Covid-19
di
Yuko
genere
etero
Consegne del mattino.
Il collega che smonta notte ci ragguaglia su alcuni casi impegnativi e sui ricoveri.
Soliti malati di polmonite da covid, anziani, pluripatologie, casi disperati alternati ad arzilli vecchietti abituati a tutto e che forse anche stavolta ce la faranno.
Mi colpisce un paziente.
32 anni, inviato dalla rianimazione, anche lui bruttissima polmonite da covid, ma invece che mandarci un paziente in miglioramento, ci inviano un paziente ormai terminale.
Terminale???
A 32 anni? È impossibile! Mi indigno.
Purtroppo in rianimazione hanno pochissimi posti e non sanno più dove trasferire i malati. Il povero giovane in questione ha un danno polmonare severissimo e ingravescente e nessuna possibilità di farcela.
Condannato a morire, già in cure palliative.
Resto sconvolta dal fatto che a 32 anni non si riesca a salvare un paziente, per quanto grave.
"Perché non lo mandiamo in hospice?"
"Purtroppo sono pieni anche loro e per ora non possono accettare i covid"
"Allora mandiamolo a casa a morire, in mezzo ai suoi affetti, ai suoi parenti!"
"Sarebbe stato il caso, ma non ha nessuno."
"Nessuno?"
"Genitori morti, aveva una moglie che l'ha lasciato quando si è aggravato."
"Stai scherzando, vero?"
"Eh, no. Niente figli e questa non ha retto il colpo psicologico, forse c'erano dietro anche altri problemi."
"Sì, ma, cazzo, sta morendo!"
"Eh, guarda, Yuko, non si può far nulla."
"È già in morfina?"
"No, per ora regge bene con ossigeno in maschera di Venturi al 60%."
"Ah, beh, per ora non è malissimo!"
"No, ma gli hanno dato un paio di settimane. Gli scambi respiratori peggioreranno rapidamente, si passerà all'ossigeno a pressione positiva, ma il destino è segnato."
"Lui cosa sa?"
"Tutto. Sa bene che deve morire e quanto gli resta. Ha voluto sapere ogni cosa e, in effetti, essendo solo, aveva tutto il diritto di sapere esattamente come erano messe le cose."
Esco dalla riunione triste e turbata. Questo giovane ha pochi anni più di me, sta andando incontro alla morte ed è completamente solo.
Comincia la vestizione. La tortura sta per iniziare e la fine del supplizio è lontana almeno 6-7 ore.
Mi infilo degli stivaletti in cellophane, fino a sotto il ginocchio. Do il via alla sudata. Cuffia; sistemo i capelli in un volume ristretto. Passata di gel sulle mani e primo paio di guanti, ovviamente non c'è mai la misura giusta. Maschera FFP2, con laccetto allungato dietro la nuca perché quello dietro alle orecchie a fine turno ti è entrato nella carne, col rischio inoltre di staccarti l'orecchio. Sulla cuffia mi metto la cosiddetta "monachella", una seconda cuffia, praticamente un burqa di plastica che ti copre tutta la testa fino al collo, allungandosi fino alle spalle. Sulla faccia è già applicata una maschera chirurgica che ti impedisce ulteriormente di respirare. Doppia legatura dietro la nuca e altra legatura sotto le ascelle.
Poi viene il bello. Camicione idrorepellente. Più simile ad un grosso sacco della spazzatura con le maniche, solo che è azzurro e non grigio scuro. Allacciatura doppia.
Appena lo metto comincio a sudare. Già i plasticoni sui piedi sono tutti appannati.
Sento subito le ascelle bagnarsi e un caldo porco dalla maschera doppia, dove da qualche minuto mi sto respirando la stessa aria satura di anidride carbonica; caldo al collo, ascelle, fianchi e schiena, gambe e piedi.
Metto il secondo paio di guanti per impedire traspirazione e dispersione calore anche dalle mani e dai polsi, già sudati, ed il tocco finale è la visiera che va a coprire quel poco del volto da cui cercavo di svaporare.
La visiera si appanna subito e si procede a tastoni, guardando da sotto la visiera e cercando nella nebbia di leggere i dati dei pazienti e le terapie. In questo, essere a Milano aiuta parecchio, visto che nella nebbia ci viviamo qualche mese all'anno.
In 6 ore di turno, dovrei perdere un paio di litri di sudore e uscire completamente fradicia. Spero almeno di vincere il concorso di miss maglietta bagnata. Se non mi viene una sincope prima.
Questo perché, almeno, il lettore sappia come si lavora in un reparto COVID.
"Dai, il nuovo me lo vedo io, come si chiama?" mi propongo, visto che di malati critici ho una certa esperienza.
"Meciani, letto 32."
Computer, tavolino, saturimetro, fonendoscopio al collo, entro in stanza.
Individuo il nuovo paziente. Leggo la cartella elettronica.
"Signor Meciani?"
"Sì, buongiorno."
"Sono la dottoressa Nikura."
"Come?"
Ripeto più forte. Tra il rumore della sua maschera ad ossigeno ed il mio abbigliamento a doppia maschera e burqa, la comunicazione è quasi impossibile.
Sento le gocce di sudore che mi colano dalle ascelle. Porca miseria, qui moriamo prima noi che i pazienti.
Mi avvicino, la visiera tutta appannata, almeno per farmi guardare negli occhi.
"Nikura!" ripeto. Lui fa con la mano uno stanco accenno di assenso.
Occhi azzurri, espressione spenta, respiro un po' affannato. Poveraccio.
"Come va il respiro?" mi avvicino per farmi capire.
Mi fa cenno con la mano: così, così.
Gli misuro la saturazione che, tutto sommato, è abbastanza buona, 94%. Certo, alla sua età e respirando ossigeno al 60%, fa cagare, ma almeno compensa abbastanza.
Solo che siamo al massimo dell'ossigeno, di più si può solo passando ad uno scafandro a pressione positiva.
Lo visito. I polmoni sono orrendi, ma il resto regge bene ancora.
"Altri problemi?"
"Dottoressa, sto morendo."
"Beh, Meciani, non adesso! Dai, per ora i parametri tengono. Coraggio, cerchiamo almeno di non stare male."
Sorride con una espressione sconsolata. "Dottoressa, la fa facile!"
Mi avvicino per guardarlo negli occhi, gli prendo una mano per fargli sentire un po' di calore, di vicinanza umana, anche se attraverso i doppi guanti e questo camice, di umano non ho proprio nulla.
"Dai, Meciani. Ogni minuto è prezioso. Il mio compito è quello di alleviarle ogni problema, dolore e fatica. Forza, cerchi di vivere bene ogni minuto che le rimane. Io farò il possibile per starle vicino, ma un po' di impegno lo chiedo anche a lei.”
Sorride e abbassa lo sguardo. So che è difficile, quasi impossibile. Eppure qualcosa resta sempre da fare, da vivere, da pensare.
Purtroppo devo dedicarmi agli altri pazienti. Lo saluto con un sorriso, che non può vedere attraverso le maschere, e gli prendo la mano.
"Dottoressa, è cinese?"
"Giapponese."
"Ho visto gli occhi. Ho capito che mi ha sorriso."
"Anche noi facciamo fatica, sotto queste plastiche sudiamo come delle cammelle e crepiamo di caldo, e appena tornati a casa, abbiamo altri turni, notti, weekend. Insomma, soffriamo accanto a voi!"
"È la prima volta che una dottoressa mi prende la mano e mi parla senza raccontare balle sulla mia sopravvivenza."
"Dai, Meciani!"
"Mi chiami Paolo."
"Forza, Paolo, adesso, ogni giorno ti seguirò io."
Mi guarda con gratitudine. Poi viene scosso da un accesso di una tosse micidiale, secca e dolorosa, che gli rende il viso paonazzo. Aspetto che finisca, lo saluto e proseguo il giro.
Prima di uscire dall'area rossa, al termine della mattinata, faccio ancora un giro dal mio paziente al letto 32. Lo saluto con un plateale gesto del braccio. Lui sorride.
È ora di uscire, di più non posso reggere.
In area svestizione mi rimuovo le protezioni. La tuta è fradicia e appiccicata. Ho una sete maledetta. Prendo una tuta asciutta e mi cambio. Le mutandine fradice, ma non ci danno il ricambio della biancheria intima. Appena arrivo a casa ci vorrà una doccia gigante.
Nei giorni successivi il mio paziente sembra stabilizzato. Ho aumentato la terapia col cortisone, umidificato l'ossigeno, e sembra che, se non migliora, almeno non peggiori neanche; in fondo regge bene senza troppo fastidio.
Passano i primi giorni. Mi sono presa a cuore questo paziente. Lo visito sempre io e lui sembra che mi aspetti ad ogni mattino, accogliendomi con un sorriso; a fine visita passo sempre a chiacchierare un poco con lui.
"Paolo", gli dico un fine mattina, "ma non hai proprio nessuno? Un amico, parenti lontani?"
"No, Yuko", ho acconsentito a chiamarmi per nome, in fondo abbiamo quasi la stessa età. "Qualche cugino che non vedo da anni, qualche amico si, ma col covid non possono entrare e da qualche tempo non telefona più nessuno."
"Vuoi fare una video-chiamata?"
"No, no, per carità. Già quando mi sentivano sbanfare si impressionavano tutti, se mi vedessero, scapperebbero urlando."
Gli sorrido, avvicinandomi, e gli prendo la mano. Sento che me la stringe. "Ormai siamo noi la tua famiglia."
Mi guarda pensieroso. "Yuko, quanto durerà?"
"Non so, Paolo. E' abbastanza imprevedibile. Sei stufo?"
"Non potete farmi l'eutanasia?"
Faccio un bel respiro. "Paolo, ma tu stai male? Hai dolore, soffri?"
"Yuko, io sto morendo!"
"Paolo, lo so, non sto facendo finta di nulla. È la prima cosa che mi hai detto appena mi hai conosciuta."
"Tu non puoi sapere cosa provo, cazzo!"
"Paolo, ti garantisco che problemi di respiro ne abbiamo anche noi, qualcuno perfino sta male, e siamo qui a lavorare. Quello che non possiamo condividere è la tua sofferenza morale. Lì non ci possiamo fare nulla. Solo cercare di starti vicino. Vuoi parlare con uno psicologo?"
"Macchè, psicologo!"
"Sto cercando di aiutarti, Paolo, lo sai. È vero che io alle 3 esco da qui, ma ti garantisco che ti penso spesso. Certo, questo non ti dà nessun beneficio, ma forse ciò di cui hai bisogno è solo una persona che ti capisca e ti stia vicino. Ma quando la tua sofferenza sarà insopportabile, ti metterò in morfina, te lo prometto".
Mi viene da piangere, ma di più non posso fare. Mi manca il fiato. Mi avvicino alla finestra e scosto la maschera, cosa che non si potrebbe fare, per tirare qualche respiro di aria buona, se lo smog può essere considerato tale.
"Paolo", riprendo dopo aver recuperato un po' di ossigeno, "se soffri il nostro dovere è quello di toglierti ogni sofferenza, ma non possiamo farti fuori, non ha neanche senso. Vivi quello che ti resta da vivere. Ogni minuto è prezioso e sta a te, principalmente, dare senso ad ogni momento che vivi!"
Sembra un po' più rilassato. Ha solo bisogno di sfogarsi e non ha nessuno che lo ascolti, che gli faccia compagnia. Mi stringe la mano.
"Hai degli occhi molto belli" risponde dopo aver tirato qualche respiro più profondo.
"Mi piacerebbe poterti vedere in viso, come tu puoi fare con me."
Mi fermo, pensosa. Poi mi guardo in giro. Lui è in stanza singola. Chiudo la porta e mi avvicino al suo letto, sollevo la visiera.
"No, Yuko, guarda che rischi di infettarti!"
Non lo ascolto, abbasso la mascherina e mi faccio guardare. Qualche secondo, in cui ne approfitto per respirare un po' d'aria, poi risollevo la maschera e riabbasso la visiera.
"Yuko... sei bellissima! Io non avrei voluto, ecco, io non mi aspettavo..."
"Dai, vorrà dire che invece della morfina mi faccio vedere in viso, ora lo metto in terapia: si somministra Yuko, 2 minuti 3 volte al giorno."
Lui ride, sembra più sollevato.
"Grazie per il complimento” riprendo, “con questa pelandrana addosso, faccio schifo a me stessa, sembro nonna Abelarda in versione Islam."
"Ma non rischi di contagiarti?"
Sollevo le spalle. "Ne sarà valsa la pena."
"Yuko", mi prende tutte e due le mani e mi fissa. "Io sto morendo, ma tu non devi ammalarti! Devi vivere!"
Gli stringo le mani. Il mio sguardo si fa serio.
"Paolo, basta con questa storia. Lo so io e lo sai tu, ma non è questa la questione! Ora sei vivo, e allora vivi, ma vivi bene, porca miseria! Non sai quando vado a casa, quante notti passate a piangere, ma poi io sono qui e quando ti vedo, voglio una persona che reagisce! Non devi combattere la malattia, ma devi vivere bene il presente. Non importa il futuro, quale futuro e per quanto tempo. Conta solo ogni momento. Il tuo futuro è una successione di momenti, in cui sta a te decidere se vivere o lasciarti morire. Sì, morirai, fra una settimana, due, magari di più, ma nel frattempo, la vita ti sfugge dalle dita, ed è una vita che, anche se breve, merita di essere vissuta. E chi meglio di te, deve saper dare importanza ad ogni singolo minuto, ad ogni secondo!"
Mi accascio seduta sul letto, mi viene da piangere, la visiera mi si appanna tutta per il respiro affannoso e, almeno, mi copre alla sua vista.
Paolo resta silenzioso, vivamente impressionato dal mio sfogo.
"Davvero piangi di notte?"
Scuoto un poco il capo, per minimizzare. Non avrei voluto dirglielo.
"Avrei voluto conoscerti prima, dottoressa giapponese!"
"Mi hai conosciuto adesso, Paolo. E se mi avessi conosciuto prima, il tuo destino sarebbe stato questo, lo stesso. E ogni minuto del tempo presente resta importante, e non va buttato nulla."
"Ma non hai un marito, un fidanzato, un compagno a cui dedicarti, di notte?"
Scuoto la testa. Lo guardo negli occhi. Oggi il valore del suo ossigeno è peggiorato, ma non mi sono sentita di dirglielo.
Faccio per andarmene; devo dare consegna e tirarmi via sta roba di dosso, mi sento soffocare.
"Yuko!" mi chiama ancora. Mi volto verso di lui.
I suoi occhi azzurri sono velati di lacrime.
"Grazie!"
"Ma ti pare."
La mattina dopo non ci sono al giro del mattino, faccio notte. Paolo lo sa.
Quando arrivo, la sera, passo a salutarlo prima di dedicarmi ai malati da rivedere. Ormai mi sono affezionata a questa persona.
Mi affaccio alla stanza, solo per un veloce saluto.
"Come va?"
"Insomma."
"Cioè?"
Oggi mi hanno aumentato l'ossigeno, mi hanno messo la maschera a pressione positiva."
"Bene, ed ora come stai?"
"Ma cosa "bene"! Se mi hanno cambiato la maschera, significa che sto peggio!"
"Lo so. Ma io ho chiesto come stai con questa maschera!"
"Beh... un po' meglio."
"Ok, allora va bene, stai un po' meglio ed io sono contenta."
"Come fai ad essere sempre positiva?"
"Paolo, vivo alla giornata con te, ed ogni minuto guadagnato è importante. Ora mi serve che tu stia meglio. Non mi interessa se gli scambi respiratori vanno peggio. Con la nuova maschera, tu stai meglio, e questo mi basta. E poi..."
"Poi?"
"Ti ho portato il gelato!"
"Il gelato???"
"Ma sì, un giorno ho sentito che ne desideravi uno così tanto."
"E tu, come fai a ricordartelo?"
"Signor Meciani! La sua dottoressa è molto attenta al suo paziente preferito, e non le sfugge nulla!"
"Allora sono in ottime mani."
"Magari, potessi metterti le mani addosso!"
"Ma dottoressa! Dici sul serio?"
"Per adesso però accontentati di questo."
"Coocky snack! Il mio preferito!"
"Te l'avevo detto."
Sbrigo veloce un po' di controlli agli altri pazienti. Un ricovero, per fortuna abbastanza tranquillo, e ritorno alla stanza 32.
"Fatto."
"Ti stavo aspettando."
“Non avevi impegni per questa notte?” Scherzo; lui sorride tristemente. "Mi spiace, ti faccio perdere ore di sonno, ma almeno posso dedicarti un po' di tempo."
"Mi rincresce che ti tocchi lavorare di notte."
"Scherzi? Al contrario. Mi sono fatta mettere sempre di notte!"
"Ma tu sei matta, non puoi reggere, e mi mancherà la tua visita al mattino."
"Non preoccuparti. Dormo di giorno, e al mattino non ho mai abbastanza tempo, mentre alla notte, salvo casini, ho parecchie ore. Ma tranquillo, fra poco ti metto a nanna."
"Yuko, hai finito per farmi affezionare a te, e forse non è una bella cosa."
"Ma che dici? È una cosa bellissima, invece! Finalmente mi dai un feed-back!"
"Ma lo sai che non dovremmo affezionarci."
"Paolo, non ricominciamo con questa storia. Io mi sono innamorata, punto e basta. Che tu lo voglia o no e non me ne frega nulla se il nostro futuro non sarà molto lungo."
"Yuko, tu bruci le tappe."
"E certo! Cosa dovrei fare, aspettare che tu mi faccia il filo? So bene che non avverrà mai."
"Io non so come tu faccia a farti venire in mente queste cose."
"Paolo, sono cose normali tra una donna e un uomo. Sei tu che hai paura."
"E non dovrei averne? Che cosa posso offrirti? Sono uno straccio di uomo che sta per morire, tu sei una donna eccezionale, di una bellezza..."
"E basta, dai! Alla fine siamo un uomo e una donna, e tanto è. Non mi interessa quello che potresti offrirmi tra un mese. Io voglio te, ora. Vivo al presente e non mi interessa troppo il futuro."
"Soffrirai per questo."
"Lo so, fa parte dell'amore. Non c'è amore senza sofferenza e se non soffri non hai la prova che stai vivendo il vero amore. A me va bene. A te, signor Meciani?"
Rimane assorto nei pensieri. Il dialogo concitato lo ha affaticato ed ora cerca di recuperare fiato. Mi avvicino e gli prendo una mano, lui me la stringe.
"Non posso offrirti neanche un po' di rapporto fisico, un bacio."
"Non è la cosa più importante, e comunque, per quanto mi riguarda, le mani addosso te le ho messe più volte."
Lui sorride. So già cosa sta per dire, ma un accesso di tosse si impadronisce di lui, scuotendolo da dentro.
Finalmente gli passa.
Mi discosto un poco e mi sollevo il camice.
"Ma cosa fai? Copriti, che ti contagio!"
Non lo sto ad ascoltare. Mi tolgo il secondo paio di guanti e con i guanti puliti mi sollevo la casacchina. Il mio seno nudo gli si presenta davanti agli occhi.
"Tu devi essere tutta matta. Non ho mai visto un corpo così, e tu, tu ora rischi di infettarti."
"Dimmi solo che ti piaccio, se pensi che io sia bella."
"Sei bellissima."
Mentre mi tengo sollevata la casacca con il petto scoperto, con l'altra mano mi abbasso i calzoni della divisa, fino a metà coscia. Rimango qualche secondo in slip davanti a lui. Il suo sguardo è fisso al mio ventre e alle mutandine. Con lentezza mi abbasso le mutandine, scoprendo così tutta la mia nudità.
"Yuko, ti voglio da morire."
"Prendimi, Paolo, prendimi ora."
"Ma tesoro, ti contagio!"
"No, metti questo guanto, così."
"Non ce ne vuole un altro?"
"No, voglio farti sentire come sono calda, farti percepire il bagnato."
Mi avvicino a lui, allargo le gambe. Paolo non si muove. Gli prendo la mano e me la dirigo fra le cosce. Ecco, mi accarezza i peli del pube, poi scende. Mi passa le dita sugli inguini, senza la fretta di entrarmi subito dentro. Gemo al solo tocco delle sue dita; mi basta che mi sfiori, talmente tanto desiderio ho accumulato, che ora appena sento che mi esplora nelle mie zone più sensibili mi sciolgo in gemiti. Mi entra dentro, prima solo con un dito. Lo estrae coperto di liquido filante.
"Te l'avevo detto che volevo farti percepire quanto ti desidero."
"Yuko, io..."
"Sssst! Accarezzami. Non pensare ora ad altro che al mio corpo ed al fatto che mi stai toccando, mi stai entrando dentro."
Lui mi tocca, mi penetra. Mi avvicino. Voglio che senza l'odore della mia eccitazione. Mi entra dentro, mi accarezza, leggero e delicato. Stringo la vulva attorno alle sue dita, con l'altra mano lo indirizzo dentro, lo voglio più dentro di me, profondo.
"Paolo, mi stai facendo venire."
"Sei troppo bella, io, io vorrei..."
"Toccati anche tu, mentre tocchi me, spogliati."
Mentre lui sposta le lenzuola e abbassa il pigiama, io mi abbasso la mascherina.
"Voglio che tu mi veda quando mi doni piacere, voglio che tu guardi la mia bocca aprirsi mentre gemo e ti desidero."
Riprende a toccarmi, mentre si accarezza, io ansimo, gemo, lo voglio.
Poi mi avvicino e sono io a prendergli il membro in mano. Lui tocca me, si infila dentro di me e io lo accarezzo.
"Aspetta", lo fermo solo per un istante. Mi metto un guanto pulito, mi infilo dentro tre dita, me le passo bene in profondità e quando le tiro fuori coperte dei miei umori, riprendo ad accarezzargli l'asta. Il contatto del pene con i miei liquidi lo fa gemere profondamente.
Speriamo che nessuno ci senta.
La mia mano scorre più dolcemente ora che il suo membro è coperto del mio muco. Riprende ad infilarmi, mi guarda mentre godo, raccoglie i miei mugolii, mi guarda il seno che ondeggia alle prime scosse di piacere che muovono il petto.
"Più dentro, Paolo, più dentro, toccami, spingi, ti voglio dentro."
"Yuko, io sto per... Yuko... Yuuuukoooo!"
Un getto di sperma mi colpisce il ventre, caldo, poi un altro, che trattengo nel guanto, mentre mollo la mano che reggeva i miei indumenti sollevati; gli prendo la mano e me la spingo dentro. Col bacino mi spingo verso di lui, e prima che finisca il suo orgasmo, mi stringo sulla sua mano mentre vado in estasi. Trattengo qualche gemito tra le lebbra serrate, il ventre sussulta di scosse di piacere. Poi un lungo, lunghissimo sospiro.
Ci guardiamo. Abbiamo fatto l'amore.
Lui annaspa nella maschera. Gli aumento l'ossigeno. Mi sistemo la casacchina al meglio e, dopo avergli concesso una lunga occhiata, mi sollevo le mutandine ed i calzoni. Il camice plasticoso ricopre tutto.
"Visto?" concludo, mentre, sotto il camice, ancora accaldata, riprendo a sudare come una fontana, "basta adattarsi, Paolo, basta volerlo."
"Yuko, io non so proprio come..."
"Non pensarci neanche! Ora riposa, se no a domani non ci arrivi."
Riesco a farlo sorridere, il che è merce rara di questi tempi.
Lui ora dorme, gli ho riabbassato l'ossigeno. Una carezza sul capo, e poi esco, a controllare altri pazienti che dormono.
Solo poche ore dopo ritorno nella sua stanza. Sta ancora dormendo. Gli lascio un caffè delle macchinette sul comodino e vado a dare le consegne della notte.
Nei giorni successivi Paolo peggiora. Ora deve tenere la maschera tutto il giorno, ad alti flussi e con pressione crescente.
Io proseguo a fare turni di notte per potergli dedicare più tempo possibile.
"Paolo, come va?" Entro in camera sua una delle sere successive.
Lui mi guarda e mi risponde solo con un cenno. Non riesce a parlare.
Faccio il mio giro visite notturno, controllando i pazienti che ho in consegna. Aggiusto qualche terapia e torno da lui.
"Stasera non ce la faccio a fare sesso."
Sorrido, mi colmo di tenerezza per la premura.
"Non ce n'è bisogno, ho portato un libro da leggerti."
"Yuko, io non so quanto andrò avanti, io vorrei interrompere questa relazione."
"Non dire stupidate."
"Yuko, stiamo facendo una cazzata e tu starai male come una bestia."
"Non preoccuparti per me, io sto bene e non ti permetto di cercare di rovinarmi anche solo uno di questi minuti con te."
"Ma non capisci?"
"No, Paolo, sei tu che non capisci. Ora smettila. Mettimi una mano sulla coscia e io ti leggo questo libro di Buzzati."
"Io..."
"Tu?" lo guardo minacciosa.
"Io ti amo."
"Finalmente fai giudizio. Ora respira, che quasi ti restano solo le branchie".
Gli leggo il libro, il racconto bello e struggente del Colombre, di Buzzati, ma lui si addormenta quasi subito, la sua mano sulle mie ginocchia.
Lo lascio riposare. Al mattino un rapido saluto. Sullo smonto notte vado a farmi un giro in scialpinismo con un'amica, ma domani sarò di nuovo di fianco a lui, per quelli che forse sono i suoi ultimi giorni.
"Yuko" mi chiama mentre sto per uscire.
"Dimmi, tesoro."
"Io credo che dovremmo interrompere."
"Smettila. Se tu non mi molli, io non ti lascio solo. E se mi molli tu, ti ammazzo io, ma di botte!"
Mi saluta con un sorriso triste e poco convinto. Difficile cambiare la testa di una persona, praticamente impossibile.
Neve polverosa sui crinali in discesa dalla Grigna.
Alessandra è già scesa con la tavola precedendomi, mentre io mi attardo in qualche curva. Sento la stanchezza della notte e l'ora è anche abbastanza tarda. Colpa mia, ma prima non potevo proprio partire.
Ale mi aspetta al colletto, dietro un costone di roccette che sporgono dalla coltre nevosa.
Seguo le sue tracce mentre taglio il pendio e d'improvviso sento muoversi tutto il terreno. La neve si apre e cerca di ingoiarmi. Mi trovo girata faccia a valle, con le braccia cerco di nuotare in questa maledetta slavina che chissà perchè è partita proprio adesso. Gli sci mi si staccano e sono più libera di muovermi per restare a galla, ma la neve in movimento mi arriva già alle ascelle.
Riesco a respirare, sono ancora fuori, ma un blocco di neve mi passa sulla testa. Vedo tutto buio per qualche secondo. Non so neanche se mi sto muovendo o se sono ferma. Il blocco però si sposta e torno a vedere la luce. Ho la prontezza di pensiero per realizzare che sono in guai seri, ma almeno sono ancora fuori. Poi di nuovo buio. Un buio e un silenzio insondabili. Non riesco a muovere le gambe, imprigionata nella neve.
Ospedale.
Giro visita del mattino molto faticoso. Un pessimo inizio di settimana.
Il paziente al letto 32 sta male, il trentenne con prognosi infausta. Già un miracolo che abbia resistito così tanto tempo, sembrava quasi stabilizzato, fino a pochi giorni fa, quando ha ricominciato a peggiorare. È il paziente al quale si è affezionata Yuko. Forse con qualche terapia azzeccata è riuscita a dargli qualche giorno di vita in più, ma a qual pro?
Il medico di turno del mattino aumenta ancora l'ossigeno. Siamo però al massimo. Il passo successivo sarà la morfina.
"Come va, Meciani?"
"Eh, oggi non tanto bene, siamo alla fine!"
"Su, dai. Le faccio un bolo di cortisone e aumentiamo l'ossigeno. Starà subito meglio."
"Ma dottore, non serve a nulla!"
"Coraggio, Meciani. Cerchiamo di farla stare bene. Ogni ora in più..."
"Si, me lo dice sempre la sua collega, la dottoressa Nikura. Stasera fa ancora la notte, se non sbaglio."
Il medico si ferma portandosi la mano sugli occhi. Una pausa interminabile.
"Signore Meciani, ho una brutta notizia. Yuko..."
"Yuko?"
"Yuko è morta ieri sotto una slavina."
Scritto a pezzi durante una notte di guardia in un reparto COVID, nel tempo libero tra un paziente e l'altro.
Il collega che smonta notte ci ragguaglia su alcuni casi impegnativi e sui ricoveri.
Soliti malati di polmonite da covid, anziani, pluripatologie, casi disperati alternati ad arzilli vecchietti abituati a tutto e che forse anche stavolta ce la faranno.
Mi colpisce un paziente.
32 anni, inviato dalla rianimazione, anche lui bruttissima polmonite da covid, ma invece che mandarci un paziente in miglioramento, ci inviano un paziente ormai terminale.
Terminale???
A 32 anni? È impossibile! Mi indigno.
Purtroppo in rianimazione hanno pochissimi posti e non sanno più dove trasferire i malati. Il povero giovane in questione ha un danno polmonare severissimo e ingravescente e nessuna possibilità di farcela.
Condannato a morire, già in cure palliative.
Resto sconvolta dal fatto che a 32 anni non si riesca a salvare un paziente, per quanto grave.
"Perché non lo mandiamo in hospice?"
"Purtroppo sono pieni anche loro e per ora non possono accettare i covid"
"Allora mandiamolo a casa a morire, in mezzo ai suoi affetti, ai suoi parenti!"
"Sarebbe stato il caso, ma non ha nessuno."
"Nessuno?"
"Genitori morti, aveva una moglie che l'ha lasciato quando si è aggravato."
"Stai scherzando, vero?"
"Eh, no. Niente figli e questa non ha retto il colpo psicologico, forse c'erano dietro anche altri problemi."
"Sì, ma, cazzo, sta morendo!"
"Eh, guarda, Yuko, non si può far nulla."
"È già in morfina?"
"No, per ora regge bene con ossigeno in maschera di Venturi al 60%."
"Ah, beh, per ora non è malissimo!"
"No, ma gli hanno dato un paio di settimane. Gli scambi respiratori peggioreranno rapidamente, si passerà all'ossigeno a pressione positiva, ma il destino è segnato."
"Lui cosa sa?"
"Tutto. Sa bene che deve morire e quanto gli resta. Ha voluto sapere ogni cosa e, in effetti, essendo solo, aveva tutto il diritto di sapere esattamente come erano messe le cose."
Esco dalla riunione triste e turbata. Questo giovane ha pochi anni più di me, sta andando incontro alla morte ed è completamente solo.
Comincia la vestizione. La tortura sta per iniziare e la fine del supplizio è lontana almeno 6-7 ore.
Mi infilo degli stivaletti in cellophane, fino a sotto il ginocchio. Do il via alla sudata. Cuffia; sistemo i capelli in un volume ristretto. Passata di gel sulle mani e primo paio di guanti, ovviamente non c'è mai la misura giusta. Maschera FFP2, con laccetto allungato dietro la nuca perché quello dietro alle orecchie a fine turno ti è entrato nella carne, col rischio inoltre di staccarti l'orecchio. Sulla cuffia mi metto la cosiddetta "monachella", una seconda cuffia, praticamente un burqa di plastica che ti copre tutta la testa fino al collo, allungandosi fino alle spalle. Sulla faccia è già applicata una maschera chirurgica che ti impedisce ulteriormente di respirare. Doppia legatura dietro la nuca e altra legatura sotto le ascelle.
Poi viene il bello. Camicione idrorepellente. Più simile ad un grosso sacco della spazzatura con le maniche, solo che è azzurro e non grigio scuro. Allacciatura doppia.
Appena lo metto comincio a sudare. Già i plasticoni sui piedi sono tutti appannati.
Sento subito le ascelle bagnarsi e un caldo porco dalla maschera doppia, dove da qualche minuto mi sto respirando la stessa aria satura di anidride carbonica; caldo al collo, ascelle, fianchi e schiena, gambe e piedi.
Metto il secondo paio di guanti per impedire traspirazione e dispersione calore anche dalle mani e dai polsi, già sudati, ed il tocco finale è la visiera che va a coprire quel poco del volto da cui cercavo di svaporare.
La visiera si appanna subito e si procede a tastoni, guardando da sotto la visiera e cercando nella nebbia di leggere i dati dei pazienti e le terapie. In questo, essere a Milano aiuta parecchio, visto che nella nebbia ci viviamo qualche mese all'anno.
In 6 ore di turno, dovrei perdere un paio di litri di sudore e uscire completamente fradicia. Spero almeno di vincere il concorso di miss maglietta bagnata. Se non mi viene una sincope prima.
Questo perché, almeno, il lettore sappia come si lavora in un reparto COVID.
"Dai, il nuovo me lo vedo io, come si chiama?" mi propongo, visto che di malati critici ho una certa esperienza.
"Meciani, letto 32."
Computer, tavolino, saturimetro, fonendoscopio al collo, entro in stanza.
Individuo il nuovo paziente. Leggo la cartella elettronica.
"Signor Meciani?"
"Sì, buongiorno."
"Sono la dottoressa Nikura."
"Come?"
Ripeto più forte. Tra il rumore della sua maschera ad ossigeno ed il mio abbigliamento a doppia maschera e burqa, la comunicazione è quasi impossibile.
Sento le gocce di sudore che mi colano dalle ascelle. Porca miseria, qui moriamo prima noi che i pazienti.
Mi avvicino, la visiera tutta appannata, almeno per farmi guardare negli occhi.
"Nikura!" ripeto. Lui fa con la mano uno stanco accenno di assenso.
Occhi azzurri, espressione spenta, respiro un po' affannato. Poveraccio.
"Come va il respiro?" mi avvicino per farmi capire.
Mi fa cenno con la mano: così, così.
Gli misuro la saturazione che, tutto sommato, è abbastanza buona, 94%. Certo, alla sua età e respirando ossigeno al 60%, fa cagare, ma almeno compensa abbastanza.
Solo che siamo al massimo dell'ossigeno, di più si può solo passando ad uno scafandro a pressione positiva.
Lo visito. I polmoni sono orrendi, ma il resto regge bene ancora.
"Altri problemi?"
"Dottoressa, sto morendo."
"Beh, Meciani, non adesso! Dai, per ora i parametri tengono. Coraggio, cerchiamo almeno di non stare male."
Sorride con una espressione sconsolata. "Dottoressa, la fa facile!"
Mi avvicino per guardarlo negli occhi, gli prendo una mano per fargli sentire un po' di calore, di vicinanza umana, anche se attraverso i doppi guanti e questo camice, di umano non ho proprio nulla.
"Dai, Meciani. Ogni minuto è prezioso. Il mio compito è quello di alleviarle ogni problema, dolore e fatica. Forza, cerchi di vivere bene ogni minuto che le rimane. Io farò il possibile per starle vicino, ma un po' di impegno lo chiedo anche a lei.”
Sorride e abbassa lo sguardo. So che è difficile, quasi impossibile. Eppure qualcosa resta sempre da fare, da vivere, da pensare.
Purtroppo devo dedicarmi agli altri pazienti. Lo saluto con un sorriso, che non può vedere attraverso le maschere, e gli prendo la mano.
"Dottoressa, è cinese?"
"Giapponese."
"Ho visto gli occhi. Ho capito che mi ha sorriso."
"Anche noi facciamo fatica, sotto queste plastiche sudiamo come delle cammelle e crepiamo di caldo, e appena tornati a casa, abbiamo altri turni, notti, weekend. Insomma, soffriamo accanto a voi!"
"È la prima volta che una dottoressa mi prende la mano e mi parla senza raccontare balle sulla mia sopravvivenza."
"Dai, Meciani!"
"Mi chiami Paolo."
"Forza, Paolo, adesso, ogni giorno ti seguirò io."
Mi guarda con gratitudine. Poi viene scosso da un accesso di una tosse micidiale, secca e dolorosa, che gli rende il viso paonazzo. Aspetto che finisca, lo saluto e proseguo il giro.
Prima di uscire dall'area rossa, al termine della mattinata, faccio ancora un giro dal mio paziente al letto 32. Lo saluto con un plateale gesto del braccio. Lui sorride.
È ora di uscire, di più non posso reggere.
In area svestizione mi rimuovo le protezioni. La tuta è fradicia e appiccicata. Ho una sete maledetta. Prendo una tuta asciutta e mi cambio. Le mutandine fradice, ma non ci danno il ricambio della biancheria intima. Appena arrivo a casa ci vorrà una doccia gigante.
Nei giorni successivi il mio paziente sembra stabilizzato. Ho aumentato la terapia col cortisone, umidificato l'ossigeno, e sembra che, se non migliora, almeno non peggiori neanche; in fondo regge bene senza troppo fastidio.
Passano i primi giorni. Mi sono presa a cuore questo paziente. Lo visito sempre io e lui sembra che mi aspetti ad ogni mattino, accogliendomi con un sorriso; a fine visita passo sempre a chiacchierare un poco con lui.
"Paolo", gli dico un fine mattina, "ma non hai proprio nessuno? Un amico, parenti lontani?"
"No, Yuko", ho acconsentito a chiamarmi per nome, in fondo abbiamo quasi la stessa età. "Qualche cugino che non vedo da anni, qualche amico si, ma col covid non possono entrare e da qualche tempo non telefona più nessuno."
"Vuoi fare una video-chiamata?"
"No, no, per carità. Già quando mi sentivano sbanfare si impressionavano tutti, se mi vedessero, scapperebbero urlando."
Gli sorrido, avvicinandomi, e gli prendo la mano. Sento che me la stringe. "Ormai siamo noi la tua famiglia."
Mi guarda pensieroso. "Yuko, quanto durerà?"
"Non so, Paolo. E' abbastanza imprevedibile. Sei stufo?"
"Non potete farmi l'eutanasia?"
Faccio un bel respiro. "Paolo, ma tu stai male? Hai dolore, soffri?"
"Yuko, io sto morendo!"
"Paolo, lo so, non sto facendo finta di nulla. È la prima cosa che mi hai detto appena mi hai conosciuta."
"Tu non puoi sapere cosa provo, cazzo!"
"Paolo, ti garantisco che problemi di respiro ne abbiamo anche noi, qualcuno perfino sta male, e siamo qui a lavorare. Quello che non possiamo condividere è la tua sofferenza morale. Lì non ci possiamo fare nulla. Solo cercare di starti vicino. Vuoi parlare con uno psicologo?"
"Macchè, psicologo!"
"Sto cercando di aiutarti, Paolo, lo sai. È vero che io alle 3 esco da qui, ma ti garantisco che ti penso spesso. Certo, questo non ti dà nessun beneficio, ma forse ciò di cui hai bisogno è solo una persona che ti capisca e ti stia vicino. Ma quando la tua sofferenza sarà insopportabile, ti metterò in morfina, te lo prometto".
Mi viene da piangere, ma di più non posso fare. Mi manca il fiato. Mi avvicino alla finestra e scosto la maschera, cosa che non si potrebbe fare, per tirare qualche respiro di aria buona, se lo smog può essere considerato tale.
"Paolo", riprendo dopo aver recuperato un po' di ossigeno, "se soffri il nostro dovere è quello di toglierti ogni sofferenza, ma non possiamo farti fuori, non ha neanche senso. Vivi quello che ti resta da vivere. Ogni minuto è prezioso e sta a te, principalmente, dare senso ad ogni momento che vivi!"
Sembra un po' più rilassato. Ha solo bisogno di sfogarsi e non ha nessuno che lo ascolti, che gli faccia compagnia. Mi stringe la mano.
"Hai degli occhi molto belli" risponde dopo aver tirato qualche respiro più profondo.
"Mi piacerebbe poterti vedere in viso, come tu puoi fare con me."
Mi fermo, pensosa. Poi mi guardo in giro. Lui è in stanza singola. Chiudo la porta e mi avvicino al suo letto, sollevo la visiera.
"No, Yuko, guarda che rischi di infettarti!"
Non lo ascolto, abbasso la mascherina e mi faccio guardare. Qualche secondo, in cui ne approfitto per respirare un po' d'aria, poi risollevo la maschera e riabbasso la visiera.
"Yuko... sei bellissima! Io non avrei voluto, ecco, io non mi aspettavo..."
"Dai, vorrà dire che invece della morfina mi faccio vedere in viso, ora lo metto in terapia: si somministra Yuko, 2 minuti 3 volte al giorno."
Lui ride, sembra più sollevato.
"Grazie per il complimento” riprendo, “con questa pelandrana addosso, faccio schifo a me stessa, sembro nonna Abelarda in versione Islam."
"Ma non rischi di contagiarti?"
Sollevo le spalle. "Ne sarà valsa la pena."
"Yuko", mi prende tutte e due le mani e mi fissa. "Io sto morendo, ma tu non devi ammalarti! Devi vivere!"
Gli stringo le mani. Il mio sguardo si fa serio.
"Paolo, basta con questa storia. Lo so io e lo sai tu, ma non è questa la questione! Ora sei vivo, e allora vivi, ma vivi bene, porca miseria! Non sai quando vado a casa, quante notti passate a piangere, ma poi io sono qui e quando ti vedo, voglio una persona che reagisce! Non devi combattere la malattia, ma devi vivere bene il presente. Non importa il futuro, quale futuro e per quanto tempo. Conta solo ogni momento. Il tuo futuro è una successione di momenti, in cui sta a te decidere se vivere o lasciarti morire. Sì, morirai, fra una settimana, due, magari di più, ma nel frattempo, la vita ti sfugge dalle dita, ed è una vita che, anche se breve, merita di essere vissuta. E chi meglio di te, deve saper dare importanza ad ogni singolo minuto, ad ogni secondo!"
Mi accascio seduta sul letto, mi viene da piangere, la visiera mi si appanna tutta per il respiro affannoso e, almeno, mi copre alla sua vista.
Paolo resta silenzioso, vivamente impressionato dal mio sfogo.
"Davvero piangi di notte?"
Scuoto un poco il capo, per minimizzare. Non avrei voluto dirglielo.
"Avrei voluto conoscerti prima, dottoressa giapponese!"
"Mi hai conosciuto adesso, Paolo. E se mi avessi conosciuto prima, il tuo destino sarebbe stato questo, lo stesso. E ogni minuto del tempo presente resta importante, e non va buttato nulla."
"Ma non hai un marito, un fidanzato, un compagno a cui dedicarti, di notte?"
Scuoto la testa. Lo guardo negli occhi. Oggi il valore del suo ossigeno è peggiorato, ma non mi sono sentita di dirglielo.
Faccio per andarmene; devo dare consegna e tirarmi via sta roba di dosso, mi sento soffocare.
"Yuko!" mi chiama ancora. Mi volto verso di lui.
I suoi occhi azzurri sono velati di lacrime.
"Grazie!"
"Ma ti pare."
La mattina dopo non ci sono al giro del mattino, faccio notte. Paolo lo sa.
Quando arrivo, la sera, passo a salutarlo prima di dedicarmi ai malati da rivedere. Ormai mi sono affezionata a questa persona.
Mi affaccio alla stanza, solo per un veloce saluto.
"Come va?"
"Insomma."
"Cioè?"
Oggi mi hanno aumentato l'ossigeno, mi hanno messo la maschera a pressione positiva."
"Bene, ed ora come stai?"
"Ma cosa "bene"! Se mi hanno cambiato la maschera, significa che sto peggio!"
"Lo so. Ma io ho chiesto come stai con questa maschera!"
"Beh... un po' meglio."
"Ok, allora va bene, stai un po' meglio ed io sono contenta."
"Come fai ad essere sempre positiva?"
"Paolo, vivo alla giornata con te, ed ogni minuto guadagnato è importante. Ora mi serve che tu stia meglio. Non mi interessa se gli scambi respiratori vanno peggio. Con la nuova maschera, tu stai meglio, e questo mi basta. E poi..."
"Poi?"
"Ti ho portato il gelato!"
"Il gelato???"
"Ma sì, un giorno ho sentito che ne desideravi uno così tanto."
"E tu, come fai a ricordartelo?"
"Signor Meciani! La sua dottoressa è molto attenta al suo paziente preferito, e non le sfugge nulla!"
"Allora sono in ottime mani."
"Magari, potessi metterti le mani addosso!"
"Ma dottoressa! Dici sul serio?"
"Per adesso però accontentati di questo."
"Coocky snack! Il mio preferito!"
"Te l'avevo detto."
Sbrigo veloce un po' di controlli agli altri pazienti. Un ricovero, per fortuna abbastanza tranquillo, e ritorno alla stanza 32.
"Fatto."
"Ti stavo aspettando."
“Non avevi impegni per questa notte?” Scherzo; lui sorride tristemente. "Mi spiace, ti faccio perdere ore di sonno, ma almeno posso dedicarti un po' di tempo."
"Mi rincresce che ti tocchi lavorare di notte."
"Scherzi? Al contrario. Mi sono fatta mettere sempre di notte!"
"Ma tu sei matta, non puoi reggere, e mi mancherà la tua visita al mattino."
"Non preoccuparti. Dormo di giorno, e al mattino non ho mai abbastanza tempo, mentre alla notte, salvo casini, ho parecchie ore. Ma tranquillo, fra poco ti metto a nanna."
"Yuko, hai finito per farmi affezionare a te, e forse non è una bella cosa."
"Ma che dici? È una cosa bellissima, invece! Finalmente mi dai un feed-back!"
"Ma lo sai che non dovremmo affezionarci."
"Paolo, non ricominciamo con questa storia. Io mi sono innamorata, punto e basta. Che tu lo voglia o no e non me ne frega nulla se il nostro futuro non sarà molto lungo."
"Yuko, tu bruci le tappe."
"E certo! Cosa dovrei fare, aspettare che tu mi faccia il filo? So bene che non avverrà mai."
"Io non so come tu faccia a farti venire in mente queste cose."
"Paolo, sono cose normali tra una donna e un uomo. Sei tu che hai paura."
"E non dovrei averne? Che cosa posso offrirti? Sono uno straccio di uomo che sta per morire, tu sei una donna eccezionale, di una bellezza..."
"E basta, dai! Alla fine siamo un uomo e una donna, e tanto è. Non mi interessa quello che potresti offrirmi tra un mese. Io voglio te, ora. Vivo al presente e non mi interessa troppo il futuro."
"Soffrirai per questo."
"Lo so, fa parte dell'amore. Non c'è amore senza sofferenza e se non soffri non hai la prova che stai vivendo il vero amore. A me va bene. A te, signor Meciani?"
Rimane assorto nei pensieri. Il dialogo concitato lo ha affaticato ed ora cerca di recuperare fiato. Mi avvicino e gli prendo una mano, lui me la stringe.
"Non posso offrirti neanche un po' di rapporto fisico, un bacio."
"Non è la cosa più importante, e comunque, per quanto mi riguarda, le mani addosso te le ho messe più volte."
Lui sorride. So già cosa sta per dire, ma un accesso di tosse si impadronisce di lui, scuotendolo da dentro.
Finalmente gli passa.
Mi discosto un poco e mi sollevo il camice.
"Ma cosa fai? Copriti, che ti contagio!"
Non lo sto ad ascoltare. Mi tolgo il secondo paio di guanti e con i guanti puliti mi sollevo la casacchina. Il mio seno nudo gli si presenta davanti agli occhi.
"Tu devi essere tutta matta. Non ho mai visto un corpo così, e tu, tu ora rischi di infettarti."
"Dimmi solo che ti piaccio, se pensi che io sia bella."
"Sei bellissima."
Mentre mi tengo sollevata la casacca con il petto scoperto, con l'altra mano mi abbasso i calzoni della divisa, fino a metà coscia. Rimango qualche secondo in slip davanti a lui. Il suo sguardo è fisso al mio ventre e alle mutandine. Con lentezza mi abbasso le mutandine, scoprendo così tutta la mia nudità.
"Yuko, ti voglio da morire."
"Prendimi, Paolo, prendimi ora."
"Ma tesoro, ti contagio!"
"No, metti questo guanto, così."
"Non ce ne vuole un altro?"
"No, voglio farti sentire come sono calda, farti percepire il bagnato."
Mi avvicino a lui, allargo le gambe. Paolo non si muove. Gli prendo la mano e me la dirigo fra le cosce. Ecco, mi accarezza i peli del pube, poi scende. Mi passa le dita sugli inguini, senza la fretta di entrarmi subito dentro. Gemo al solo tocco delle sue dita; mi basta che mi sfiori, talmente tanto desiderio ho accumulato, che ora appena sento che mi esplora nelle mie zone più sensibili mi sciolgo in gemiti. Mi entra dentro, prima solo con un dito. Lo estrae coperto di liquido filante.
"Te l'avevo detto che volevo farti percepire quanto ti desidero."
"Yuko, io..."
"Sssst! Accarezzami. Non pensare ora ad altro che al mio corpo ed al fatto che mi stai toccando, mi stai entrando dentro."
Lui mi tocca, mi penetra. Mi avvicino. Voglio che senza l'odore della mia eccitazione. Mi entra dentro, mi accarezza, leggero e delicato. Stringo la vulva attorno alle sue dita, con l'altra mano lo indirizzo dentro, lo voglio più dentro di me, profondo.
"Paolo, mi stai facendo venire."
"Sei troppo bella, io, io vorrei..."
"Toccati anche tu, mentre tocchi me, spogliati."
Mentre lui sposta le lenzuola e abbassa il pigiama, io mi abbasso la mascherina.
"Voglio che tu mi veda quando mi doni piacere, voglio che tu guardi la mia bocca aprirsi mentre gemo e ti desidero."
Riprende a toccarmi, mentre si accarezza, io ansimo, gemo, lo voglio.
Poi mi avvicino e sono io a prendergli il membro in mano. Lui tocca me, si infila dentro di me e io lo accarezzo.
"Aspetta", lo fermo solo per un istante. Mi metto un guanto pulito, mi infilo dentro tre dita, me le passo bene in profondità e quando le tiro fuori coperte dei miei umori, riprendo ad accarezzargli l'asta. Il contatto del pene con i miei liquidi lo fa gemere profondamente.
Speriamo che nessuno ci senta.
La mia mano scorre più dolcemente ora che il suo membro è coperto del mio muco. Riprende ad infilarmi, mi guarda mentre godo, raccoglie i miei mugolii, mi guarda il seno che ondeggia alle prime scosse di piacere che muovono il petto.
"Più dentro, Paolo, più dentro, toccami, spingi, ti voglio dentro."
"Yuko, io sto per... Yuko... Yuuuukoooo!"
Un getto di sperma mi colpisce il ventre, caldo, poi un altro, che trattengo nel guanto, mentre mollo la mano che reggeva i miei indumenti sollevati; gli prendo la mano e me la spingo dentro. Col bacino mi spingo verso di lui, e prima che finisca il suo orgasmo, mi stringo sulla sua mano mentre vado in estasi. Trattengo qualche gemito tra le lebbra serrate, il ventre sussulta di scosse di piacere. Poi un lungo, lunghissimo sospiro.
Ci guardiamo. Abbiamo fatto l'amore.
Lui annaspa nella maschera. Gli aumento l'ossigeno. Mi sistemo la casacchina al meglio e, dopo avergli concesso una lunga occhiata, mi sollevo le mutandine ed i calzoni. Il camice plasticoso ricopre tutto.
"Visto?" concludo, mentre, sotto il camice, ancora accaldata, riprendo a sudare come una fontana, "basta adattarsi, Paolo, basta volerlo."
"Yuko, io non so proprio come..."
"Non pensarci neanche! Ora riposa, se no a domani non ci arrivi."
Riesco a farlo sorridere, il che è merce rara di questi tempi.
Lui ora dorme, gli ho riabbassato l'ossigeno. Una carezza sul capo, e poi esco, a controllare altri pazienti che dormono.
Solo poche ore dopo ritorno nella sua stanza. Sta ancora dormendo. Gli lascio un caffè delle macchinette sul comodino e vado a dare le consegne della notte.
Nei giorni successivi Paolo peggiora. Ora deve tenere la maschera tutto il giorno, ad alti flussi e con pressione crescente.
Io proseguo a fare turni di notte per potergli dedicare più tempo possibile.
"Paolo, come va?" Entro in camera sua una delle sere successive.
Lui mi guarda e mi risponde solo con un cenno. Non riesce a parlare.
Faccio il mio giro visite notturno, controllando i pazienti che ho in consegna. Aggiusto qualche terapia e torno da lui.
"Stasera non ce la faccio a fare sesso."
Sorrido, mi colmo di tenerezza per la premura.
"Non ce n'è bisogno, ho portato un libro da leggerti."
"Yuko, io non so quanto andrò avanti, io vorrei interrompere questa relazione."
"Non dire stupidate."
"Yuko, stiamo facendo una cazzata e tu starai male come una bestia."
"Non preoccuparti per me, io sto bene e non ti permetto di cercare di rovinarmi anche solo uno di questi minuti con te."
"Ma non capisci?"
"No, Paolo, sei tu che non capisci. Ora smettila. Mettimi una mano sulla coscia e io ti leggo questo libro di Buzzati."
"Io..."
"Tu?" lo guardo minacciosa.
"Io ti amo."
"Finalmente fai giudizio. Ora respira, che quasi ti restano solo le branchie".
Gli leggo il libro, il racconto bello e struggente del Colombre, di Buzzati, ma lui si addormenta quasi subito, la sua mano sulle mie ginocchia.
Lo lascio riposare. Al mattino un rapido saluto. Sullo smonto notte vado a farmi un giro in scialpinismo con un'amica, ma domani sarò di nuovo di fianco a lui, per quelli che forse sono i suoi ultimi giorni.
"Yuko" mi chiama mentre sto per uscire.
"Dimmi, tesoro."
"Io credo che dovremmo interrompere."
"Smettila. Se tu non mi molli, io non ti lascio solo. E se mi molli tu, ti ammazzo io, ma di botte!"
Mi saluta con un sorriso triste e poco convinto. Difficile cambiare la testa di una persona, praticamente impossibile.
Neve polverosa sui crinali in discesa dalla Grigna.
Alessandra è già scesa con la tavola precedendomi, mentre io mi attardo in qualche curva. Sento la stanchezza della notte e l'ora è anche abbastanza tarda. Colpa mia, ma prima non potevo proprio partire.
Ale mi aspetta al colletto, dietro un costone di roccette che sporgono dalla coltre nevosa.
Seguo le sue tracce mentre taglio il pendio e d'improvviso sento muoversi tutto il terreno. La neve si apre e cerca di ingoiarmi. Mi trovo girata faccia a valle, con le braccia cerco di nuotare in questa maledetta slavina che chissà perchè è partita proprio adesso. Gli sci mi si staccano e sono più libera di muovermi per restare a galla, ma la neve in movimento mi arriva già alle ascelle.
Riesco a respirare, sono ancora fuori, ma un blocco di neve mi passa sulla testa. Vedo tutto buio per qualche secondo. Non so neanche se mi sto muovendo o se sono ferma. Il blocco però si sposta e torno a vedere la luce. Ho la prontezza di pensiero per realizzare che sono in guai seri, ma almeno sono ancora fuori. Poi di nuovo buio. Un buio e un silenzio insondabili. Non riesco a muovere le gambe, imprigionata nella neve.
Ospedale.
Giro visita del mattino molto faticoso. Un pessimo inizio di settimana.
Il paziente al letto 32 sta male, il trentenne con prognosi infausta. Già un miracolo che abbia resistito così tanto tempo, sembrava quasi stabilizzato, fino a pochi giorni fa, quando ha ricominciato a peggiorare. È il paziente al quale si è affezionata Yuko. Forse con qualche terapia azzeccata è riuscita a dargli qualche giorno di vita in più, ma a qual pro?
Il medico di turno del mattino aumenta ancora l'ossigeno. Siamo però al massimo. Il passo successivo sarà la morfina.
"Come va, Meciani?"
"Eh, oggi non tanto bene, siamo alla fine!"
"Su, dai. Le faccio un bolo di cortisone e aumentiamo l'ossigeno. Starà subito meglio."
"Ma dottore, non serve a nulla!"
"Coraggio, Meciani. Cerchiamo di farla stare bene. Ogni ora in più..."
"Si, me lo dice sempre la sua collega, la dottoressa Nikura. Stasera fa ancora la notte, se non sbaglio."
Il medico si ferma portandosi la mano sugli occhi. Una pausa interminabile.
"Signore Meciani, ho una brutta notizia. Yuko..."
"Yuko?"
"Yuko è morta ieri sotto una slavina."
Scritto a pezzi durante una notte di guardia in un reparto COVID, nel tempo libero tra un paziente e l'altro.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Effetti collateraliracconto sucessivo
Dispersi nello spazio
Commenti dei lettori al racconto erotico