Firenze, Santa Maria Novella

di
genere
saffico

[prosecuzione di 'Jap story - sweet dreams' di Runningriot]

“Yuko, passami la giacca!”
“Ma che hai fatto?”
“Non lo so, ma mi sento il culo per aria!”
“Girati!”
Annalisa si gira per farsi vedere.
“Omminchia!! Ma come cazzo hai fatto?”
“Ma che ne so, mi sono alzata di scatto e ho sentito un rumore di strappo! Ma non ci avevo fatto caso, è stata la sciura, quella là col lab top, quella che doveva fatturare anche in treno. Mi ha guardato il culo per dieci minuti e poi mi ha anche detto di mettere le mutande la prossima volta. Ma che c'è?”
Mi metto a ridere. Copro la bocca con la mano, ma rido sempre più forte.
“Cazzo ridi? Dai, come sto messa?” si mette a ridere anche lei.
Ridiamo tutte e due come due rincoglionite.
“Cazzo, hai sbagliato candeggio!”
“Cioè?”
Continuo a ridere, ma intanto le porgo la giacca. Lei si copre subito, una specie di gonnellino che mi fa ridere ancora di più.
“Dai scendiamo, se no ci troviamo in Egitto.”
Lei mi segue. “Sono messi male, i calzoni, dico?”
“Tesoro, non hai più dei calzoni”, rispondo mentre scendiamo dal treno, “hai uno squarcio da parte a parte, ti si vede tutto il culo, ma proprio tutto!” e mi rimetto a ridere.
“Hai scelto il giorno sbagliato per non metterti le mutande!”
“Ma te l'ho detto che ero di fretta. Se mi fossi messa le mutande chissà dove saresti tu ora, e chissà dove sarei io!”
Mi fermo. Ha ragione. Se ha ragione, ha ragione, non c'è da stare a discutere.
Mi giro verso di lei. Mi guarda con un'espressione da cane bastonato, mentre si regge la giacca che copre le sue nudità.
“Annalisa, hai un sedere che è proprio una meraviglia. È davvero un peccato coprirlo. L'umanità dovrebbe avere libero accesso a certi patrimoni. Ma, adesso questo culetto è solo per me.”
Sembra contenta. Accenna ad una risposta, ma io le passo le braccia attorno ai fianchi e me la tiro appiccicata a me, la sua topa sulla mia. Le metto anche una mano sul culo per stringermela bene addosso.
“Io ora sarei nella merda, se ti fossi messa quelle mutande. Starei sprofondando in un oceano. Tu, non so.”
“Io ti starei ancora rincorrendo sui binari, inseguita dalla polizia ferroviaria” fa lei e sento le sue tette sulle mie, le sue braccia che mi avvolgono, due rami di una pianta rampicante che mi cingono e mi stringono a lei. Le cerniere dei nostri calzoni sono appiccicate, sento il suo calore che mi giunge sul basso ventre.
La sollevo quel tanto che basta per portarmi la sua bocca sulle labbra.
Restiamo lì, abbracciate. Sento il suo odore, il mio sguardo nel suo. I miei occhi che si spostano rapidi, da uno all'altro dei suoi, azzurri, immensi, morbidi, invitanti, rassicuranti. Un mare infinito in cui naufragare.
Allunga le sue labbra e sfiora le mie. Un bacetto. Glielo rendo subito. Un altro bacetto. Segue un bacetto sincrono. Un altro. Le sue labbra morbide.
Quell'espressione degli occhi, a volte provocatoria, a volte quasi insolente; la piega delle sue labbra, beffarda, canzonatoria.
Un altro bacetto.
La gente ci passa di fianco, ci guarda strana. Qualche espressione di disappunto.
“Ma tu guarda 'ste du bischere sciolte!”
Un altro bacetto, poi un altro.
Con la coda dell'occhio vedo un gruppo di ragazzi che ci passa di fianco guardandoci con interesse.
Ma sento sulle labbra la morbida consistenza delle labbra di Annalisa.
Un altro bacetto.
Sento un calore che dalle labbra si infila sotto i capezzoli, me li gonfia e me li spinge contro il petto della bionda e poi un formicolio che scivola giù sciogliendomi l'apparato genitale. Ho il tempo e la lucidità di percepire le piccole labbra che si contraggono, come molluschi vivi turbati da uno schizzo di limone.
Un altro bacetto mentre sento le forze che mi lasciano, le ginocchia che si piegano, ma stringo Annalisa, come se volessi raccoglierla nel mio utero, tenermela dentro per una gestazione, nutrirla di me, scaldarla e proteggerla.
Un altro bacetto e poi... poi non resisto più.
I rumori attorno a me si ovattano, i contorni luminosi si increspano diventando liquidi scintillii che incorniciano i capelli biondi della donna che stringo fra le braccia, un'aureola argentata ed indistinta.
I miei occhi lasciano il suo sguardo per impossessarsi delle sue labbra; piego appena la testa di lato ed apro un poco la bocca. Non vedo più nulla mentre le palpebre mi si chiudono e sporgo la lingua tra le labbra, prima ancora di sentire la sua.
Ma la sua mi viene incontro. La sento fresca, all'aria aperta, ma subito la mia bocca si serra alla sua, la mia lingua le entra dentro ed accolgo la sua dentro di me.
La sento che mi scivola addosso, mi circonda e mi accarezza, in una lenta rotazione, la mia intorno alla sua e la sua intorno alla mia.
Aspiro la sua saliva nella mia bocca e mi spingo più dentro, spostando una mano dietro alla sua nuca per appiccicarmi di più a lei.
Le bocche si aprono, come a volerci mangiare, strette una sull'altra.
Il suo corpo mi scivola tra le mani, mi piego su di lei, sbandiamo ed andiamo a finire appoggiate ad un cartello pubblicitario, e in tutto questo continuiamo a baciarci ad occhi chiusi.
La stazione ferroviaria potrebbe sparire e noi ritrovarci adagiate nell'ovatta di una nuvola.
Potrei percepire la sabbia fine e fresca tra le dita dei piedi che si insinuano sotto la calda superficie di una spiaggia, mentre con il nostro bacio infinito veniamo trasportate sulla rena di un'isola dell'oceano Pacifico. Non sento alcun rumore se non il respiro affannoso della ragazza che mentre mi prende con foga si arrende al mio bacio ed al mio abbraccio. Ne percepisco i gemiti ed allora le consegno i miei.
La sua lingua umida e morbida, viva e vitale. Le mie labbra strette sulle sue quasi a farsi male.
Ormai senza fiato mi stacco lentamente da lei, ma le nostre lingue ancora si toccano e quando le labbra si lasciano, le lingue ancora si cercano, fuori dalla bocca.
La mia gira intorno alla sua.
La punta viscida, calda e liscia, ancora sulla mia, quando riapro gli occhi e la vedo che mi guarda.
Il respiro affannoso, ancora ci scambiamo l'alito, come l'effusione delle nostre anime, consegnate, arrendevoli, nelle mani una dell'altra, nelle pieghe più profonde del cuore.
Stacchiamo le lingue e ancora un filo di saliva ci unisce.
La presa sui fianchi si ammorbidisce e restiamo a guardarci senza fiato, abbracciate, affannate.
Potrebbe essere passata un'ora. Potrei anche aver avuto un orgasmo, o anche più di uno, senza accorgermene. Potrei essere nuda nelle sue braccia e lei nuda nelle mie.
Avvolte in un guscio, in un'aura dorata, in ginocchio una di fronte all'altra su un mare di fiori.
Klimt sarà stato posseduto da una divinità che gli muoveva le mani, che ne suggeriva e guidava sapientemente il pennello, che ne ispirava le miscele dorate, mentre dipingeva il suo quadro più famoso.
E dovevo solo ora scoprire questa dea dalla corona con sfumature di topazio per ritrovarci dentro il quadro dell'artista di Vienna, insieme, fuori dal tempo e dalle cose.
Ci guardiamo in silenzio.
“Annalisa.... neanche dal dentista quando mi ha fatto l'igiene orale!” ho solo la forza di pronunciare.
Lei ride “Cazzo dici, jap!”
Tiro un sospirone, come se non respirassi da dieci minuti.
Il gruppo di ragazzi ci lancia sguardi di congratulazione e di ammirazione devota. Uno si tocca anche il pacco, per enfatizzare. Si bisbigliano qualcosa all'orecchio e cominciano ad allontanarsi. Abbiamo regalato un momento di rilassamento.

Ma un controllore della stazione, con uno sguardo accondiscendente da Geppetto, trova il coraggio di avvicinarsi e con tutta la tenerezza possibile: “Oh grulle! V'ha dato di barta i' cervello?”
Lo guardiamo senza capire il significato delle parole; ma il senso sì, ci raggiunge, come pure la rispettosa delicatezza dell'impiegato, che deve aver capito che proprio non poteva interromperci a metà.
“Dai, un se fanno 'ste hose; non davanti attutti, maremma 'mpestata!”
Annuiamo come due scolarette colte a chiacchierare nell'ultima fila dei banchi, mentre tra di noi ci stringiamo ancora forte una mano per l'emozione del bacio che non si è ancora assopita.
“Ce scusi”, prende la parola la romana, “ma proprio un se poteva aspettà!”
Quello sorride e scuote la testa, quasi dispiaciuto. Ma il suo lavoro lo doveva fare; stavolta, sembra, proprio a malincuore.
“Sì... bona Ugo!” ci risponde e si congeda sommessamente. Di spalle vediamo che ancora scuote un po' il capo. Lo immagino sorridere.
I ragazzi si allontanano dandosi di gomito. Gli è toccata una bella sorpresa. Vabbè, a me non importa, basta che non ci arrivi una denuncia e già la bionda che girava col culo per aria in treno ha rischiato parecchio.

L'aria di Firenze è sempre buona e tiepida. Tiro un respirone e mi immagino di percepire profumi di fiori e piante, anche se magari è un'illusione.
Devo liberarmi i polmoni dallo smog di Milano, quelle particelle di PM 1 che si impregnano di nebbia e ci appiccicano ai bronchi, dandoti quel senso di soffocamento continuo, quella respirazione che, poco sotto il livello della coscienza, è comunque dolorosa e faticosa e di cui ti accorgi solo quando ti allontani dalla città industriale. Altrochè 'polmone' della finanza. Piuttosto un sottile cancro che si insinua.
“E mo?” mi apostrofa Annalisa; con quel gonnellino hawaiano mi fa ancora spezzare dalle risa.
“Mo vieni!”
La prendo decisa per la mano, con l'altra mi trascino il trolley, manco fossi una lumaca che gira per il nord ed il centro Italia portandosi dietro la casa.
Mi guardo in giro. In fondo vedo il cartello. Ma perchè i cessi della stazione sono sempre in culo al mondo? Fai in tempo a pisciarti addosso prima di arrivarci.
Di corsa. La ragazza si tiene la giacchetta mentre, nella corsa, i calzoni si dilaniano sempre di più.
Cesso degli uomini. Miasmi da savana. Tanfo mefitico di piscio fermentato e ammoniaca.
Cesso delle donne. Circa uguale, forse anche un retrogusto di mestruo.
Mi trascino la laziale dentro. Per fortuna la martire delle pulizie, dopo una lotta impari, esce vittoriosa tra coreografie di candeggina, una fontana di Trevi di ipoclorito di sodio.
Ci vede entrare trafelate e ficcarci in un bagno. La chiave che scatta con un rumore secco.
“Maremma scortihata viva!” e si allontana.
“Yuko, cazzo fai?”
“Non puoi andare in giro col culo per aria, non è che sia gelosa, neh, ma sai, qui la gente mormora, e poi prendi freddo al culetto e se ti viene lo 'squaro' so' hazzi amari!” cerco di imitare l'accento del posto, incurante di sembrare ridicola. Una giapponese che parla toscano non si può proprio vedere.
“Cos'è lo squaro?”
“Squaraus, squarauz! Come lo dite arroma? La sciolta?”
Si mette a ridere, ma io la ribalto. La sbatto sul cesso, di schiena e le tiro su le cosce.
“Fiiiigaaa!” Annalisa vede da vicinissimo il pavimento del cesso, la minaccia batteriologica a tre dita dal naso.
Le scarpe volano via e mi metto a tirarle via le braghette.
“Dai ti tolgo questo abbigliamento da troiona e ti do qualcosa di mio”
“Ouh! Ma come ti permetti!”
“Beh, con quello squarcio sul culo, è più che una promessa!”
Tiro i calzoni sulle cosce dritte per aria; Annalisa sfila, ma il tessuto è stretto e, scopro ora, bello zuppo di iridescente bava di lumaca. “Cazzo hai fatto qui dentro, le bolle di sapone?”
“Sogni erotici, sai com'è...”
Si so benissimo com'è e, anzi, ora che mi ci fa pensare, davanti al naso ho la sorca della bionda a pochi centimetri.
La sorca e un po' di culo, quelle meravigliose chiappe tonde e lisce, chiuse dalle cosce chiuse nella camicia di forze dei calzoni maledettamente aderenti.
“Minchiazza quanto sei figa con le cosce nude e imbavagliate, e i calzoni a metà, e la topa qui, sotto il naso, a portata di lingua!”
“Ma non dovevamo cambiarmi i vestiti?”
“Carpe diem!”
“Eeeh?”
Me ne fotto. Mi inginocchio sul pavimento e mi immergo tra quelle cosce serrate.
Ci affondo il naso ed il muso.
Annalisa urla, non se l'aspettava. La mia faccia scompare quasi interamente nella sua vulva.
Molle, bagnata, soffice e cedevole.
Sapore di figa.
Stretta tra i prosciutti, la mia lingua saetta lungo il solco, ma subito risalgo sul pistillo.
“Caaaaaazzo, Yukoooooooooo!!!” inizia a gemere lei. Mi afferra per i capelli e mi imprigiona tra le sue cosce.
Per la mia lingua c'è solo il suo clitoride.
Lo strofino così forte che potrei accendere il fuoco.
Quella urla, continua ad urlare, neanche ci prova a trattenersi e io mi immagino le folle fuori dal cesso a fare il tifo.
Le infilo le mani sotto il maglioncino e mi arpiono alle tette, le stringo i capezzoli che sono diventati due vette dolomitiche, le strizzo la polpa morbida e quando le urla si trasformano in rantoli strozzati mi fermo di colpo.
Sento solo il suo respiro accelerato.
“Invoco l'eutanasia....” sussurra una voce implorante oltre le cosce.
Riprendo, prendendole in bocca le piccole labbra, le risucchio fin quasi a farle male e me le lascio scivolare lentamente tra le labbra.
Un lungo miagolio mi conferma che la manovra non è passata inosservata.
Mi riempio di saliva e rifaccio il movimento al rallentatore.
“Fammi morire, risuscitami e ammazzami di nuovo!”
Affondo la lingua più dentro che posso in vagina e ritorno al botton d'oro.
Lo succhio e lo lascio, glielo spompino stringendolo tra le labbra fino a quando sta per impazzire.
Lei riesce finalmente a liberarsi di una gamba dei calzoni e spalanca le cosce come la saracinesca di un'edicola pronta a vendere la gazzetta dello sport dopo il derby.
Mi tira per i capelli con una mano e con l'altra mi spinge la nuca per fagocitarmi tra le sue cosce, come una stella marina che vuole divorare un incauto mollusco esotico.
La mia lingua riprende a frullarle quello che ormai è una tour Eiffel tra le vetrine lucide e brillanti dei Champs-Èlysées delle sue labbra vaginali.
Lei urla come una sirena del coprifuoco finchè non le infilo tutto un pollice nel buchetto che, sotto la vulva, sento che mi invoca e mi implora.
L'urlo si strozza, diventa un rantolo. Mi stritola tra i suoi arti; io mi sento una lottatrice di sumo che sta per soccombere, ma il rantolo, il gorgoglio, esplode in un liberatorio boato da stadio.
Uno schizzo di bava mi entra in gola direttamente dalla sua vagina, e, come i suoi genitali si svuotano dentro di me, i suoi polmoni si svuotano di un metro cubo d'aria, scalzando le tegole di questo innocente cesso della stazione Firenze SMN.
Rimaniamo in una situazione di impasse per un tempo indeterminato, comunque superiore alla mia capacità di apnea, finchè la bionda molla la presa, non prima di avermi lussato la mandibola, e riprende a respirare, come un neonato uscito dall'utero che inala aria per la prima volta.
Tolgo il dito dal culetto, prima che resti intrappolato come in una tagliola, raccolgo il brodino che le cola dalla vulva e lo porto amorevolmente sullo sfintere anale.
La piccola ansima sudata ed io le accarezzo il culetto con lo champagne della sua vulva.
“Yuko....” sospira mentre con la lingua ancora le accarezzo il buchetto, raccogliendo i suoi sospiri che gradualmente ritornano normali.
Spingo la lingua dentro, fino a sentire il suo sapore amaro, poi ancora intorno, fino a che la sua mano mi si infila tra i capelli e mi gratta delicatamente.
“Così mi fai venire di nuovo”
“Sono la tua geisha”
“Non qui”
Allarga le cosce e solleva di nuovo il maglioncino del colore dei suoi occhi fino a scoprire il seno, invitandomi a giacere su di lei.
Risalgo come una serpe d'acqua sul suo corpo sudato e la bacio sulle labbra.
Il muso bagnato dallo zabaione della sua fregna.
Lei mi lecca intorno alle labbra, si nutre del suo sapore e della mia saliva. Sento ancora che mi accarezza infilando le dita tra i capelli sulla nuca, poi svengo sopra di lei.
di
scritto il
2020-11-24
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