Una serata inutile – terza parte
di
Browserfast
genere
etero
Ho davvero un bel culo, ve lo devo dire. No, non parlo della parte anatomica, altrimenti avrei usato degli aggettivi tipo “fantastico” o “strepitoso”. Parlo proprio della fortuna. L’aereo è atterrato in orario a Heathrow, il bagaglio che avevo imbarcato ci ha messo qualcosa come un minuto-un minuto e mezzo prima di fare la sua comparsa sul nastro trasportatore, poiché l’Oyster card me l’ero fatta mandare a casa sono arrivata di filato alla metropolitana e il treno è partito in quel momento, come se mi aspettasse. Un’oretta dopo, anche meno, scendo alla fermata di Kensington. Qui la fortuna viene un po’ meno perché mi accorgo che dalla metro alla mia destinazione bisogna scarpinare un po’. Nulla di eccessivo se non fosse che il trolley che mi trascino dietro pesa un accidente e che, nonostante in aereo abbia dormito tutto il tempo, sono distrutta dalla stanchezza.
Mi sono svegliata mezz’ora prima che Serena passasse a prendermi a mezzogiorno. Mi sono vestita comoda, decente. Con dei bermuda di jeans e una maglietta, le adidas. Ho fatto appena in tempo a farmi la doccia e a truccarmi giusto un po’ per tentare di nascondere i segni dello sfacelo dal mio bel visino. Non devo esserci riuscita molto bene perché appena mi ha vista così, e con i capelli ancora bagnati (e che inevitabilmente prenderanno la loro naturale forma ondulata ma sticazzi), Serena mi ha chiesto cosa mi fosse successo. Le ho risposto nulla, che avevo seguito il suo consiglio ed ero tornata a casa in taxi subito dopo che ci eravamo lasciate in discoteca, che avevo dormito poco e male per la stanchezza, l’emozione del viaggio, il caldo. Piuttosto, le ho anche detto che le sue di occhiaie sembravano proprio essere il segno di una nottata passata in modo decisamente più divertente. Poi ho cambiato discorso e le ho chiesto se avesse sentito Giovanna, che era sparita prima di tutte dalla discoteca. “Sì, ci siamo smessaggiate”, è stata la risposta. Sempre un po’ troppo laconica quando parla di lei.
Non so perché non le ho raccontato come avevo davvero passato la notte, eppure ne avevo una voglia incredibile. Forse un po’ mi vergognavo. Forse perché avrei dovuto anche dirle l’attrazione fortissima che avevo provato a un certo punto per lei e che in quel momento l’unica cosa che avrei davvero voluto era quella di adagiarla su un letto e stendermi sopra il suo corpo.
Tra l’altro, anche Serena aveva una insopprimibile voglia di raccontare e, contrariamente alla sottoscritta, l’ha fatto. Senza peraltro risparmiarsi una bella dose di particolari. A cominciare dalla faccia che aveva fatto il ragazzo che l’aveva rimorchiata quando, dopo averle calato i pantaloni di cotone leggerissimo, si era reso conto che lei sotto non aveva nulla. “Me ne ero accorta anche io mentre eravamo lì, troia”, le ho detto ridendo. “Mi sono seduta su una poltrona, ho allargato le gambe e me l’ha leccata subito, bene. E quando dico bene intendo proprio bene-bene”, ha continuato senza badare alle mie parole. Quando me l’ha detto ho avvertito una piccola contrazione e il desiderio fortissimo, anche se stava guidando, di baciarla prima e di tirarle fuori una tetta dalla canotta e iniziare a succhiargliela poi. Desiderio che ho ovviamente represso all’istante. Tuttavia non è stato facilissimo starla ad ascoltare, di lei e di questo ragazzo instancabile anche se privo di molta fantasia. “Tant’è vero che un po’ di fantasia ho dovuto mettercela io...”, ha aggiunto. “Cioè?”. “Cioè pare che nessuna prima di stamattina lo avesse svegliato all’alba con un pompino, parole sue....”, mi ha risposto ridendo. “C’è troppa sciatteria tra le ragazze, oggi”, ho commentato scherzandoci sopra, più che altro per dissimulare la mia agitazione.
Insomma, quando ha fermato la macchina davanti al terminal e siamo scese per tirare fuori la valigia dal portabagagli non avrei proprio potuto dire di essere calma. Ci siamo date due bacetti e siamo rimaste a guardarci così per tre o quattro secondi. Mi sono anche detta in quel momento “adesso o mai più”, pensando al mio desiderio di afferrarle il viso tra le mani e infilarle furiosamente la lingua in bocca. Evidentemente è “mai più”, visto che non l’ho fatto. Però l’ho stretta forte, come a voler sublimare la mia voglia con quell’abbraccio, e le ho sussurrato “mi faccio sentire quando arrivo, tu fammi sapere come va con il tuo lavoro”. Domani partirà per un villaggio vacanze nel sud della Sardegna, dove passerà le prossime settimane a fare fotografie sulla spiaggia a bambini e bambine sorridenti e a rivenderle ai genitori la sera. Non che sia proprio una fotografa ma tanto, dice lei, con le reflex automatiche e un buon programma di editing digitale oggi si fa tutto.
Quando arrivo di fronte alla casa in cui mio padre mi ha affittato una stanza mi fermo un attimo a riprendere fiato e a guardarla. Il quartiere è molto carino e tranquillo, le strade non sono larghe e le case sono proprio come quelle che una si immagina quando pensa all’Inghilterra. Alte al massimo tre piani, strette, con tre o quattro gradini che salgono al portone e un’altra decina che scendono giù al basement, che qualcuno ha trasformato in un’altra stanza o in un piccolo appartamento, a giudicare dalle graziose tendine alle finestre. E’ una specie di bed &breakfast ma, da quanto ho capito, senza breakfast, nel senso che ci dovrò pensare da sola. Suono al citofono e sento lo scatto della serratura, entro in un lungo corridoio. A destra, sotto la scala che porta ai piani superiori, c’è una stanzetta con un tipo. Un indiano, pakistano, afgano, cazzo ne so io. Di quelle parti lì, comunque. Gli do il voucher e i documenti, lui mi dà le chiavi e mi porta su a vedere la stanza. E’ proprio la prima davanti alla rampa, per fortuna. Il pakistano o quel che è infatti col cazzo che si offre di portarmi su il trolley e io faccio una fatica bestiale.
La stanza, devo dire, è enorme. Con un letto a due piazze in fondo, un acquaio e un tavolo in un angolo, un certo odore di moquette vecchia. Lascio che l’uomo esca, chiudo bene la porta e apro un po’ le finestre. Ho voglia di una doccia. Vado in bagno e smadonno perché la doccia, in effetti, è la cosa più bella della stanza, larga e in muratura, non un box del cazzo. Solo che manca tutto, ci sono solo gli asciugamani e io con me non ho portato nulla. Mi viene in mente che per strada ho visto un mega supermercato che disterà da qui due o trecento metri. Decido di fare un ultimo, sovrumano, sforzo e mi rimetto le Stan Smith senza nemmeno i fantasmini e vado a comprare shampoo, balsamo e docciaschiuma. Più del Nescafè e un mug con le facce di Harry e Meghan stampate sopra. Prima di andare alla cassa mi ricordo che è da ieri sera che non mangio e che inizio a sentirmi addosso i sintomi della fame più nera. Compro dei club sandwich in un vassoietto sigillato e mi dico che basta così. Poi penso invece che non basta così proprio per niente e prendo un’insalata con il pesce, di quelle già pronte con tanto di forchettina di plastica, una birra già fredda e dell’acqua.
Esco dalla doccia avvolta in un asciugamano e mi stendo sul letto dopo avere preso il mio laptop. Lo accendo e mentre aspetto che parta chiamo i miei. Faccio un video della stanza e lo mando a loro e alle mie amiche con scritto sotto “baci da Londra”. Lo metto anche su Instagram. Poi apro le mail e smadonno un’altra volta perché mi rendo conto solo in questo momento di non avere chiesto la password del wi-fi. Mi infilo un vestito lungo e scendo di sotto dallo stronzo che mi guarda e fa una faccia da imbecille quando gli chiedo la password. Non è che sappia benissimo inglese, lui, ma cazzo non è così difficile. Sembra proprio che non capisca di cosa io stia parlando. Alla fine mi fa “password? no password” e io me ne vado anche più incazzata di prima. Mi rimetto a letto e vedo che in effetti il wi-fi va che è una meraviglia. Faccio clic e mentre comincio a mangiare mi metto a scrivere a Serena.
Ora, sarebbe lungo spiegarvi il turbinio di emozioni che mi attraversano, i ripensamenti, le riflessioni eccetera eccetera. Per comprendere perché faccio una cosa del genere accontentatevi di una spiegazione semplice: le scrivo perché ho bisogno di scriverle, punto.
E tanto per cominciare, le racconto come è davvero andata la notte precedente. A partire dal pompino fatto al suo amico, a quell’idiota del palestrato, mentre eravamo ancora alla disco. E poi il seguito, altro che prendere un taxi e andare a casa. Glielo racconto così come lo racconto a voi. Certo, in forma meno “narrativa” e con meno particolari, ma non certo in modo puritano. Semmai, alcune cose decido di dirgliele e altre no. Non mi chiedete il perché, non lo so nemmeno io.
Per esempio le scrivo che ho fatto un pompino a Michele il bello mentre guidava e che dei ragazzi ci hanno visto da una macchina accanto alla nostra e “immàginateli da sola i commenti, amica mia”. E che poi Michele mi ha scopata su un tavolo mentre il palestrato ci guardava menandoselo. E che non mi sono mai sentita così tanto una nullità oscena e indecente come mentre stavo a quattrozampe, nell'attesa ansimante dei loro cazzi. Aspettando a fauci spalancate e con la lingua di fuori che Enrico me lo mettesse in bocca e che Michele mi possedesse da dietro. E’ sulle sensazioni di quell’attesa che mi concentro. Sensazioni che immagino conoscerà anche lei. Stare lì mentre il Lui di turno si sistema alle tue spalle lo indirizza, lo struscia, poi ti afferra per le anche e spinge. Oppure che il maschio tra le cui gambe tieni la testa smetta di menarselo e te lo offra, concedendoti l’alto onore di succhiarglielo. Quello che (forse) non conosce è cosa succede quando queste due sensazioni viaggiano insieme, si mescolano, si intrecciano indissolubilmente. Come ognuna amplifichi l’altra. Non so se conosce la compresenza dell’odore di sesso, del sapore di cazzo, di una mano che ti prende la testa mentre altre due mani ti stringono le natiche e la carne dura ti infilza. Il respiro affannoso, i ritmi impossibili da conciliare, i gemiti e gli insulti, la voglia, il piacere e la paura. Quasi il terrore. Tutto mischiato insieme, tutto inestricabile.
Sì, anche il terrore. Anche se non le dico che in quella posizione, davanti alla poltrona dove quel palestrato mi aspettava con il cazzo in mano, ci sono stata trascinata quasi di forza, nonostante i miei “no, non voglio” e i miei piagnistei. E nemmeno che Michele ha preso un cuscino e si è inginocchiato dietro di me prima di ricominciare a fottermi (io evidentemente potevo anche restare a spaccarmi le ginocchia sul pavimento, eh?).
No, non volevo, non l’avevo mai fatto prima. E non le dico neppure che il palestrato che si teneva il cazzo in mano mi scherniva con la voce da strafatto dicendomi "a te nun te basta mai, eh biondì?" con il tono di chi ti vuole umiliare e farti capire che, se mai tu avessi una qualità, è solo quella di farti chiavare da chiunque. Non glielo dico perché mi prenderebbe per matta, ma anche perché non saprei come spiegarle che io in realtà, dopo avere scosso la testa fissando il suo arnese eretto e duro, avrei voluto rispondergli "no, non mi basta mai" per il semplice piacere di farla mia quell'umiliazione, di dirgli che sì, è vero, sono buona solo a prendere cazzi. E se non ce l’ho fatta, se non ne ho avuto il tempo, è solo perché al posto delle parole ho cacciato l'ennesimo urlo dopo che la carne bollente di Michele è entrata di colpo nella mia, squarciandola come un coltello. Non saprei nemmeno come spiegare a Serena quell’indecifrabile sentimento, fatto ancora una volta terrore e di desiderio, che mi è preso quando ho sentito quello che mi scopava dire all’amico “daje, che dopo te la fai pure te, con questa zoccola stanotte ci divertiamo...”.
Le chiedo però se anche a lei non sia mai capitata una cosa del genere, se non abbia mai sentito la voglia, quasi il bisogno, di ridursi così. “Di annullare la tua personalità – le scrivo – per portarla sotto al livello di due deficienti che quasi non ne hanno. Sì amica mia, perché anche se tu dici di no, il tuo amico Enrico, il palestrato che guida il bus, avrà anche un fisico magnifico e un bel cazzo, ma è proprio uno zero cerebrale. E il suo amico è anche peggio, forse appena meno cretino, ma un pusillanime, un succube della vita. Sono tutti e due succubi delle loro vite, a dire il vero. E io mi sono abbassata a essere a mia volta succube delle loro voglie. Perché? Ti è mai successo? Ne hai almeno una volta avuto il desiderio?”.
“E’ buffo – le scrivo ancora – ma adesso che ci penso mi piacerebbe proprio sapere cosa pensavano di me, se mi vedevano come una ragazzina con il corpo ed il viso da adolescente, magari un po’ troia, anzi parecchio, affascinata dai loro corpi e dalle loro menti. Oppure se in quel momento erano così accecati di desiderio da non vedere altro che una fregna, un culo, una bocca spalancata. Perché in realtà era proprio così che mi sentivo io, Serena: una fregna, un culo, una bocca spalancata. Così come è buffo che in quel momento l’unica cosa su cui riuscissi davvero a concentrarmi era il fatto che io stessi lì, a quattrozampe, completamente nuda con indosso solo la bralette, hai presente quella sportiva di Subdued? Michele non aveva voluto che me la togliessi perché così faceva più mignotta, e io non potevo smettere di pensare a quella parola: mignotta, anzi più mignotta”.
A Serena dico anche che per un tempo che non saprei definire (una mezzora? di più? non lo so, non è che sto lì con il cronometro quando mi scopano, l’ho già detto) ma insomma sicuramente un bel po’ di tempo, sono stata la loro vacca. Michele aveva sempre il cazzo inverosimilmente in tiro ma non riusciva a venire. Mi insultava, mi diceva che non ero nemmeno capace di farlo sborrare come si deve, mi colpiva le natiche con schiaffi sempre più forti e mi faceva un male da morire, avevo le lacrime agli occhi per quanto mi bruciava. Eppure, ogni colpo mi piaceva, mi piaceva tantissimo. Devo avere qualcosa di sbagliato.
Enrico invece mi schiaffeggiava a colpi di cazzo. Questo a Serena glielo scrivo proprio così come lo scrivo per voi. Anzi, le scrivo: “Il tuo amico mi schiaffeggiava a colpi di cazzo e, onestamente, sarà anche un idiota patentato ma da quel punto di vista non gli si può dire niente”. Certo, non le riporto proprio tutta la conversazione, se così la vogliamo chiamare. Non le dico che mi ringhiava "dillo che sei una troia, dillo...", e che io glielo sussurravo "sono una troia...". Ma non perché mi vergognassi a parlare ad alta voce, ma perché proprio non ce la facevo. "Come? Non ho capito!", mi incalzava lui sprezzante e infilandomelo in bocca. E il cielo sa con quale sforza abbia dovuto recuperare un po' di forze e di volontà per smettere di succhiare e gridargli "sono una troia, SONO UNA PUTTANA!", e che mentre lo facevo non riuscivo a smettere di guardare il suo cazzo, la sua cappella grossa e lucida. Non riuscivo a smettere di provare a riprenderlo con la bocca.
Questo no, dicevo, questo a Serena non glielo scrivo. Anche se non riesco a capire il senso delle mie omissioni. Scrivo random, mettendo nero su bianco ciò che in questo momento mi sembra importante. Di sicuro non scelgo in base a canoni di decenza, perché la decenza in quella stanza non si è proprio fatta vedere.
Le confesso però che ben presto, accanto al dolore delle sculacciate, se ne sono affiancati altri. I capelli, per prima cosa. Uno che li tirava come se fossero le briglie di una cavalla, l’altro che me li stringeva per manifestarmi il suo predominio mentre glielo succhiavo. Mi facevano male quando mi tiravano i capelli. Mi facevano male e mi piaceva. E le confesso anche che ho sinceramente, davvero, ammirato la resistenza di Michele. Non quella del suo cazzo, voglio proprio dire la sua resistenza atletica, muscolare. Non smetteva mai, mai! Mi riempiva e la fica a un certo punto mi bruciava da morire. Avrei voluto che smettesse subito per quanto mi bruciava e allo stesso tempo avrei voluto che non smettesse mai per quanto mi riempiva. Ero passata attraverso una sequenza di orgasmi da ammazzare chiunque e dopo un po’ mi era sembrato di essere fatta per questo. E anche di essere fatta per mettermi a piangere e implorare “basta!” perché mi faceva male la fica. C’è stato un momento in cui non ce la facevo più, ero assolutamente convinta di non farcela più, era impossibile. Il cazzo di Enrico in bocca, la bava, il respiro che mancava, i conati di vomito. E Michele alle mie spalle che per un tempo infinito andava avanti. Sdeng sdeng sdeng sdeng... Faceva male anche a lui, lo so, lo capivo, eppure continuava imprecando e insultandomi. Il marasma totale, la disarmonia. Non erano coordinati. Ogni spinta nella mia vagina corrispondeva a un mio movimento scomposto e la stretta ai capelli mi provoca sempre più dolore. Mi lamentavo per gli strappi e gemevo per le botte di cazzo, alternavo i miei "no" e i miei "sì, i miei "mi fate male così", i miei "oddio sì fottimi così" senza che a loro gliene fregasse nulla. E in tutto questo, assurdamente, ogni volta che il pisello del palestrato mi sgusciava fuori dalla bocca tiravo fuori la lingua per cercare di toccarne almeno la punta. Se fossi riuscita a guardarmi in terza persona, dal di fuori, mi sarei vergognata. Non tanto per la oscenità del quadro di cui ero il centro, ma per la figura da zoccoletta idiota e umiliata, alla mercé di questi due che, in una situazione normale, non sarebbero nemmeno degni di chiedermi l'indicazione di una strada.
“Ma sai una cosa, Serena? Non me ne fregava un cazzo. Anzi mi piaceva, mi stava benissimo così. Mi sentivo la più puttana delle puttane di tutto l'universo”. Una puttana alla mercé di due minus habens buoni solo a fottere, alla mercé delle loro insolenze e delle loro incitazioni reciproche: “dai, spaccale il culo”, “ti prego, no!”, “adesso glielo sfondo!”, “no ti prego! fammi venire!”. Insolenze e minacce che non hanno avuto seguito, credo, solo perché Michele a un certo punto è arrivato alla fine senza potere più tornare indietro,
afferrandomi più saldamente per le anche e dando una serie di spinte così veloci che non pensavo fosse possibile. E’ venuto gridando così come anche io ho accolto con un urlo l'invasione calda della sua sborra. Ma avevo bisogno di venire anche io e non volevo che si fermasse. Mi sentivo come se il mio orgasmo stesse cercando di scalare, senza riuscirci, una montagna. Avevo bisogno che lui mi aiutasse a trascinarlo su, fino alla cima. Ero disperata, sconnessa. Gli urlavo "non fermarti, stronzo impotente, fottimi non fermarti!". Cosa che, in quel momento, mi sembrava la cosa giusta da dire, ma a ripensarci adesso che scrivo be', sinceramente, la parola "impotente" potevo pure risparmiarmela. Ma ve l'ho detto, ero disperata. Enrico mi afferrava per i capelli con più cattiveria di prima e mi faceva ancora più male, si segava sempre più velocemente. Michele mi gridava "troia" per l'ennesima volta, ma si vede che il mio insulto aveva fatto effetto perché continuava a pomparmi come un forsennato. Io gridavo e basta, gridavo per il dolore e per le pompate che mi arrivavano da dietro. Gridavo e lo sentivo arrivare. Arriva, arriva, fortissimo. Ho tremato, scossa come un’epilettica. Ho tremato e l’ultima cosa che sono riuscita a percepire è stato il primo spruzzo di Enrico che si stendeva sul mio viso.
E infine sì, confesso anche a Serena che la mattina mi sono svegliata nel letto di Enrico con lui che mi scopava. Io a pancia in sotto e lui sopra. Che poi, se ve lo ricordate, era l’inizio di un paio di capitoli fa. Ecco, adesso lo sapete come sono finita su quel letto. Cioè, lo sapete più o meno come lo so io. Perché io, in realtà, non ricordo di essermici stesa mai, su quel letto. Dovevo essere svenuta o giù di lì. Per poi risvegliarmi all’alba e sentire lui che mi chiavava dicendomi che avevo la fica fradicia come quella di una puttana. Cioè, è vero, io potevo anche essere ancora particolarmente rincoglionita dal sonno, ok. Ma a me sinceramente non sembra tanto strano che se uno mi tocca la fica mentre dormo mi bagno come una fontana, e che cazzo. Sapessi quante volte mi ci sono svegliata con la mano dentro il pigiama e il cavallo dei pantaloni completamente zuppo. Dai, siamo seri, è normale, succede. Non è che questo faccia di me una puttana. Ciò che in quel momento faceva di me una puttana era quello che mi stavo lasciando fare, piuttosto. Era il mio piagnucolante “oh dai, continua” implorato dopo essermi ripresa dallo stupore e dallo spavento, dopo avere capito che era Enrico a fottermi con il suo più che discreto arnese. Era il mio “oh sì” sospirato dopo che lui mi aveva detto “ti piace, eh? ti piace tanto il cazzo” ma più con il tono della constatazione che con quello della domanda”. Ecco, questo faceva di me una puttana.
“Il tuo amico idiota – scrivo - ha un cazzo duro, più grosso di quello del suo amico. Una cazzo caldo, pieno. Mi piaceva. Decisamente mi piaceva. Anche troppo, vista la situazione. In quegli istanti sì che ero sveglia e mi godevo il piacere. Forte, molto forte, sempre più intenso. Stesa su un letto, a pancia in sotto e a gambe larghe. Ansimavo e piagnucolavo godendomi quel tocco di carne che mi riempiva e mi svuotava. Ne ero ingorda. Lui mi ansimava dietro che mi piaceva perché sono una puttana e io lo imploravo di non smettere, di fare più forte. Mi chiedeva se mi fossi illusa che mi potesse scopare solo il bel Michele e io come una troia gli rispondevo di sfondarmi perché lui ce l’ha anche più grosso. Obiettivamente, amica mia, quali altre parole possono compiacere di più un cretino conclamato come lui? Ma se proprio devo dirti la verità non è per questo che lo supplicavo. Era perché in quel momento lo volevo tutto dentro, volevo solo sentire le sue botte di cazzo. Volevo, letteralmente, che mi facesse male. Che mi facesse strillare, mi facesse sentire una troia inutile, ancora più inutile di lui. Volevo essere giustiziata sopra quel letto. Non lo guardavo nemmeno in faccia quel coglione, a quel punto non era nemmeno importante che fosse lui o un altro. Sentivo solo i suoi muscoli d’acciaio sopra di me e la sua bestia dentro di me. Quando si è gonfiato ancora e mi è esploso nel corpo, io boccheggiavo ancora dopo gli strepiti del mio orgasmo”.
“Solo una cosa, Serena, una cosa importante. Non voglio rivederlo più, capito? Se mai ti dovesse chiedere il mio numero non glielo dare, inventati una balla, digli che ci siamo conosciute ieri sera e che abbiamo litigato subito dopo, che cazzo ne so. Ma non gli dare modo di cercarmi”.
Se le scrivo questo, in realtà, un motivo c’è. E non è solo quello che io, con questo deficiente, non voglio avere più nulla a che fare. Ce n’è un altro, che a Serena non dico ma che a voi voglio raccontare prima di continuare la lettera alla mia amica.
E’ un motivo che riconduce al video, ricordate? Il video che aveva fatto mentre gli facevo un pompino in mezzo alle siepi e che mi ero illusa di avere cancellato dal suo telefono. Be’, a pensarci mi viene da ridere, ma la scena è andata esattamente così.
L’avevo sentito sollevarsi, smettere di schiacciarmi, dirigersi in bagno, aprire l’acqua della doccia. Stavo ancora ansimando. Un caldo fiotto di sperma mi colava fuori, mi scendeva a rivoli. Mi sono alzata e ho visto la macchia sul lenzuolo. Improvvisamente ho avuto il primo momento di lucidità da diverse ore a quella parte. Ce l'ho avuto perché volevo sapere l’ora e ho pensato all’iPhone nella mia borsa. Il collegamento con il suo telefono e con il video è stato immediato, mi sono messa a cercarlo freneticamente. L’ho trovato all'ingresso, ho fatto sparire il video del pompino, stavolta per sempre.
Secondo lampo di lucidità: uno specchio e il lavello della cucina per darmi almeno una sciacquata. Non dico che fossi presentabile ma a volte si fa quel che si può. Ho infilato le mutandine e mentre finivo di agganciare la salopette Enrico è uscito dal bagno, nudo e ancora umido. L’ho guardato e una tranquillità anche esagerata mi è calata improvvisamente addosso.
- Io andrei - gli ho fatto in tono neutro.
- Lasciami il tuo numero – ha ribattuto.
- Perché?
- Perché quando ho voglia di scoparti ti chiamo, scema.
- Cosa ti fa pensare che io possa essere la tua puttana, scusa?
- Perché sei una puttana, e ti piace il cazzo - mi ha risposto arrogante.
- Ok, mi piace il cazzo – ho replicato in modo assolutamente zen - e tu hai pure un bel cazzo, lo riconosco. Ma questo non significa niente. Dammi retta, pensa a guidare gli autobus e cerca di non andare a sbattere.
Detto questo, ho ripreso in mano il suo telefono e... beh, ricordate che sopra un mobile all’ingresso c’era un piccolo acquario con un unico, illogico, pesce colorato? Ecco, il suo prezioso Samsung Galaxy S9 è finito lì dentro. Ovviamente, un attimo dopo ho aperto la porta, sono uscita sul pianerottolo, l’ho richiusa rumorosamente alle mie spalle e ho iniziato a correre giù per le scale. Giù giù giù fino in strada. Volevo proprio vedere se mi rincorreva nudo come un verme. Non avevo idea di dove fossi, non sapevo come cazzo avrei fatto a tornare a casa. Ero in hangover da alcol, da hashish e da cazzo. Ma mentre correvo, verso nemmeno io sapevo dove, mi è venuto da ridere come una matta.
Ecco perché non voglio che quell’idiota mi rivenga attorno. Sarebbe capace di menarmi e di farsi ripagare il cellulare.
“Non so se tu abbia mai fatto una cosa del genere – riprendo a scrivere a Serena, aggiungendo l’ultimo tocco di mignottaggine - ma per la prima volta in vita mia ho fatto la troia con due maschi contemporaneamente, ho goduto a raffica e ho anche salvato il culo. Direi che ci posso stare, ahahahahah”.
Rileggo e salvo quello che ho scritto sin qui alla mia amica. E poi ci penso un po’ prima di continuare a scrivere. Perché potrei gettare tutto nel cestino. O, volendo, completare la mia confessione. Solo che l’atto che sto compiendo non è una cosa che si può volere o non volere. E’ una cosa di cui si ha o non si ha bisogno. E io ne ho bisogno.
“Cara Serena, a questo punto ti chiederai perché ti ho messa a parte delle mie avventure porno. Bene, i motivi sono due. Il primo è che volevo farti bagnare, troia :-) Il secondo è che tutto questo è successo per colpa tua. No, ok, non è vero. Tranquilla. Non è che tutto questo è successo perché tu mi hai mollata per andare a scopare. Mettiamola così: se fosse stato per te (e per me) tutto questo poteva non accadere, poteva accadere altro. Sì, va bene, lo so che non ci stai capendo un cazzo. Nemmeno io ci sto capendo un cazzo, sono un po’ confusa. E un po’ mi vergogno pure. E’ strano, se ci pensi, dovrei vergognarmi per quello che ti ho raccontato finora e invece non me ne frega un cazzo. Mi vergogno invece di quello che sto per dirti. Aspetta un attimo che prendo un bel respiro, prendilo pure tu”.
E poi le scrivo tutto quello che ho detto a voi. Proprio tutto, eh? Dalla voglia che mi si è scatenata dentro quando ci siamo abbracciate tutt’e due sudate in discoteca, a di essere con lei mentre stava a letto con quel ragazzo. Di farla mia dopo che era stata sua. Del bacio furioso che le avrei voluto dare quando ci siamo lasciate davanti al terminal. “Uno di quei baci – le scrivo – da far voltare la gente, farla dare di gomito e dire guarda là quelle due lesbiche”. E aggiungo, anche se non so lei come la pensi, che a me di essere o non essere considerata puttana, lesbica, bisex o quel che è non mi interessa.
“Scusa, forse ti ho choccata, ma avevo bisogno di dirtelo. Annalisa”. Ecco la mia firma.
Rileggo un’altra volta tutto, fino in fondo. Indugio nemmeno so io quanto sul pulsante dell’invio. Chiudo gli occhi e faccio clic. E’ andata, succeda quel che succeda.
Spengo il laptop e mi tolgo il vestito. Vado in bagno a lavarmi i denti. Sì, ok, mi sono anche eccitata a scrivere queste cose. Non ho bisogno di vedere nello specchio i miei capezzoli eretti per capire che lo sono. Me lo sento addosso. Nonostante il viso stanco mi piaccio. Mi passo le mani sui seni, poi ne lascio scendere giù una. Non pensavo di essere così bagnata. Cioè, ci avrei scommesso che lo fossi, è da quando sono piccola che mi bagno tanto. Ma non credevo di essermi ridotta così stasera. Un po’ sorpresa, lascio scivolare dentro un dito e per un attimo perdo il contatto visivo nello specchio, gli occhi mi si sono chiusi spontaneamente. Lo tiro fuori, alzo la mano e la porto verso la luce. Guardo la patina umidiccia che ricopre i polpastrelli del medio e dell’anulare, la goccia bianca e traslucida che scende fino all’inizio della falange. La succhio. Mi piace il mio sapore, mi è sempre piaciuto sin dalla prima volta che l’ho assaggiato e che pensavo mi avrebbe fatto schifo. E’ un po’ più forte del solito, penso che forse mi stanno arrivando le mie cose. Lo rifaccio un’altra volta: mi infilo dentro il dito e poi lo succhio. Stavolta cerco di immaginare che sia il succo del desiderio di Serena. Chissà com’è nella realtà. Non ho molta voglia di masturbarmi. O meglio, ho voglia di masturbarmi ma non fino a venire. Non penso nemmeno che ce la farei dopo la macelleria di ieri sera. E in fin dei conti questa mattina all’alba, appena quindici ore fa, giacevo prona su un letto a farmi sbattere da quella merda del palestrato autista di bus. E poi sono troppo stanca, anzi stanca è dire poco. Trattengo un attimo il fiato e me ne spingo due dentro, di dita. Ho un sussulto, un brivido lunghissimo, le gambe mi cedono un po’. Devo appoggiarmi allo stipite della porta per uscire dal bagno. Per fortuna il letto è a non più di tre passi, mi ci lascio cadere sopra e per l’ultima volta lecco e succhio le mie dita. Vorrei che Serena leggesse subito la mail, ma so che le controlla solo di tanto in tanto. Vorrei che fosse qui e che si adagiasse sopra di me schiacciandosi le tette contro la mia schiena. Vorrei che mi augurasse la buonanotte così.
Mi sono svegliata mezz’ora prima che Serena passasse a prendermi a mezzogiorno. Mi sono vestita comoda, decente. Con dei bermuda di jeans e una maglietta, le adidas. Ho fatto appena in tempo a farmi la doccia e a truccarmi giusto un po’ per tentare di nascondere i segni dello sfacelo dal mio bel visino. Non devo esserci riuscita molto bene perché appena mi ha vista così, e con i capelli ancora bagnati (e che inevitabilmente prenderanno la loro naturale forma ondulata ma sticazzi), Serena mi ha chiesto cosa mi fosse successo. Le ho risposto nulla, che avevo seguito il suo consiglio ed ero tornata a casa in taxi subito dopo che ci eravamo lasciate in discoteca, che avevo dormito poco e male per la stanchezza, l’emozione del viaggio, il caldo. Piuttosto, le ho anche detto che le sue di occhiaie sembravano proprio essere il segno di una nottata passata in modo decisamente più divertente. Poi ho cambiato discorso e le ho chiesto se avesse sentito Giovanna, che era sparita prima di tutte dalla discoteca. “Sì, ci siamo smessaggiate”, è stata la risposta. Sempre un po’ troppo laconica quando parla di lei.
Non so perché non le ho raccontato come avevo davvero passato la notte, eppure ne avevo una voglia incredibile. Forse un po’ mi vergognavo. Forse perché avrei dovuto anche dirle l’attrazione fortissima che avevo provato a un certo punto per lei e che in quel momento l’unica cosa che avrei davvero voluto era quella di adagiarla su un letto e stendermi sopra il suo corpo.
Tra l’altro, anche Serena aveva una insopprimibile voglia di raccontare e, contrariamente alla sottoscritta, l’ha fatto. Senza peraltro risparmiarsi una bella dose di particolari. A cominciare dalla faccia che aveva fatto il ragazzo che l’aveva rimorchiata quando, dopo averle calato i pantaloni di cotone leggerissimo, si era reso conto che lei sotto non aveva nulla. “Me ne ero accorta anche io mentre eravamo lì, troia”, le ho detto ridendo. “Mi sono seduta su una poltrona, ho allargato le gambe e me l’ha leccata subito, bene. E quando dico bene intendo proprio bene-bene”, ha continuato senza badare alle mie parole. Quando me l’ha detto ho avvertito una piccola contrazione e il desiderio fortissimo, anche se stava guidando, di baciarla prima e di tirarle fuori una tetta dalla canotta e iniziare a succhiargliela poi. Desiderio che ho ovviamente represso all’istante. Tuttavia non è stato facilissimo starla ad ascoltare, di lei e di questo ragazzo instancabile anche se privo di molta fantasia. “Tant’è vero che un po’ di fantasia ho dovuto mettercela io...”, ha aggiunto. “Cioè?”. “Cioè pare che nessuna prima di stamattina lo avesse svegliato all’alba con un pompino, parole sue....”, mi ha risposto ridendo. “C’è troppa sciatteria tra le ragazze, oggi”, ho commentato scherzandoci sopra, più che altro per dissimulare la mia agitazione.
Insomma, quando ha fermato la macchina davanti al terminal e siamo scese per tirare fuori la valigia dal portabagagli non avrei proprio potuto dire di essere calma. Ci siamo date due bacetti e siamo rimaste a guardarci così per tre o quattro secondi. Mi sono anche detta in quel momento “adesso o mai più”, pensando al mio desiderio di afferrarle il viso tra le mani e infilarle furiosamente la lingua in bocca. Evidentemente è “mai più”, visto che non l’ho fatto. Però l’ho stretta forte, come a voler sublimare la mia voglia con quell’abbraccio, e le ho sussurrato “mi faccio sentire quando arrivo, tu fammi sapere come va con il tuo lavoro”. Domani partirà per un villaggio vacanze nel sud della Sardegna, dove passerà le prossime settimane a fare fotografie sulla spiaggia a bambini e bambine sorridenti e a rivenderle ai genitori la sera. Non che sia proprio una fotografa ma tanto, dice lei, con le reflex automatiche e un buon programma di editing digitale oggi si fa tutto.
Quando arrivo di fronte alla casa in cui mio padre mi ha affittato una stanza mi fermo un attimo a riprendere fiato e a guardarla. Il quartiere è molto carino e tranquillo, le strade non sono larghe e le case sono proprio come quelle che una si immagina quando pensa all’Inghilterra. Alte al massimo tre piani, strette, con tre o quattro gradini che salgono al portone e un’altra decina che scendono giù al basement, che qualcuno ha trasformato in un’altra stanza o in un piccolo appartamento, a giudicare dalle graziose tendine alle finestre. E’ una specie di bed &breakfast ma, da quanto ho capito, senza breakfast, nel senso che ci dovrò pensare da sola. Suono al citofono e sento lo scatto della serratura, entro in un lungo corridoio. A destra, sotto la scala che porta ai piani superiori, c’è una stanzetta con un tipo. Un indiano, pakistano, afgano, cazzo ne so io. Di quelle parti lì, comunque. Gli do il voucher e i documenti, lui mi dà le chiavi e mi porta su a vedere la stanza. E’ proprio la prima davanti alla rampa, per fortuna. Il pakistano o quel che è infatti col cazzo che si offre di portarmi su il trolley e io faccio una fatica bestiale.
La stanza, devo dire, è enorme. Con un letto a due piazze in fondo, un acquaio e un tavolo in un angolo, un certo odore di moquette vecchia. Lascio che l’uomo esca, chiudo bene la porta e apro un po’ le finestre. Ho voglia di una doccia. Vado in bagno e smadonno perché la doccia, in effetti, è la cosa più bella della stanza, larga e in muratura, non un box del cazzo. Solo che manca tutto, ci sono solo gli asciugamani e io con me non ho portato nulla. Mi viene in mente che per strada ho visto un mega supermercato che disterà da qui due o trecento metri. Decido di fare un ultimo, sovrumano, sforzo e mi rimetto le Stan Smith senza nemmeno i fantasmini e vado a comprare shampoo, balsamo e docciaschiuma. Più del Nescafè e un mug con le facce di Harry e Meghan stampate sopra. Prima di andare alla cassa mi ricordo che è da ieri sera che non mangio e che inizio a sentirmi addosso i sintomi della fame più nera. Compro dei club sandwich in un vassoietto sigillato e mi dico che basta così. Poi penso invece che non basta così proprio per niente e prendo un’insalata con il pesce, di quelle già pronte con tanto di forchettina di plastica, una birra già fredda e dell’acqua.
Esco dalla doccia avvolta in un asciugamano e mi stendo sul letto dopo avere preso il mio laptop. Lo accendo e mentre aspetto che parta chiamo i miei. Faccio un video della stanza e lo mando a loro e alle mie amiche con scritto sotto “baci da Londra”. Lo metto anche su Instagram. Poi apro le mail e smadonno un’altra volta perché mi rendo conto solo in questo momento di non avere chiesto la password del wi-fi. Mi infilo un vestito lungo e scendo di sotto dallo stronzo che mi guarda e fa una faccia da imbecille quando gli chiedo la password. Non è che sappia benissimo inglese, lui, ma cazzo non è così difficile. Sembra proprio che non capisca di cosa io stia parlando. Alla fine mi fa “password? no password” e io me ne vado anche più incazzata di prima. Mi rimetto a letto e vedo che in effetti il wi-fi va che è una meraviglia. Faccio clic e mentre comincio a mangiare mi metto a scrivere a Serena.
Ora, sarebbe lungo spiegarvi il turbinio di emozioni che mi attraversano, i ripensamenti, le riflessioni eccetera eccetera. Per comprendere perché faccio una cosa del genere accontentatevi di una spiegazione semplice: le scrivo perché ho bisogno di scriverle, punto.
E tanto per cominciare, le racconto come è davvero andata la notte precedente. A partire dal pompino fatto al suo amico, a quell’idiota del palestrato, mentre eravamo ancora alla disco. E poi il seguito, altro che prendere un taxi e andare a casa. Glielo racconto così come lo racconto a voi. Certo, in forma meno “narrativa” e con meno particolari, ma non certo in modo puritano. Semmai, alcune cose decido di dirgliele e altre no. Non mi chiedete il perché, non lo so nemmeno io.
Per esempio le scrivo che ho fatto un pompino a Michele il bello mentre guidava e che dei ragazzi ci hanno visto da una macchina accanto alla nostra e “immàginateli da sola i commenti, amica mia”. E che poi Michele mi ha scopata su un tavolo mentre il palestrato ci guardava menandoselo. E che non mi sono mai sentita così tanto una nullità oscena e indecente come mentre stavo a quattrozampe, nell'attesa ansimante dei loro cazzi. Aspettando a fauci spalancate e con la lingua di fuori che Enrico me lo mettesse in bocca e che Michele mi possedesse da dietro. E’ sulle sensazioni di quell’attesa che mi concentro. Sensazioni che immagino conoscerà anche lei. Stare lì mentre il Lui di turno si sistema alle tue spalle lo indirizza, lo struscia, poi ti afferra per le anche e spinge. Oppure che il maschio tra le cui gambe tieni la testa smetta di menarselo e te lo offra, concedendoti l’alto onore di succhiarglielo. Quello che (forse) non conosce è cosa succede quando queste due sensazioni viaggiano insieme, si mescolano, si intrecciano indissolubilmente. Come ognuna amplifichi l’altra. Non so se conosce la compresenza dell’odore di sesso, del sapore di cazzo, di una mano che ti prende la testa mentre altre due mani ti stringono le natiche e la carne dura ti infilza. Il respiro affannoso, i ritmi impossibili da conciliare, i gemiti e gli insulti, la voglia, il piacere e la paura. Quasi il terrore. Tutto mischiato insieme, tutto inestricabile.
Sì, anche il terrore. Anche se non le dico che in quella posizione, davanti alla poltrona dove quel palestrato mi aspettava con il cazzo in mano, ci sono stata trascinata quasi di forza, nonostante i miei “no, non voglio” e i miei piagnistei. E nemmeno che Michele ha preso un cuscino e si è inginocchiato dietro di me prima di ricominciare a fottermi (io evidentemente potevo anche restare a spaccarmi le ginocchia sul pavimento, eh?).
No, non volevo, non l’avevo mai fatto prima. E non le dico neppure che il palestrato che si teneva il cazzo in mano mi scherniva con la voce da strafatto dicendomi "a te nun te basta mai, eh biondì?" con il tono di chi ti vuole umiliare e farti capire che, se mai tu avessi una qualità, è solo quella di farti chiavare da chiunque. Non glielo dico perché mi prenderebbe per matta, ma anche perché non saprei come spiegarle che io in realtà, dopo avere scosso la testa fissando il suo arnese eretto e duro, avrei voluto rispondergli "no, non mi basta mai" per il semplice piacere di farla mia quell'umiliazione, di dirgli che sì, è vero, sono buona solo a prendere cazzi. E se non ce l’ho fatta, se non ne ho avuto il tempo, è solo perché al posto delle parole ho cacciato l'ennesimo urlo dopo che la carne bollente di Michele è entrata di colpo nella mia, squarciandola come un coltello. Non saprei nemmeno come spiegare a Serena quell’indecifrabile sentimento, fatto ancora una volta terrore e di desiderio, che mi è preso quando ho sentito quello che mi scopava dire all’amico “daje, che dopo te la fai pure te, con questa zoccola stanotte ci divertiamo...”.
Le chiedo però se anche a lei non sia mai capitata una cosa del genere, se non abbia mai sentito la voglia, quasi il bisogno, di ridursi così. “Di annullare la tua personalità – le scrivo – per portarla sotto al livello di due deficienti che quasi non ne hanno. Sì amica mia, perché anche se tu dici di no, il tuo amico Enrico, il palestrato che guida il bus, avrà anche un fisico magnifico e un bel cazzo, ma è proprio uno zero cerebrale. E il suo amico è anche peggio, forse appena meno cretino, ma un pusillanime, un succube della vita. Sono tutti e due succubi delle loro vite, a dire il vero. E io mi sono abbassata a essere a mia volta succube delle loro voglie. Perché? Ti è mai successo? Ne hai almeno una volta avuto il desiderio?”.
“E’ buffo – le scrivo ancora – ma adesso che ci penso mi piacerebbe proprio sapere cosa pensavano di me, se mi vedevano come una ragazzina con il corpo ed il viso da adolescente, magari un po’ troia, anzi parecchio, affascinata dai loro corpi e dalle loro menti. Oppure se in quel momento erano così accecati di desiderio da non vedere altro che una fregna, un culo, una bocca spalancata. Perché in realtà era proprio così che mi sentivo io, Serena: una fregna, un culo, una bocca spalancata. Così come è buffo che in quel momento l’unica cosa su cui riuscissi davvero a concentrarmi era il fatto che io stessi lì, a quattrozampe, completamente nuda con indosso solo la bralette, hai presente quella sportiva di Subdued? Michele non aveva voluto che me la togliessi perché così faceva più mignotta, e io non potevo smettere di pensare a quella parola: mignotta, anzi più mignotta”.
A Serena dico anche che per un tempo che non saprei definire (una mezzora? di più? non lo so, non è che sto lì con il cronometro quando mi scopano, l’ho già detto) ma insomma sicuramente un bel po’ di tempo, sono stata la loro vacca. Michele aveva sempre il cazzo inverosimilmente in tiro ma non riusciva a venire. Mi insultava, mi diceva che non ero nemmeno capace di farlo sborrare come si deve, mi colpiva le natiche con schiaffi sempre più forti e mi faceva un male da morire, avevo le lacrime agli occhi per quanto mi bruciava. Eppure, ogni colpo mi piaceva, mi piaceva tantissimo. Devo avere qualcosa di sbagliato.
Enrico invece mi schiaffeggiava a colpi di cazzo. Questo a Serena glielo scrivo proprio così come lo scrivo per voi. Anzi, le scrivo: “Il tuo amico mi schiaffeggiava a colpi di cazzo e, onestamente, sarà anche un idiota patentato ma da quel punto di vista non gli si può dire niente”. Certo, non le riporto proprio tutta la conversazione, se così la vogliamo chiamare. Non le dico che mi ringhiava "dillo che sei una troia, dillo...", e che io glielo sussurravo "sono una troia...". Ma non perché mi vergognassi a parlare ad alta voce, ma perché proprio non ce la facevo. "Come? Non ho capito!", mi incalzava lui sprezzante e infilandomelo in bocca. E il cielo sa con quale sforza abbia dovuto recuperare un po' di forze e di volontà per smettere di succhiare e gridargli "sono una troia, SONO UNA PUTTANA!", e che mentre lo facevo non riuscivo a smettere di guardare il suo cazzo, la sua cappella grossa e lucida. Non riuscivo a smettere di provare a riprenderlo con la bocca.
Questo no, dicevo, questo a Serena non glielo scrivo. Anche se non riesco a capire il senso delle mie omissioni. Scrivo random, mettendo nero su bianco ciò che in questo momento mi sembra importante. Di sicuro non scelgo in base a canoni di decenza, perché la decenza in quella stanza non si è proprio fatta vedere.
Le confesso però che ben presto, accanto al dolore delle sculacciate, se ne sono affiancati altri. I capelli, per prima cosa. Uno che li tirava come se fossero le briglie di una cavalla, l’altro che me li stringeva per manifestarmi il suo predominio mentre glielo succhiavo. Mi facevano male quando mi tiravano i capelli. Mi facevano male e mi piaceva. E le confesso anche che ho sinceramente, davvero, ammirato la resistenza di Michele. Non quella del suo cazzo, voglio proprio dire la sua resistenza atletica, muscolare. Non smetteva mai, mai! Mi riempiva e la fica a un certo punto mi bruciava da morire. Avrei voluto che smettesse subito per quanto mi bruciava e allo stesso tempo avrei voluto che non smettesse mai per quanto mi riempiva. Ero passata attraverso una sequenza di orgasmi da ammazzare chiunque e dopo un po’ mi era sembrato di essere fatta per questo. E anche di essere fatta per mettermi a piangere e implorare “basta!” perché mi faceva male la fica. C’è stato un momento in cui non ce la facevo più, ero assolutamente convinta di non farcela più, era impossibile. Il cazzo di Enrico in bocca, la bava, il respiro che mancava, i conati di vomito. E Michele alle mie spalle che per un tempo infinito andava avanti. Sdeng sdeng sdeng sdeng... Faceva male anche a lui, lo so, lo capivo, eppure continuava imprecando e insultandomi. Il marasma totale, la disarmonia. Non erano coordinati. Ogni spinta nella mia vagina corrispondeva a un mio movimento scomposto e la stretta ai capelli mi provoca sempre più dolore. Mi lamentavo per gli strappi e gemevo per le botte di cazzo, alternavo i miei "no" e i miei "sì, i miei "mi fate male così", i miei "oddio sì fottimi così" senza che a loro gliene fregasse nulla. E in tutto questo, assurdamente, ogni volta che il pisello del palestrato mi sgusciava fuori dalla bocca tiravo fuori la lingua per cercare di toccarne almeno la punta. Se fossi riuscita a guardarmi in terza persona, dal di fuori, mi sarei vergognata. Non tanto per la oscenità del quadro di cui ero il centro, ma per la figura da zoccoletta idiota e umiliata, alla mercé di questi due che, in una situazione normale, non sarebbero nemmeno degni di chiedermi l'indicazione di una strada.
“Ma sai una cosa, Serena? Non me ne fregava un cazzo. Anzi mi piaceva, mi stava benissimo così. Mi sentivo la più puttana delle puttane di tutto l'universo”. Una puttana alla mercé di due minus habens buoni solo a fottere, alla mercé delle loro insolenze e delle loro incitazioni reciproche: “dai, spaccale il culo”, “ti prego, no!”, “adesso glielo sfondo!”, “no ti prego! fammi venire!”. Insolenze e minacce che non hanno avuto seguito, credo, solo perché Michele a un certo punto è arrivato alla fine senza potere più tornare indietro,
afferrandomi più saldamente per le anche e dando una serie di spinte così veloci che non pensavo fosse possibile. E’ venuto gridando così come anche io ho accolto con un urlo l'invasione calda della sua sborra. Ma avevo bisogno di venire anche io e non volevo che si fermasse. Mi sentivo come se il mio orgasmo stesse cercando di scalare, senza riuscirci, una montagna. Avevo bisogno che lui mi aiutasse a trascinarlo su, fino alla cima. Ero disperata, sconnessa. Gli urlavo "non fermarti, stronzo impotente, fottimi non fermarti!". Cosa che, in quel momento, mi sembrava la cosa giusta da dire, ma a ripensarci adesso che scrivo be', sinceramente, la parola "impotente" potevo pure risparmiarmela. Ma ve l'ho detto, ero disperata. Enrico mi afferrava per i capelli con più cattiveria di prima e mi faceva ancora più male, si segava sempre più velocemente. Michele mi gridava "troia" per l'ennesima volta, ma si vede che il mio insulto aveva fatto effetto perché continuava a pomparmi come un forsennato. Io gridavo e basta, gridavo per il dolore e per le pompate che mi arrivavano da dietro. Gridavo e lo sentivo arrivare. Arriva, arriva, fortissimo. Ho tremato, scossa come un’epilettica. Ho tremato e l’ultima cosa che sono riuscita a percepire è stato il primo spruzzo di Enrico che si stendeva sul mio viso.
E infine sì, confesso anche a Serena che la mattina mi sono svegliata nel letto di Enrico con lui che mi scopava. Io a pancia in sotto e lui sopra. Che poi, se ve lo ricordate, era l’inizio di un paio di capitoli fa. Ecco, adesso lo sapete come sono finita su quel letto. Cioè, lo sapete più o meno come lo so io. Perché io, in realtà, non ricordo di essermici stesa mai, su quel letto. Dovevo essere svenuta o giù di lì. Per poi risvegliarmi all’alba e sentire lui che mi chiavava dicendomi che avevo la fica fradicia come quella di una puttana. Cioè, è vero, io potevo anche essere ancora particolarmente rincoglionita dal sonno, ok. Ma a me sinceramente non sembra tanto strano che se uno mi tocca la fica mentre dormo mi bagno come una fontana, e che cazzo. Sapessi quante volte mi ci sono svegliata con la mano dentro il pigiama e il cavallo dei pantaloni completamente zuppo. Dai, siamo seri, è normale, succede. Non è che questo faccia di me una puttana. Ciò che in quel momento faceva di me una puttana era quello che mi stavo lasciando fare, piuttosto. Era il mio piagnucolante “oh dai, continua” implorato dopo essermi ripresa dallo stupore e dallo spavento, dopo avere capito che era Enrico a fottermi con il suo più che discreto arnese. Era il mio “oh sì” sospirato dopo che lui mi aveva detto “ti piace, eh? ti piace tanto il cazzo” ma più con il tono della constatazione che con quello della domanda”. Ecco, questo faceva di me una puttana.
“Il tuo amico idiota – scrivo - ha un cazzo duro, più grosso di quello del suo amico. Una cazzo caldo, pieno. Mi piaceva. Decisamente mi piaceva. Anche troppo, vista la situazione. In quegli istanti sì che ero sveglia e mi godevo il piacere. Forte, molto forte, sempre più intenso. Stesa su un letto, a pancia in sotto e a gambe larghe. Ansimavo e piagnucolavo godendomi quel tocco di carne che mi riempiva e mi svuotava. Ne ero ingorda. Lui mi ansimava dietro che mi piaceva perché sono una puttana e io lo imploravo di non smettere, di fare più forte. Mi chiedeva se mi fossi illusa che mi potesse scopare solo il bel Michele e io come una troia gli rispondevo di sfondarmi perché lui ce l’ha anche più grosso. Obiettivamente, amica mia, quali altre parole possono compiacere di più un cretino conclamato come lui? Ma se proprio devo dirti la verità non è per questo che lo supplicavo. Era perché in quel momento lo volevo tutto dentro, volevo solo sentire le sue botte di cazzo. Volevo, letteralmente, che mi facesse male. Che mi facesse strillare, mi facesse sentire una troia inutile, ancora più inutile di lui. Volevo essere giustiziata sopra quel letto. Non lo guardavo nemmeno in faccia quel coglione, a quel punto non era nemmeno importante che fosse lui o un altro. Sentivo solo i suoi muscoli d’acciaio sopra di me e la sua bestia dentro di me. Quando si è gonfiato ancora e mi è esploso nel corpo, io boccheggiavo ancora dopo gli strepiti del mio orgasmo”.
“Solo una cosa, Serena, una cosa importante. Non voglio rivederlo più, capito? Se mai ti dovesse chiedere il mio numero non glielo dare, inventati una balla, digli che ci siamo conosciute ieri sera e che abbiamo litigato subito dopo, che cazzo ne so. Ma non gli dare modo di cercarmi”.
Se le scrivo questo, in realtà, un motivo c’è. E non è solo quello che io, con questo deficiente, non voglio avere più nulla a che fare. Ce n’è un altro, che a Serena non dico ma che a voi voglio raccontare prima di continuare la lettera alla mia amica.
E’ un motivo che riconduce al video, ricordate? Il video che aveva fatto mentre gli facevo un pompino in mezzo alle siepi e che mi ero illusa di avere cancellato dal suo telefono. Be’, a pensarci mi viene da ridere, ma la scena è andata esattamente così.
L’avevo sentito sollevarsi, smettere di schiacciarmi, dirigersi in bagno, aprire l’acqua della doccia. Stavo ancora ansimando. Un caldo fiotto di sperma mi colava fuori, mi scendeva a rivoli. Mi sono alzata e ho visto la macchia sul lenzuolo. Improvvisamente ho avuto il primo momento di lucidità da diverse ore a quella parte. Ce l'ho avuto perché volevo sapere l’ora e ho pensato all’iPhone nella mia borsa. Il collegamento con il suo telefono e con il video è stato immediato, mi sono messa a cercarlo freneticamente. L’ho trovato all'ingresso, ho fatto sparire il video del pompino, stavolta per sempre.
Secondo lampo di lucidità: uno specchio e il lavello della cucina per darmi almeno una sciacquata. Non dico che fossi presentabile ma a volte si fa quel che si può. Ho infilato le mutandine e mentre finivo di agganciare la salopette Enrico è uscito dal bagno, nudo e ancora umido. L’ho guardato e una tranquillità anche esagerata mi è calata improvvisamente addosso.
- Io andrei - gli ho fatto in tono neutro.
- Lasciami il tuo numero – ha ribattuto.
- Perché?
- Perché quando ho voglia di scoparti ti chiamo, scema.
- Cosa ti fa pensare che io possa essere la tua puttana, scusa?
- Perché sei una puttana, e ti piace il cazzo - mi ha risposto arrogante.
- Ok, mi piace il cazzo – ho replicato in modo assolutamente zen - e tu hai pure un bel cazzo, lo riconosco. Ma questo non significa niente. Dammi retta, pensa a guidare gli autobus e cerca di non andare a sbattere.
Detto questo, ho ripreso in mano il suo telefono e... beh, ricordate che sopra un mobile all’ingresso c’era un piccolo acquario con un unico, illogico, pesce colorato? Ecco, il suo prezioso Samsung Galaxy S9 è finito lì dentro. Ovviamente, un attimo dopo ho aperto la porta, sono uscita sul pianerottolo, l’ho richiusa rumorosamente alle mie spalle e ho iniziato a correre giù per le scale. Giù giù giù fino in strada. Volevo proprio vedere se mi rincorreva nudo come un verme. Non avevo idea di dove fossi, non sapevo come cazzo avrei fatto a tornare a casa. Ero in hangover da alcol, da hashish e da cazzo. Ma mentre correvo, verso nemmeno io sapevo dove, mi è venuto da ridere come una matta.
Ecco perché non voglio che quell’idiota mi rivenga attorno. Sarebbe capace di menarmi e di farsi ripagare il cellulare.
“Non so se tu abbia mai fatto una cosa del genere – riprendo a scrivere a Serena, aggiungendo l’ultimo tocco di mignottaggine - ma per la prima volta in vita mia ho fatto la troia con due maschi contemporaneamente, ho goduto a raffica e ho anche salvato il culo. Direi che ci posso stare, ahahahahah”.
Rileggo e salvo quello che ho scritto sin qui alla mia amica. E poi ci penso un po’ prima di continuare a scrivere. Perché potrei gettare tutto nel cestino. O, volendo, completare la mia confessione. Solo che l’atto che sto compiendo non è una cosa che si può volere o non volere. E’ una cosa di cui si ha o non si ha bisogno. E io ne ho bisogno.
“Cara Serena, a questo punto ti chiederai perché ti ho messa a parte delle mie avventure porno. Bene, i motivi sono due. Il primo è che volevo farti bagnare, troia :-) Il secondo è che tutto questo è successo per colpa tua. No, ok, non è vero. Tranquilla. Non è che tutto questo è successo perché tu mi hai mollata per andare a scopare. Mettiamola così: se fosse stato per te (e per me) tutto questo poteva non accadere, poteva accadere altro. Sì, va bene, lo so che non ci stai capendo un cazzo. Nemmeno io ci sto capendo un cazzo, sono un po’ confusa. E un po’ mi vergogno pure. E’ strano, se ci pensi, dovrei vergognarmi per quello che ti ho raccontato finora e invece non me ne frega un cazzo. Mi vergogno invece di quello che sto per dirti. Aspetta un attimo che prendo un bel respiro, prendilo pure tu”.
E poi le scrivo tutto quello che ho detto a voi. Proprio tutto, eh? Dalla voglia che mi si è scatenata dentro quando ci siamo abbracciate tutt’e due sudate in discoteca, a di essere con lei mentre stava a letto con quel ragazzo. Di farla mia dopo che era stata sua. Del bacio furioso che le avrei voluto dare quando ci siamo lasciate davanti al terminal. “Uno di quei baci – le scrivo – da far voltare la gente, farla dare di gomito e dire guarda là quelle due lesbiche”. E aggiungo, anche se non so lei come la pensi, che a me di essere o non essere considerata puttana, lesbica, bisex o quel che è non mi interessa.
“Scusa, forse ti ho choccata, ma avevo bisogno di dirtelo. Annalisa”. Ecco la mia firma.
Rileggo un’altra volta tutto, fino in fondo. Indugio nemmeno so io quanto sul pulsante dell’invio. Chiudo gli occhi e faccio clic. E’ andata, succeda quel che succeda.
Spengo il laptop e mi tolgo il vestito. Vado in bagno a lavarmi i denti. Sì, ok, mi sono anche eccitata a scrivere queste cose. Non ho bisogno di vedere nello specchio i miei capezzoli eretti per capire che lo sono. Me lo sento addosso. Nonostante il viso stanco mi piaccio. Mi passo le mani sui seni, poi ne lascio scendere giù una. Non pensavo di essere così bagnata. Cioè, ci avrei scommesso che lo fossi, è da quando sono piccola che mi bagno tanto. Ma non credevo di essermi ridotta così stasera. Un po’ sorpresa, lascio scivolare dentro un dito e per un attimo perdo il contatto visivo nello specchio, gli occhi mi si sono chiusi spontaneamente. Lo tiro fuori, alzo la mano e la porto verso la luce. Guardo la patina umidiccia che ricopre i polpastrelli del medio e dell’anulare, la goccia bianca e traslucida che scende fino all’inizio della falange. La succhio. Mi piace il mio sapore, mi è sempre piaciuto sin dalla prima volta che l’ho assaggiato e che pensavo mi avrebbe fatto schifo. E’ un po’ più forte del solito, penso che forse mi stanno arrivando le mie cose. Lo rifaccio un’altra volta: mi infilo dentro il dito e poi lo succhio. Stavolta cerco di immaginare che sia il succo del desiderio di Serena. Chissà com’è nella realtà. Non ho molta voglia di masturbarmi. O meglio, ho voglia di masturbarmi ma non fino a venire. Non penso nemmeno che ce la farei dopo la macelleria di ieri sera. E in fin dei conti questa mattina all’alba, appena quindici ore fa, giacevo prona su un letto a farmi sbattere da quella merda del palestrato autista di bus. E poi sono troppo stanca, anzi stanca è dire poco. Trattengo un attimo il fiato e me ne spingo due dentro, di dita. Ho un sussulto, un brivido lunghissimo, le gambe mi cedono un po’. Devo appoggiarmi allo stipite della porta per uscire dal bagno. Per fortuna il letto è a non più di tre passi, mi ci lascio cadere sopra e per l’ultima volta lecco e succhio le mie dita. Vorrei che Serena leggesse subito la mail, ma so che le controlla solo di tanto in tanto. Vorrei che fosse qui e che si adagiasse sopra di me schiacciandosi le tette contro la mia schiena. Vorrei che mi augurasse la buonanotte così.
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