamo impronte impresse sulla sabbia della battigia, che la prima ondata cancella per sempre; ma so riconoscere e rispettare i desideri altrui, a maggior ragione di chi sta dividendo un’orata di sesso con me, e trovo galante soddisfarli. Un timido tentativo di essere pure io orgogliosamente unico.
Così con il pollice percorro il solco delle natiche saggiando la resistenza dello sfintere; la rosetta di carne è morbida, e si apre senza resistenza al mio tocco; allora mi sfilo, sguscio da sotto e mi piego su di lei, appoggiando la punta fra le sue carni e aumentando la pressione. Melissa, che evidentemente apprezza l’attenzione e desidera non privarsene, agevola il compito, divaricando ancor più le cosce e rilassando le carni.
La afferro per i fianchi, e con placidità e delicatezza affondo, poi mi ritraggo e torno ad affondare; spinta dopo spinta, passiamo dal dolore alla piacevolezza, dalla lentezza alla frenesia fino a sentire distintamente, mentre le vengo dentro, le contrazioni del suo orgasmo.
Ancora ansimanti, osservo le mie mani, che nel rilassamento giacciono morbide sui suoi lombi; le dita si sono riposizionate, ed ora la scritta recita M-issa.
Ite, Missa est, recitava il prete in latino rivolgendosi ai Mario e alle Marie adolescenti, che a malapena farfugliavano in italiano; quando la religione era una cosa seria e i peccati, gli atti impuri, quelli contro natura, erano mortali, cosa che conferiva al peccare la natura perversa ed esaltante di una camminata su un filo teso sull’abisso.
Ora invece i peccati sono diventati una tisana, forse proprio al gusto di Melissa, da prendere magari con un cucchiaino di miele, una bevanda gustosa che calma i nervi e che aiuta a dormire, e a vivere, senza troppi incubi.
Con la mano nascondo qualche lettera della scritta rovesciata, e leggo il risultato: Mel-a. La mela di Newton, quella di Guglielmo Tell; i dischi dei Beatles e la saga di Steve Jobs. E poi ovviamente il paradiso terrestre, il serpente tentatore, ed Eva che cede e addenta il peccato. Abbasso gli occhi su Melissa, che come la sua antenata, sta assaporando con mugolii di piacere la mia asta, sfilandola e introducendola fra le labbra mentre con la lingua massaggia il glande. Immagino che, a differenza di Eva, non sia precisamente il primo peccato che assapora.
Strano nome, Melissa, per una baby boomer nata in anni di Marie e di tutte le sue declinazioni, Annamaria, Maria Grazia, Maria Luisa e perfino qualche Maria Catena. Probabilmente genitori hippy, che per la loro pargoletta si erano prefigurati un futuro di “flower power”, di camminate a piedi nudi nei boschi e psichedelico amore universale, e proprio non immaginavano che l’avrei incontrata qui, in questo scantinato che ospita un remoto e polveroso archivio comunale, zeppo di pratiche accatastate fino al soffitto in precari equilibri cartacei.
Non era stato difficile sedurci vicendevolmente, reduci di un mondo che pensavamo avremmo conquistato e che invece ci ha sospinto, centimetro dopo centimetro, sottoterra. Quando hai più passato che futuro, e il sesso è privo di ogni temibile prospettiva sentimentale o aspettative che oltrepassino l’ora successiva, è normale giocarsi all-in la mano che ti è stata smazzata. Così un’occhiata e un contatto sono più eloquenti di mille parole e il resto sono solo quei pochi centimetri da percorrere prima che la mia mano si posi sul suo seno e la sua sul mio sesso.
Sposto la mano appoggiata alla sua schiena che accompagna il movimento della bocca, e la scritta si trasmuta in issa; come per telepatia, la donna si stacca, si issa a cavalcioni porgendomi la schiena, infine mi afferra il sesso e lo guida dentro di sé. Ripiegandosi mi afferra le caviglie, offrendomi la vista di me stesso che scompaio e riappaio al ritmo del dondolio che le fa ballonzolare i fianchi.
Mi chiedo perché una donna che ha attraversato gli stessi miei decenni, con tutto ciò che comporta in termini di fascino della maturità e di flaccidità delle carni, senta il bisogno di tatuarsi, in eleganti caratteri calligraphy, il nome di una pianta erbacea della famiglia delle Lamiate proprio sopra la linea dei glutei. L’inchiostro è sbiadito, i caratteri non sono così netti, probabilmente la scritta risale agli anni nei quali tatuarsi era testimonianza della marginalità di marinai e galeotti. O, assieme all’orologio sul polsino, dell’eccentricità di Giovanni Agnelli.
La placida determinazione con la quale mi sta scopando suggerisce l’idea di una donna in pace con sé e la sua storia, qualunque sia, e che nell’afferrare brandelli di vita non deve dimostrare nulla a nessuno, neppure a se stessa; così immagino che il senso della scritta abbia a che fare con l’idea di essere orgogliosamente unica ed inimitabile, e che questa unicità debba restare ben impressa al fortunato avventore che, nel suo umano peregrinare, capiti di soffermarsi nei dintorni delle sue chiappe.
Personalmente non ho di queste pretese di memorabilità, sono assolutamente convinto che nel nostro incedere lasciamo impronte impresse sulla sabbia della battigia, che la prima ondata cancella per sempre; ma so riconoscere e rispettare i desideri altrui, a maggior ragione di chi sta dividendo un’orata di sesso con me, e trovo galante soddisfarli. Un timido tentativo di essere pure io orgogliosamente unico.
Così con il pollice percorro il solco delle natiche saggiando la resistenza dello sfintere; la rosetta di carne è morbida, e si apre senza resistenza al mio tocco; allora mi sfilo, sguscio da sotto e mi piego su di lei, appoggiando la punta fra le sue carni e aumentando la pressione. Melissa, che evidentemente apprezza l’attenzione e desidera non privarsene, agevola il compito, divaricando ancor più le cosce e rilassando le carni.
La afferro per i fianchi, e con placidità e delicatezza affondo, poi mi ritraggo e torno ad affondare; spinta dopo spinta, passiamo dal dolore alla piacevolezza, dalla lentezza alla frenesia fino a sentire distintamente, mentre le vengo dentro, le contrazioni del suo orgasmo.
Ancora ansimanti, osservo le mie mani, che nel rilassamento giacciono morbide sui suoi lombi; le dita si sono riposizionate, ed ora la scritta recita M-issa.
Ite, Missa est, recitava il prete in latino rivolgendosi ai Mario e alle Marie adolescenti, che a malapena farfugliavano in italiano; quando la religione era una cosa seria e i peccati, gli atti impuri, quelli contro natura, erano mortali, cosa che conferiva al peccare la natura perversa ed esaltante di una camminata su un filo teso sull’abisso.
Ora invece i peccati sono diventati una tisana, forse proprio al gusto di Melissa, da prendere magari con un cucchiaino di miele, una bevanda gustosa che calma i nervi e che aiuta a dormire, e a vivere, senza troppi incubi.
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