Sinfonia d'autunno
di
Yuko
genere
sentimentali
Sfido il freddo e, ricoperta da pesanti indumenti, mi inoltro nel bosco rado.
Ma presto lascio il sentiero su cui si affrettano energici camminatori.
Cerco la pace di un prato inondato di sole, lontana dai sentieri e dalla gente, che mi conceda la vista sui monti e un ampio sguardo sulla selva rada. I larici stanno cambiando coloro e resterò a spiarli, immobile come una roccia.
Contemplo intorno a me un anfiteatro di conifere.
Una distesa verde bottiglia su cui contrastano vistosamente numerosi fiocchi giallo oro.
Qualche cembro si infila discreto, ma la maggior parte delle piante è costituita da abeti e larici.
Controluce la penombra è picchiettata di piccoli oggetti luminosi che il vento semina come prematuri fiocchi di neve.
Mi sdraio sul prato, il sole mi scalda e tolgo guanti e cappellino.
Lo sguardo vaga contemplando gli spazi aperti e senza mai posarsi su un singolo particolare, ma cercando prima di abbracciare l'insieme, per concedermi, solo dopo, di sostare sui singoli elementi.
Le fronde piene degli abeti offrono riposo allo sguardo: rami verdi, gonfi e carnosi, velluti morbidi verde smeraldo. Le ombre scure ne esaltano le riminiscenze del colore di dioptasio.
I larici si spogliano delle livree autunnali, con decoro e dignità. Fiamme tenui di labili fuochi fatui colore oro invecchiato. Campi di orzo maturo che si lasciano cullare dal vento.
Le due piante si mescolano, come seminate da un pittore sapiente, e i colori autunnali esplodono in contrasti provocanti.
Mi soffermo a scrutare questi alberi che, dopo aver verdeggiato insieme nell'estate montana, ora si dividono in percorsi cromatici divergenti.
Rami di abete, regolari e concavi verso l'alto, come le gronde ricurve dei templi buddisti giapponesi, cesellate e arricchite con appendici di draghi, ripetute in piani successivi.
Rami di larici mestamente si piegano irregolarmente verso il basso, come a voler incontrare il terreno stanco e unirsi ad esso.
Abeti ostentatamente ricchi di aghi contrastano con i larici che se ne stanno spogliando, trasformandosi in scheletri ricoperti da cortecce erose e rugose.
Scarni tronchi si presentano come radiografie di toraci consumati dalla tisi.
I legni scuri che si innalzano come colonne vertebrali fino a sfidare il cielo, sostengono fragili coste rachitiche.
Tra le ipodiafanie delle fronde stanche, rilucono i raggi di sole, accendendo di giallo cadmio le labili sfumature degli aghi cadenti.
Un abete abbraccia un larice come a volerlo sostenere nella ciclica caducità autunnale. Rami verdi e forti si insinuano tra i festoni gialli di fronde che a capo chino si consegnano alla stagione fredda.
Gli aghi dei larici.
Il vento pascola residui di piume dai colori caldi.
Preludio tiepido di nevicate che livelleranno le insenature dei prati.
Piogge delicate di virgole dorate mi ricoprono e mi preparo a divenire elemento permanente di questo prato, tra questi tronchi, al capezzale di queste pareti antiche.
Uno scoiattolo corre attraverso il prato.
Il vento gioca tra le fronde facendone sublimare un dolce e monotono fruscio che mi avvolge e a cui mi abbandono. Il rumore di un aereo contende la scena a Eolo, ma questo, pazientemente lascia fare, nascondendosi solo per poco tra le rocce e riprendendo poi la situazione nelle sue mani.
A volte la rispettosa presenza eterea si china su di me vitalizzandomi i capelli sul volto, come a darmi un buffetto amichevole, una ossequiosa carezza.
Pini immobili come steli funebri vengono di colpo rianimati da una focosa e dispettosa vivacità.
Le fronde si contorcono come per sfuggire a delicate torture di solletico.
Sentori di pino serpeggiano tra le cime che ondeggiano incontro al cielo azzurro, come tentacoli di molluschi agonizzanti.
Chiudo gli occhi e ascolto il vento, ora lontano, tra le cime delle conifere, e ora vicino tra i miei capelli. Ascolto la sua canzone per scorgervi la tua voce e mi lascio sedurre dalle tue metafore; resto a naufragare nel flusso impalpabile, vezzeggiata dalla tua premurosa dolcezza.
Un cane abbaia in lontananza, ma trova presto quiete.
Quando riapro gli occhi il mio sguardo spazia lontano.
Velature azzurre sulle torri del Latemar racchiudono in freddi sigilli le ombre che preludono ai freddi invernali.
Una patina di fredda foschia mi riporta alla mente il quadro di Monet che raffigura Vétheuil nella nebbia, poco più palpabile di un sogno.
La neve sonnecchia sulle cenge senza badare all'ombra che voracemente conquista fessure e camini.
Maestosa indifferenza alle vicende umane, grandiosa imperturbabilità degli alti picchi.
I ghiaioni attendono rassegnati l'abito invernale.
Coraggiosi fumi lasciano i camini spandendo intorno vapori di resine combuste.
Una mosca si posa sul mio ginocchio.
L'insetto si liscia le zampette, si lucida le ali.
La contemplo estasiata, assetata di ogni forma di vita ancora attiva, anche la più precaria.
Desiderio di processi biologici, di trattenere e venerare ogni forma di quella vita che ora sento scivolarmi tra le dita, come sabbia di una inesorabile clessidra.
Una lenta transumanza di cirrostrati lentamente vela il cielo e imbavaglia il sole.
Il caldo tepore lascia il posto alla fresca brezza montiva.
Il vento mi ricopre di aghi di larici e in qualche modo ti sento più vicina.
Mi rimetto cappellino di lana e guanti e lentamente scendo lungo il prato sfiorando il confine del bosco.
“Eppure il vento soffia ancora
Spruzza l'acqua alle navi sulla prora
E sussurra canzoni tra le foglie
Bacia i fiori, li bacia e non li coglie.
Eppure sfiora le campagne
Accarezza sui fianchi le montagne
E scompiglia le donne fra i capelli
Corre a gara in volo con gli uccelli.
Eppure il vento soffia ancora!”
Ma presto lascio il sentiero su cui si affrettano energici camminatori.
Cerco la pace di un prato inondato di sole, lontana dai sentieri e dalla gente, che mi conceda la vista sui monti e un ampio sguardo sulla selva rada. I larici stanno cambiando coloro e resterò a spiarli, immobile come una roccia.
Contemplo intorno a me un anfiteatro di conifere.
Una distesa verde bottiglia su cui contrastano vistosamente numerosi fiocchi giallo oro.
Qualche cembro si infila discreto, ma la maggior parte delle piante è costituita da abeti e larici.
Controluce la penombra è picchiettata di piccoli oggetti luminosi che il vento semina come prematuri fiocchi di neve.
Mi sdraio sul prato, il sole mi scalda e tolgo guanti e cappellino.
Lo sguardo vaga contemplando gli spazi aperti e senza mai posarsi su un singolo particolare, ma cercando prima di abbracciare l'insieme, per concedermi, solo dopo, di sostare sui singoli elementi.
Le fronde piene degli abeti offrono riposo allo sguardo: rami verdi, gonfi e carnosi, velluti morbidi verde smeraldo. Le ombre scure ne esaltano le riminiscenze del colore di dioptasio.
I larici si spogliano delle livree autunnali, con decoro e dignità. Fiamme tenui di labili fuochi fatui colore oro invecchiato. Campi di orzo maturo che si lasciano cullare dal vento.
Le due piante si mescolano, come seminate da un pittore sapiente, e i colori autunnali esplodono in contrasti provocanti.
Mi soffermo a scrutare questi alberi che, dopo aver verdeggiato insieme nell'estate montana, ora si dividono in percorsi cromatici divergenti.
Rami di abete, regolari e concavi verso l'alto, come le gronde ricurve dei templi buddisti giapponesi, cesellate e arricchite con appendici di draghi, ripetute in piani successivi.
Rami di larici mestamente si piegano irregolarmente verso il basso, come a voler incontrare il terreno stanco e unirsi ad esso.
Abeti ostentatamente ricchi di aghi contrastano con i larici che se ne stanno spogliando, trasformandosi in scheletri ricoperti da cortecce erose e rugose.
Scarni tronchi si presentano come radiografie di toraci consumati dalla tisi.
I legni scuri che si innalzano come colonne vertebrali fino a sfidare il cielo, sostengono fragili coste rachitiche.
Tra le ipodiafanie delle fronde stanche, rilucono i raggi di sole, accendendo di giallo cadmio le labili sfumature degli aghi cadenti.
Un abete abbraccia un larice come a volerlo sostenere nella ciclica caducità autunnale. Rami verdi e forti si insinuano tra i festoni gialli di fronde che a capo chino si consegnano alla stagione fredda.
Gli aghi dei larici.
Il vento pascola residui di piume dai colori caldi.
Preludio tiepido di nevicate che livelleranno le insenature dei prati.
Piogge delicate di virgole dorate mi ricoprono e mi preparo a divenire elemento permanente di questo prato, tra questi tronchi, al capezzale di queste pareti antiche.
Uno scoiattolo corre attraverso il prato.
Il vento gioca tra le fronde facendone sublimare un dolce e monotono fruscio che mi avvolge e a cui mi abbandono. Il rumore di un aereo contende la scena a Eolo, ma questo, pazientemente lascia fare, nascondendosi solo per poco tra le rocce e riprendendo poi la situazione nelle sue mani.
A volte la rispettosa presenza eterea si china su di me vitalizzandomi i capelli sul volto, come a darmi un buffetto amichevole, una ossequiosa carezza.
Pini immobili come steli funebri vengono di colpo rianimati da una focosa e dispettosa vivacità.
Le fronde si contorcono come per sfuggire a delicate torture di solletico.
Sentori di pino serpeggiano tra le cime che ondeggiano incontro al cielo azzurro, come tentacoli di molluschi agonizzanti.
Chiudo gli occhi e ascolto il vento, ora lontano, tra le cime delle conifere, e ora vicino tra i miei capelli. Ascolto la sua canzone per scorgervi la tua voce e mi lascio sedurre dalle tue metafore; resto a naufragare nel flusso impalpabile, vezzeggiata dalla tua premurosa dolcezza.
Un cane abbaia in lontananza, ma trova presto quiete.
Quando riapro gli occhi il mio sguardo spazia lontano.
Velature azzurre sulle torri del Latemar racchiudono in freddi sigilli le ombre che preludono ai freddi invernali.
Una patina di fredda foschia mi riporta alla mente il quadro di Monet che raffigura Vétheuil nella nebbia, poco più palpabile di un sogno.
La neve sonnecchia sulle cenge senza badare all'ombra che voracemente conquista fessure e camini.
Maestosa indifferenza alle vicende umane, grandiosa imperturbabilità degli alti picchi.
I ghiaioni attendono rassegnati l'abito invernale.
Coraggiosi fumi lasciano i camini spandendo intorno vapori di resine combuste.
Una mosca si posa sul mio ginocchio.
L'insetto si liscia le zampette, si lucida le ali.
La contemplo estasiata, assetata di ogni forma di vita ancora attiva, anche la più precaria.
Desiderio di processi biologici, di trattenere e venerare ogni forma di quella vita che ora sento scivolarmi tra le dita, come sabbia di una inesorabile clessidra.
Una lenta transumanza di cirrostrati lentamente vela il cielo e imbavaglia il sole.
Il caldo tepore lascia il posto alla fresca brezza montiva.
Il vento mi ricopre di aghi di larici e in qualche modo ti sento più vicina.
Mi rimetto cappellino di lana e guanti e lentamente scendo lungo il prato sfiorando il confine del bosco.
“Eppure il vento soffia ancora
Spruzza l'acqua alle navi sulla prora
E sussurra canzoni tra le foglie
Bacia i fiori, li bacia e non li coglie.
Eppure sfiora le campagne
Accarezza sui fianchi le montagne
E scompiglia le donne fra i capelli
Corre a gara in volo con gli uccelli.
Eppure il vento soffia ancora!”
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