Spotlight
di
Yuko
genere
voyeur
Un lampo fende l'oscurità.
Nel buio più assoluto di questa stanza, una luce cerca il mio corpo.
Un fascio ristretto, un pallino luminoso di due o tre centimetri di diametro soltanto.
Ma solo così ho deciso che potrai vedermi, in questo gioco sadico e sensuale.
Sono nuda, da qualche parte. Probabilmente sdraiata sul divano.
A fatica percepisci il mio respiro leggero, ma nel silenzio assoluto si deve svolgere questo gioco e allora il mio respiro sarà tutto ciò che riempirà l'assenza di ogni suono.
La visione ristretta, l'ascolto imbavagliato. Il tatto limitato al fascio di fotoni che mi cerca nelle tenebre. Nessun gusto, forse l'illusione di un odore.
I tuoi sensi acuiti mi cercano, mi invocano, ma solo in minuscoli frammenti mi avranno.
Mi concederò tutta, ma solo in minuti assaggi.
Supplirai con la fantasia e con riminiscenze e vaghe impressioni a quello che concederò ai tuoi sensi incatenati.
La luce lampeggia come un raggio laser impazzito, finchè nel minuscolo alone inquadri un lembo della mia pelle.
Muovi l'occhio luminoso e mi perdi, torni sui tuoi passi.
Sono ancora lì, ma non sai in quale posizione mi dovrai esplorare.
Una sperduta isola di bagliore si muove incerta su una mia coscia.
Un'estensione troppo limitata per una ricostruzione anatomica.
La luce si muove, arriva al ginocchio, ma non lo identifica.
Scende ancora sulla gamba. Nessun suono, nessun odore.
Incede l'occhio indagatore e inquadra le dita di un piede.
Unghie smaltate.
Finalmente un particolare riconoscibile, che polarizza tutto l'orientamento.
Ma non c'è motivo di velocizzare il gioco.
L'occhio indaga, si muove fra le dita, si riflette sullo smalto fucsia, delimita tutto il contorno del piede, cerca il malleolo per concedere una luminosa carezza in una regione che tu sai essere molto sensibile.
E nella tua fantasia si insinuano sentori di donna, i primi, evocati, come in una seduta spiritica, dalla concreta visualizzazione del mio corpo.
Ti perdi in sentieri tra le dita del mio piede, senza fretta di abbandonarlo per altri lidi perchè sai che spostandoti verso isole più promettenti, perderesti la visione e il gusto di questa parte del corpo.
Ti insinui tra le dita, come una lingua famelica, per stimolare il mio desiderio e il mio piacere.
La lingua di un uomo tra le dita dei piedi!
Quanti uomini e quante donne si sono perse questa galassia di piacere, celata nell'universo del corpo di una donna.
Tu lo sai.
Scivoli sulle unghie smaltate, accarezzi il dorso del piede per doppiare i malleoli, come un coraggioso natante oltre capo di Buona Speranza, per ritornare, lascivo e seducente, ancora tra le dita del piede.
E io che mi sento accarezzata da questa impalpabile lingua, mi eccito.
Immagino il contatto, l'umido curiosare di questa appendice tra le dita dei piedi.
Labbra che suggono il mio alluce come laboriose api in fiori carichi di nettare.
Questo insistente contatto luminoso mi sta bagnando quasi come se una vera lingua si insinuasse tra le pieghe. Forse anche di più, perchè un desiderio crescente e non soddisfatto evoca ancor più una risposta che è un ulteriore invito.
Ma di questo odore tu non hai percezione e la tua mente è ancora troppo lontana dalla mia vulva per immaginare l'effetto che mi fai e che non posso palesarti.
Cerchi l'altro piede, ma non lo trovi.
Infatti non sto giacendo sul divano con le gambe parallele.
Lo cerchi ancora, quell'altro vertice, ma perdi il contatto con il mio corpo, e subito vi ritorni, come un maldestro nuotatore fa precipitoso ritorno al molo da cui inavvertitamente si è troppo allontanato.
Risali sulla gamba lambendo il polpaccio.
Percorsi che l'olfatto, più che la lingua, avrebbero saputo onorare, avvicinandosi gradualmente a quella pulsar che emette richiami odorosi che abita tra le mie cosce.
Ispezioni il ginocchio che prima non hai potuto riconoscere, ma il desiderio è tanto, e allora ti lasci risucchiare dalla mia coscia.
La luce disegna percorsi arabescati, indulgendo, evitando il facile tragitto diretto verso i miei inguini.
Il fascio di fotoni cerca, puntiglioso, la superficie interna.
Pelle chiara, resa ancora più abbagliante dall'oscurità soverchiante.
L'alone tondo si perde sulla vasta rotondità di quella zona così sensibile, di quel gorgo che, senza via di fuga, converge verso le profondità del buco nero, ormai in prossimità dell'orizzonte degli eventi.
Dalla forma circolare, la luce assume i contorni di un'ellisse, poi una parabole ed infine arriva l'iperbole.
Tutte le coniche sono rappresentate per enfatizzare la rotondità che converge al centro di gravità permanente.
Solletichi la mia pelle con quel fascio etereo ed è vero, il mio respiro cambia e diventa più profondo.
Il tuo udito, affinato dalla mancanza degli altri stimoli sensoriali, percepisce la variazione e rinnova i merletti che la lampada ad uncinetto rapisce dalla mia pelle sempre più sensibile.
Come un pugile che si ostina su una ferita emergente sul volto dell'avversario, anche la tua luce insiste in zone capaci di variare la sensibilità lungo curve esponenziali.
Con volute ravvicinate, come il gioco di fumo di un abile fumatore di pipa, ti avvicini alla convergenza delle gambe.
E già non sai a che punto del percorso ti trovi che di colpo nel tuo ristrettissimo campo visivo compare uno scuro labbro, così, prematuro e inaspettato.
Il diafano contorno si blocca, secondi in cui, in modo frenetico, la mente lavora per ricostruire una conoscenza anatomica che tramandi a memoria, ma che ora difetta per la visione assoggettata al campo stretto.
Il cerchio luminoso viene scosso da tremori di indecisione. Risale lungo i lembi della bocca del sesso che, convergendo, chiudono l'adito a mondi nascosti.
Le mucose scure hanno un effetto ipnotico e ricordi che nelle regole che abbiamo stabilito all'inizio del gioco, in tuo potere esiste la possibilità di comandare due desideri. Ma non vuoi rinunciare al tour completo e ora hai la possibilità di un excursus completo sul mio corpo, senza perdere nulla in seguito ad una decisione prematura.
Solo un rapido volteggio per vedere luccicare quell'apertura chiusa tra le labbra.
Brillamento che già manifesta il mio grado di eccitazione per questa impalpabile carezza che ora si attarda tra le pieghe della mia vulva serrata, incapace di raggiungere il clitoride, protetto ed ermetico.
Scivoli allora sull'altra coscia, che da questo punto è riconoscibile e percorribile.
La luce, senza che tu te lo fossi aspettato, viene dirottata verso l'alto mentre segui la mia pelle.
Non sai in che posizione mi sono messa e ora l'alone luminoso ti guida su sentieri inattesi.
Sali, ancora sali. Ma quanto sali?
Il fascio si blocca lungo una piega che è impossibile da confondere.
Scura piega curva tra due pallide e gonfie rotondità.
L'incertezza obnubila la tua mente.
Sicuro di trovarti sull'evocativa piega tra i glutei, la tua mente si confonde.
La esplori, quella piega. Quel buio che resiste al fascio di luce più ostinato. Quell'ombra sfumata che ti indirizza al buchetto del mio sedere.
Eppure in un posto del tutto sbagliato.
Dalla vulva ti sei mosso, ma io non mi sono mossa.
Hai seguito veramente la coscia, oppure sono io che mi sono adagiata in una qualche posizione che tu nemmeno puoi immaginare, imbavagliato dall'oscurità insondabile e armato di un solo spot del diametro di tre centimetri scarsi?
La luce percorre quella piega, vi si insinua e tu già immagini la tua lingua farsi strada tra le mie natiche per ghermire il mio buco più stretto.
Ma le tue seppur labili conoscenze anatomiche si ribellano.
Con la luce ti sposti da un lato e ti ritrovi sul vello nero da cui eri partito.
Risali fino alla seducente piega, ti sporgi al suo limitare e finisci sul velluto del divano.
Il silenzio è rotto dalla mia sommessa risata.
Non visualizzi una schiena, non le due fossette che sai trovarsi all'altezza della mia regione lombare.
Incerto prosegui oltre la piega, in un nuovo tragitto discendente, e scopri l'altro piede.
Perverso gioco di immagini ricostruite in pezzetti non più grandi di quelli di un puzzle che rappresenta un nudo di Renoir.
Un motto di stupore, una rivelazione.
Nella tua immaginazione ricostruisci l'immagine del mio ginocchio piegato.
Questa era la piega che avevi visto e confuso.
E mai, mai da quando ci conosciamo, hai saputo scoprire la sensuale somiglianza che assume la piega del polpaccio sulla coscia di un ginocchio flesso con la più nota e convenzionale piega, regina di tutte le pieghe del corpo di una donna.
La tua eccitazione, ora, cresce. Percepisco i movimenti di sangue nei corpi cavernosi.
Scendi a fare visita all'altro piede che, però, da questa angolatura, ben poco concede alla tua lingua luminosa.
Il profilo delle dita in prospettiva non ti lascia lo spazio per giocare nelle pieghe interdigitali e un volteggio intorno al malleolo trattiene solo per poco ancora le tue onde elettromagnetiche.
Risali fino alla piega sotto il ginocchio, ancora resti stupito di come, in un campo visivo di πr2
con r = 1.5 cm, la piega del ginocchio assomigli terribilmente al solco tra i glutei e ti spiace quasi di lasciare quel campo, ottimo succedaneo del mio sedere, che non potrai illuminare.
Ti sposti, serpeggiando sulla coscia senza premura e approdi, prima del previsto, ancora sull'inguine, al limite del pelo nero del mio pube, ben circoscritto e ordinato.
Ti muovi ora sui peli, come una tigre tra le fronde della jungla indiana, giochi con la luce, proiettando le ombre della foresta nera, ingigantendo i volumi o filtrando attraverso la rada coltre.
Circoscrivi lo spazio del mio monte di Venere e tutte queste immagini di pelo di donna che balenano scintillando sotto il mio e il tuo sguardo, così a ridosso del nido del piacere, della baia di approdi di ogni desiderio maschile, di ogni vascello, eccita me quanto eccita te. Entrambi conosciamo come il desiderio voyeuristico sia alimentato dalle visioni fugaci e alimenti l'eccitazione fisica, quella fatta di erezioni e di secrezioni.
Cerchi il mio ombelico, disperso come l'isola di Pasqua in un insondabile oceano Pacifico.
Difficile trovarlo, nella completa mancanza di punti di repere.
Mi sfiori il torace, incrociando la piena curvatura di un seno. Troppo oltre ti sei spinto, ma non vuoi rinunciare allo scalo in questa deliziosa insenatura, così evocativa della sorella maggiore.
Il buco della pancia, rientranza nel corpo della donna, enfatizza il tuo bisogno di esplorare e penetrare, e il mio di essere frugata, violata e riempita.
La luce, ora radente, sul mio ventre, rivela una micropeluria altrimenti invisibile allo sguardo.
Ma nel buio totale ogni singolo particolare, anche quello più negletto, ora assume dimensioni ciclopiche sotto l'attenzione che si fa morbosa.
Trovi infine il piccolo pertugio, affondato nel sinuoso ventre, come l'immagine della deformazione dello spazio-tempo in un documentario di Superquark.
Ci giri intorno come trascinato in un gorgo, ne ceselli la circonferenza, immagine negativa di un'areola adorna di un capezzolo eccitato e turgido.
Ci entri e ci esci, nel prodromo di un'immaginaria scopata.
Immagino la tua lingua indagatrice, visualizzo nella mente i tuoi morsi voraci, ma la luce già si avventura verso la prima avvisaglia della sporgenza dello sterno sul mio petto.
La luce lambisce i miei seni sfiorandone le superfici affacciate lungo lo sterno.
L'ombra della convessità mammaria si staglia decisa contro la pelle chiara, illuminata dal tuo raggio.
Percorri le forme piene iniziando dalla base, là dove il seno tende ad appoggiarsi al petto sotto il peso del tessuto ghiandolare.
Trovi senza fatica un'areola e ci descrivi orbite concentriche, piccolo Sputnik luminoso intorno al pianeta del piacere.
L'areola scura si delimita con chiarezza dalla pelle circostante e il capezzolo, eccitato dal turbe gioco, proietta la sua ombra, come la stele di una meridiana, ruotando secondo il movimento che imprimi al fascio di luce.
Un'immaginaria carezza senza materia si muove sulle superfici dei miei seni, intorno ai capezzoli di una e dell'altra tetta, ne circonda i limiti gonfi e maturi lambendo lo stacco netto delle ghiandole contro il petto.
Fantastico come cresca la mia eccitazione insieme alla tua nel vedere il mio corpo frammentato e accarezzato, di leggere nelle immagini luminose i desideri che affiorano nella tua corteccia cerebrale, di carpire il fine andamento dei tuoi pensieri e delle tue perversioni che espliciti ed esasperi ora sul mio corpo in tua completa balia, eppure così inaccessibile.
Giochi coi miei seni e il mio respiro si fa profondo e regolare, quasi come se con la punta di un dito veramente tu stessi sfiorandoli.
I capezzoli dritti rendono ragione di quanto il pensiero possa influenzare il corpo.
La tua mente intorno alle mie curve, la mia mente ad inseguire i tuoi pensieri osceni, palesati, ostentati nei percorsi luminosi che tracci sul mio corpo.
Cerchi appagamento, ma solo il desiderio inappagato cresce e assume proporzioni insostenibili.
Ne pago anch'io lo scotto, con la mia voglia di essere toccata, accarezzata, leccata e succhiata.
Desideri inespressi che fanno scempio del mio basso ventre, ora scosso in esplicite, occasionali contrazioni che esplicitano un bisogno carnale.
Lo spot di luce risale lungo il collo.
La fossetta del giugulo adorna dell'unico indumento che mi sono concessa viene inquadrata nel tuo campo di indagine.
Una catenina in oro bianco che sostiene un piccolo brillante giallo canarino, a forma di goccia.
Il monile brilla sinistramente sulla mia pelle diafana.
Le ombre si allungano come macchie di inchiostro dilaganti quando ti sposti nelle fossette sopra le clavicole, per poi agonizzare lungo i decisi profili dei muscoli del collo.
(So che se avessi detto “i precisi profili dei muscoli sterno-cleido-mastoidei” il lettore avrebbe perso un po' di lucidità).
Là dove, di nascosto, carotidi e giugulari governano i flussi di sangue alla corteccia del mio cervello, ora decisamente circuitati verso le zone che gestiscono i centri del piacere sessuale, il pennello di fotoni sfiora l'angolo smusso della mandibola, impadronendosi del lobo del mio orecchio.
Nuova insenatura, nuovo scuro meato che adduce alle profondità del mio corpo, la lingua immaginaria vortica e si affonda tra le pieghe auricolari, facendomi trattenere il respiro in attesa di una percezioni umida che invece si fa desiderare.
Insenature, pertugi, meati, rientranze, incavi, affossamenti del corpo femminile, indecifrabili e occulti richiami per l'essere maschile.
Macchie buie, mari e crateri nell'abbagliante superficie lunare del corpo di donna, espliciti richiami, per essere riempiti di energia e potenza maschile.
Volumi vuoti in cerca di congruenti estroflessioni maschili.
Dita, nasi, lingue, peni maschili alla conquista di spazi da riempire e in cui riposare, porti finali di destinazioni agognate e perpetrate, pervicacemente e pertinacemente.
La luce ondeggia lungo il mio padiglione auricolare, senza che ne possa controllare i movimenti e le destinazioni; mi sfiora l'attaccatura dei capelli sulla fronte, segue il profilo del mio naso cercando di forzare lo spazio inaccessibile delle narici, nuovi buchi neri per la fantasia maschile.
La piramide nasale si affossa tra le concavità orbitarie che ospitano il mio sguardo scuro.
La lampada mi ferisce le pupille e mi provoca ammiccamenti involontari.
Nel forte contrasto tra luminosità piena e insondabile buio, la tua luce non riesce a discernere le pupille, ennesimo buco femminile, dalle mie iridi scure.
Il mio sguardo ferito si sottrae alla tua stimolazione e allora la lampada pietosa si perde sulle linee regolari delle sopracciglia. Pelo nero di donna, evocativo di altro pelo.
Sequenza ordinata di soffici peli, docili alle tue carezze di fotoni, che pure sono impalpabili.
I miei capelli neri ora si oppongono i tuoi attacchi luminosi, assorbendo la tua luce impotente nel gorgo di indomabili buchi neri, da cui nessuna radiazione riesce a far ritorno, scandita in riflessi che possano descriverti il mio capo nell'ombra.
Sconfitto ritorni al viso e cerchi le mie labbra.
Onde morbide dalla mucosa labiale scura, percepisci l'iperpigmentazione della razza orientale che contrasta con la pelle bianca di certe regioni dell'Asia.
Bocca chiusa, nuovo divieto di accesso. Una lingua nascosta, intuita, vagheggiata, ma proibita al tuo sguardo lampeggiante. Ma è solo questione di tempo e la tua sapiente magia saprà come aprirla e come possederla.
Due ordini hai a disposizione, due soli semplici ordini, inappellabili.
E sai che devi gestirti le poche emissioni verbali che ti sono concesse con la massima accortezza.
Segui il profilo della mia bocca, quel vago richiamo alla forma del cuore delle carte, il contorno tenuemente più scuro delle mie labbra carminie viene esplorato con attenzione maniacale. Quel colore che richiama le sfumatura dei miei capezzoli, ora viene esaminato al microscopio.
La luce tangenziale svela ogni minima increspatura della tumescente morbidezza che tante volte hai apprezzato sulla tua bocca, sul tuo collo e in zone più riservate, vertici di percorsi che dalla muscolatura del tuo petto si sono dipanati sui tuoi peli addominali per trovare completezza e appagamento nell'accoglienza dell'espressione della tua eccitazione.
Le mie labbra sotto la tua minuziosa ispezione; le ancelle dell'antro caldo e umido che in molte occasioni si è sostituito al mio apparato genitale, per accoglierti dentro di me.
Mi masturbi la bocca con quell'impertinente incursione di fotoni, senza che io realmente riesca a cogliere l'intensità della tua insistenza, non potendo seguire con lo sguardo il tuo ossessivo vagare.
Ma ad altro artificio dovrai appellarti per scorgere la corona dei miei denti e per sfiorarmi la punta bagnata della lingua.
L'impietosa ripartizione del mio viso che impone il piccolo spot luminoso, non ti permette di cogliere la mia espressione, dovendo dividere le tue attenzioni tra un singolo occhio, le labbra o le fini corrugazioni della mia fronte.
Ti sfugge la mia espressione compiaciuta, la velatura eccitata del mio sguardo, i fini tremori delle labbra nelle sensazioni conturbanti che sempre più avvolgono il mio corpo sotto le sferzate del tuo raggio di luna.
Sconfitto ridiscendi al seno.
Sempre lì, in paziente attesa; i capezzoli sono ora più rilassati e appena accennati nelle areole che si sono fatte più larghe, passata l'onda di fervore sessuale.
È tempo di proferire il primo ordine; a volo di uccello (e la perifrasi non è casuale), hai passato in rassegna tutti il mio corpo, dalle unghie dei piedi alle punte dei capelli, come scrutandolo attraverso un luminoso buco della serratura, e ora il tuo desiderio reclama appagamento dei sensi.
“Toccati la tetta di sinistra!”
Un comando ben ponderato, perchè irripetibile e non suscettibile di correzioni.
Liberata dalla rigidità statuaria a cui ero vincolata, passo le dita della mano destra nella bocca, movimento che non riesci a cogliere perchè nascosto nell'ombra, e con le dita bagnate di saliva comincio a sfiorarmi l'areola della mammella opposta, sotto il tuo sguardo indagatore, sotto quella lampada per interrogatorio da servizio anti-spionaggio.
I miei polpastrelli eseguono movimenti circolari che solo sfiorano il capezzolo, lasciando una luccicante scia di saliva sul mio seno, brillante come la traccia di una lumaca.
Il capezzolo esplode in un'eruzione vulcanica mentre il movimento rotatorio lo lambisce sempre più da vicino, fino ad incrociare il percorso e passare a una energica stimolazione diretta.
Il mio dito pettina l'estroflessione che si gonfia e diventa più sensibile.
Movimenti di pelo e contropelo impongono flessioni e torsioni al capezzolo che, duro e alto, si espone sulla superficie dell'areola che si contrae e si riveste di piccole increspature.
La luce tagliente esaspera ogni minima irregolarità dei tubercoli che fanno da corona all'areola.
L'ombra nera del vertice dei mie canali lattiferi, o meglio, dei miei dotti galattofori, si staglia sulla distesa eburnea del mio petto, e tra pollice e indice tormento la sensibile appendice restituendo respiri prolungati ed evocativi.
La luce fugge a cercare il mio volto.
Gli occhi socchiusi in atteggiamento implorante, le labbra semiaperte documentano un profondo cambiamento dell'imperturbabile volto che poco prima era stato analizzato con accuratezza chirurgica senza che nulla trapelasse.
Quella bocca all'apparenza solo disegnata ora si rianima e le labbra si contraggono accennando a movimenti di suzione.
Il suono dell'espirio prolungato palesa la mia eccitazione.
Le labbra lasciano trapelare una punta di lingua, mentre l'eccitazione sale a livelli incontrollabili, finalmente paga di una stimolazione tattile che a lungo si è fatta desiderare.
E tu sei condannato a scegliere se osservare la mia bocca, le mie labbra socchiuse e la mia lingua che vi si insinua timidamente, o le mie dita che tormentano il mio capezzolo. E intanto prosegue lo sfregamento tra indice e medio, mentre le altre dita sfiorano la superficie libera del seno.
Ma tu non puoi toccarti e non puoi raggiungermi; non ancora.
Un solo comando ti è rimasto e finchè io non avrò ubbidito al tuo ordine fino alle sue ultime conseguenze, tu non potrai fare altro che guardare, e nutrirti di quella sezione circolare o ellittica che il fascio di luce ti può concedere.
La tua attenzione ritorna sul seno sinistro.
Le mie dita ne accarezzano la grave convessità che aggetta verso il ventre.
La mano solleva il seno e se lo lascia scivolare sul palmo fino a catturare tra le dita il capezzolo appuntito e strapparmi un evocativo gemito.
Quanto a lungo può durare questo gioco perverso?
Io, ora schiava del mio piacere, gemo e ansimo nell'attesa di poter muovere l'altra mano e indirizzarla tra le cosce che reclamano ringhiando la mia attenzione.
Tu, dall'altra parte del manico della micidiale torcia, che mi guardi godere e nulla puoi fare per soddisfare il tuo e il mio desiderio di piacere.
Condannato a contemplarmi a piccole dosi, a rimirare la bocca che si apre mostrando la corona dei denti tra le labbra, o scegliere la visione degli occhi che, lucidi, si chiudono nel deliquio del piacere, potendo ritornare alle mie dita che manipolano il mio seno solo a costo di abbandonare il volto su cui si palesano gli effetti di quel lavoro digitale.
L'odore del tuo sudore si mescola a quello delle secrezioni che gemono dalla mia vulva e saturano l'ambiente del sentore di eccitazione femminile.
Richiamo olfattivo imperioso e intransigente che evapora e si diffonde nell'ambiente, forte e palese, frutto di anni di evoluzione antropologica finalizzata al mantenimento della specie.
La mia mano sinistra graffia il divano affondando le unghie nel tessuto.
Desiderio selvaggio di donna.
Istinto di accoppiamento e riproduzione incarcerato in un gioco che ormai ci soggioga e ci tormenta.
La tua erezione imbavagliata in tessuti diventati urgentemente troppo stretti.
Una donna che geme toccandosi il seno, sotto i tuoi occhi e le tue membra impotenti.
Il tuo sguardo limitato si divide tra il mio seno e la mia bocca, i miei occhi e il mio ventre che comincia a essere scosso da evocative contrazioni, richiami alla penetrazione che puoi solo intuire dall'irregolarità del mio respiro, ma che non puoi cogliere.
La mia vulva è lucida di muco, in un timido gemizio di stille odorose che preparano all'atto sessuale, brillanti come stelle che palpitano nel cielo invernale.
La situazione si fa insostenibile.
Maledetto giochetto di merda che ci sta straziando e torturando. Io più di te, perché vorrei sentirti dentro, dilatata dalla tua potenza, e tu più di me, costretto ad ascoltarmi miagolare e vedendomi godere senza neanche potermi toccare.
“Toccati la figa, porca!”
Il tuo secondo ordine quasi come una liberazione, una pioggia fredda su un incendio indomabile.
La tua luce balena impazzita e fuori controllo.
Dov'è l'ombelico che si contorce in spasimi di godimento? Dove sono le cosce che si aprono per chiamarti ad entrare dentro di me? Il mio ventre che si distende, il mio bacino che si protende per accoglierti più profondamente?
Il lampo inquadra la mia mano che passa dai peli del pube a quelli che si prolungano sulle grandi labbra.
Con due dita delineo il contorno dei genitali più esterni, mentre le cosce si allargano.
Come un ricettacolo dalla fioritura decennale la mia vulva si schiude.
Mollusco in attesa di inseminazione, di organi maschili, vongola, cozza, conchiglia Saint Jacques, madreperla su morbidezze bagnate.
Perdi la visione della mia bocca, delle dita che giocano sul seno, della lingua che sfugge leccandomi le labbra, dei capezzoli esposti come unghie di felini, dei miei occhi chiusi in atteggiamento di estasi.
E insieme alle mie dita, affondi la luce nella mia vulva satura di secrezioni, serri i denti al rumore ribollente delle mie acque violate dalle dita che si infilano discrete e riemergono lucide e bagnate per tormentare il clitoride.
Le dita aprono il vestibolo e, scura tra le piccole labbra, profonda nella mucosa rossa e sanguigna, si mostra l'apertura vaginale che ti cerca e che ti invoca.
Le dita ci affondano allargandola e quando la lasciano per pennellare i genitali esterni, l'apertura virtuale cela l'orifizio d'entrata.
Filamenti tra le dita, come seta di ragno, si distendono mentre mi accarezzo di nuovo il grilletto, ma la luce si muove per cercare le altre dita, quelle che stringono e tirano il capezzolo, allungandolo fino a misure insospettabili.
I miei gemiti richiamano la luce verso la mia bocca che si apre nell'imminente orgasmo; il respiro si strozza nella prossima esplosione di piacere, e non sai più cosa seguire, se la mia vulva, il mio seno, i miei occhi o la mai bocca, prima che il big bang deflagri in una sequenza di urla strozzate per l'eccitazione prolungata di questo gioco malvagio.
Un ultimo flash inquadra tre mie dita profondamente impiantate tra le mie cosce, poi, in affanno, insegui la concitata sequenza di urla e di espressione dei miei occhi serrati, della mia bocca spalancata e delle convulse contrazioni che mi serrano la nuca consegnando ai tuoi organi percettivi questo orgasmo prolungato.
Il seguito è un curioso vagare di particelle luminose sulla mia pelle sudata, sul mio ventre e sul seno scossi da tardive palpitazioni mentre il respiro si trasforma in un profondo affanno.
La penitenza è pagata. Sei un uomo libero.
L'interruttore della luce si accende e focalizzi il divano dove una giapponese giace sudata in preda agli ultimi singulti.
La macchia scura sul divano ci ricorda che ci siamo avventatamente dimenticati di mettermi alcuni asciugamani sotto al sedere, e che non immaginavamo che questo tormento luminoso avrebbe raggiunto tali vertici.
Mi guardi, mentre dai miei occhi, ridotti a due minute fessure, prendo visione dei devastanti effetti cui sei stato soggetto, enfatizzati dal tuo volto paonazzo.
Con lentezza misurata ti scuci di dosso i vestiti, sguainando un'erezione plutonica e ti avvicini a gambe larghe.
Allargo le cosce pronta ad accoglierti per replicare immediatamente con un n uovo orgasmo, un'esplosione di supernova dal mio ventre ancora alla massima eccitazione.
Con la voce ancora interrotta dall'affanno trovo la forza di sibilare:
“Scopami, eunuco! Sventrami fottuto olandese!”
Poi chiudo gli occhi e accolgo il tuo peso sopra e dentro di me.
Nel buio più assoluto di questa stanza, una luce cerca il mio corpo.
Un fascio ristretto, un pallino luminoso di due o tre centimetri di diametro soltanto.
Ma solo così ho deciso che potrai vedermi, in questo gioco sadico e sensuale.
Sono nuda, da qualche parte. Probabilmente sdraiata sul divano.
A fatica percepisci il mio respiro leggero, ma nel silenzio assoluto si deve svolgere questo gioco e allora il mio respiro sarà tutto ciò che riempirà l'assenza di ogni suono.
La visione ristretta, l'ascolto imbavagliato. Il tatto limitato al fascio di fotoni che mi cerca nelle tenebre. Nessun gusto, forse l'illusione di un odore.
I tuoi sensi acuiti mi cercano, mi invocano, ma solo in minuscoli frammenti mi avranno.
Mi concederò tutta, ma solo in minuti assaggi.
Supplirai con la fantasia e con riminiscenze e vaghe impressioni a quello che concederò ai tuoi sensi incatenati.
La luce lampeggia come un raggio laser impazzito, finchè nel minuscolo alone inquadri un lembo della mia pelle.
Muovi l'occhio luminoso e mi perdi, torni sui tuoi passi.
Sono ancora lì, ma non sai in quale posizione mi dovrai esplorare.
Una sperduta isola di bagliore si muove incerta su una mia coscia.
Un'estensione troppo limitata per una ricostruzione anatomica.
La luce si muove, arriva al ginocchio, ma non lo identifica.
Scende ancora sulla gamba. Nessun suono, nessun odore.
Incede l'occhio indagatore e inquadra le dita di un piede.
Unghie smaltate.
Finalmente un particolare riconoscibile, che polarizza tutto l'orientamento.
Ma non c'è motivo di velocizzare il gioco.
L'occhio indaga, si muove fra le dita, si riflette sullo smalto fucsia, delimita tutto il contorno del piede, cerca il malleolo per concedere una luminosa carezza in una regione che tu sai essere molto sensibile.
E nella tua fantasia si insinuano sentori di donna, i primi, evocati, come in una seduta spiritica, dalla concreta visualizzazione del mio corpo.
Ti perdi in sentieri tra le dita del mio piede, senza fretta di abbandonarlo per altri lidi perchè sai che spostandoti verso isole più promettenti, perderesti la visione e il gusto di questa parte del corpo.
Ti insinui tra le dita, come una lingua famelica, per stimolare il mio desiderio e il mio piacere.
La lingua di un uomo tra le dita dei piedi!
Quanti uomini e quante donne si sono perse questa galassia di piacere, celata nell'universo del corpo di una donna.
Tu lo sai.
Scivoli sulle unghie smaltate, accarezzi il dorso del piede per doppiare i malleoli, come un coraggioso natante oltre capo di Buona Speranza, per ritornare, lascivo e seducente, ancora tra le dita del piede.
E io che mi sento accarezzata da questa impalpabile lingua, mi eccito.
Immagino il contatto, l'umido curiosare di questa appendice tra le dita dei piedi.
Labbra che suggono il mio alluce come laboriose api in fiori carichi di nettare.
Questo insistente contatto luminoso mi sta bagnando quasi come se una vera lingua si insinuasse tra le pieghe. Forse anche di più, perchè un desiderio crescente e non soddisfatto evoca ancor più una risposta che è un ulteriore invito.
Ma di questo odore tu non hai percezione e la tua mente è ancora troppo lontana dalla mia vulva per immaginare l'effetto che mi fai e che non posso palesarti.
Cerchi l'altro piede, ma non lo trovi.
Infatti non sto giacendo sul divano con le gambe parallele.
Lo cerchi ancora, quell'altro vertice, ma perdi il contatto con il mio corpo, e subito vi ritorni, come un maldestro nuotatore fa precipitoso ritorno al molo da cui inavvertitamente si è troppo allontanato.
Risali sulla gamba lambendo il polpaccio.
Percorsi che l'olfatto, più che la lingua, avrebbero saputo onorare, avvicinandosi gradualmente a quella pulsar che emette richiami odorosi che abita tra le mie cosce.
Ispezioni il ginocchio che prima non hai potuto riconoscere, ma il desiderio è tanto, e allora ti lasci risucchiare dalla mia coscia.
La luce disegna percorsi arabescati, indulgendo, evitando il facile tragitto diretto verso i miei inguini.
Il fascio di fotoni cerca, puntiglioso, la superficie interna.
Pelle chiara, resa ancora più abbagliante dall'oscurità soverchiante.
L'alone tondo si perde sulla vasta rotondità di quella zona così sensibile, di quel gorgo che, senza via di fuga, converge verso le profondità del buco nero, ormai in prossimità dell'orizzonte degli eventi.
Dalla forma circolare, la luce assume i contorni di un'ellisse, poi una parabole ed infine arriva l'iperbole.
Tutte le coniche sono rappresentate per enfatizzare la rotondità che converge al centro di gravità permanente.
Solletichi la mia pelle con quel fascio etereo ed è vero, il mio respiro cambia e diventa più profondo.
Il tuo udito, affinato dalla mancanza degli altri stimoli sensoriali, percepisce la variazione e rinnova i merletti che la lampada ad uncinetto rapisce dalla mia pelle sempre più sensibile.
Come un pugile che si ostina su una ferita emergente sul volto dell'avversario, anche la tua luce insiste in zone capaci di variare la sensibilità lungo curve esponenziali.
Con volute ravvicinate, come il gioco di fumo di un abile fumatore di pipa, ti avvicini alla convergenza delle gambe.
E già non sai a che punto del percorso ti trovi che di colpo nel tuo ristrettissimo campo visivo compare uno scuro labbro, così, prematuro e inaspettato.
Il diafano contorno si blocca, secondi in cui, in modo frenetico, la mente lavora per ricostruire una conoscenza anatomica che tramandi a memoria, ma che ora difetta per la visione assoggettata al campo stretto.
Il cerchio luminoso viene scosso da tremori di indecisione. Risale lungo i lembi della bocca del sesso che, convergendo, chiudono l'adito a mondi nascosti.
Le mucose scure hanno un effetto ipnotico e ricordi che nelle regole che abbiamo stabilito all'inizio del gioco, in tuo potere esiste la possibilità di comandare due desideri. Ma non vuoi rinunciare al tour completo e ora hai la possibilità di un excursus completo sul mio corpo, senza perdere nulla in seguito ad una decisione prematura.
Solo un rapido volteggio per vedere luccicare quell'apertura chiusa tra le labbra.
Brillamento che già manifesta il mio grado di eccitazione per questa impalpabile carezza che ora si attarda tra le pieghe della mia vulva serrata, incapace di raggiungere il clitoride, protetto ed ermetico.
Scivoli allora sull'altra coscia, che da questo punto è riconoscibile e percorribile.
La luce, senza che tu te lo fossi aspettato, viene dirottata verso l'alto mentre segui la mia pelle.
Non sai in che posizione mi sono messa e ora l'alone luminoso ti guida su sentieri inattesi.
Sali, ancora sali. Ma quanto sali?
Il fascio si blocca lungo una piega che è impossibile da confondere.
Scura piega curva tra due pallide e gonfie rotondità.
L'incertezza obnubila la tua mente.
Sicuro di trovarti sull'evocativa piega tra i glutei, la tua mente si confonde.
La esplori, quella piega. Quel buio che resiste al fascio di luce più ostinato. Quell'ombra sfumata che ti indirizza al buchetto del mio sedere.
Eppure in un posto del tutto sbagliato.
Dalla vulva ti sei mosso, ma io non mi sono mossa.
Hai seguito veramente la coscia, oppure sono io che mi sono adagiata in una qualche posizione che tu nemmeno puoi immaginare, imbavagliato dall'oscurità insondabile e armato di un solo spot del diametro di tre centimetri scarsi?
La luce percorre quella piega, vi si insinua e tu già immagini la tua lingua farsi strada tra le mie natiche per ghermire il mio buco più stretto.
Ma le tue seppur labili conoscenze anatomiche si ribellano.
Con la luce ti sposti da un lato e ti ritrovi sul vello nero da cui eri partito.
Risali fino alla seducente piega, ti sporgi al suo limitare e finisci sul velluto del divano.
Il silenzio è rotto dalla mia sommessa risata.
Non visualizzi una schiena, non le due fossette che sai trovarsi all'altezza della mia regione lombare.
Incerto prosegui oltre la piega, in un nuovo tragitto discendente, e scopri l'altro piede.
Perverso gioco di immagini ricostruite in pezzetti non più grandi di quelli di un puzzle che rappresenta un nudo di Renoir.
Un motto di stupore, una rivelazione.
Nella tua immaginazione ricostruisci l'immagine del mio ginocchio piegato.
Questa era la piega che avevi visto e confuso.
E mai, mai da quando ci conosciamo, hai saputo scoprire la sensuale somiglianza che assume la piega del polpaccio sulla coscia di un ginocchio flesso con la più nota e convenzionale piega, regina di tutte le pieghe del corpo di una donna.
La tua eccitazione, ora, cresce. Percepisco i movimenti di sangue nei corpi cavernosi.
Scendi a fare visita all'altro piede che, però, da questa angolatura, ben poco concede alla tua lingua luminosa.
Il profilo delle dita in prospettiva non ti lascia lo spazio per giocare nelle pieghe interdigitali e un volteggio intorno al malleolo trattiene solo per poco ancora le tue onde elettromagnetiche.
Risali fino alla piega sotto il ginocchio, ancora resti stupito di come, in un campo visivo di πr2
con r = 1.5 cm, la piega del ginocchio assomigli terribilmente al solco tra i glutei e ti spiace quasi di lasciare quel campo, ottimo succedaneo del mio sedere, che non potrai illuminare.
Ti sposti, serpeggiando sulla coscia senza premura e approdi, prima del previsto, ancora sull'inguine, al limite del pelo nero del mio pube, ben circoscritto e ordinato.
Ti muovi ora sui peli, come una tigre tra le fronde della jungla indiana, giochi con la luce, proiettando le ombre della foresta nera, ingigantendo i volumi o filtrando attraverso la rada coltre.
Circoscrivi lo spazio del mio monte di Venere e tutte queste immagini di pelo di donna che balenano scintillando sotto il mio e il tuo sguardo, così a ridosso del nido del piacere, della baia di approdi di ogni desiderio maschile, di ogni vascello, eccita me quanto eccita te. Entrambi conosciamo come il desiderio voyeuristico sia alimentato dalle visioni fugaci e alimenti l'eccitazione fisica, quella fatta di erezioni e di secrezioni.
Cerchi il mio ombelico, disperso come l'isola di Pasqua in un insondabile oceano Pacifico.
Difficile trovarlo, nella completa mancanza di punti di repere.
Mi sfiori il torace, incrociando la piena curvatura di un seno. Troppo oltre ti sei spinto, ma non vuoi rinunciare allo scalo in questa deliziosa insenatura, così evocativa della sorella maggiore.
Il buco della pancia, rientranza nel corpo della donna, enfatizza il tuo bisogno di esplorare e penetrare, e il mio di essere frugata, violata e riempita.
La luce, ora radente, sul mio ventre, rivela una micropeluria altrimenti invisibile allo sguardo.
Ma nel buio totale ogni singolo particolare, anche quello più negletto, ora assume dimensioni ciclopiche sotto l'attenzione che si fa morbosa.
Trovi infine il piccolo pertugio, affondato nel sinuoso ventre, come l'immagine della deformazione dello spazio-tempo in un documentario di Superquark.
Ci giri intorno come trascinato in un gorgo, ne ceselli la circonferenza, immagine negativa di un'areola adorna di un capezzolo eccitato e turgido.
Ci entri e ci esci, nel prodromo di un'immaginaria scopata.
Immagino la tua lingua indagatrice, visualizzo nella mente i tuoi morsi voraci, ma la luce già si avventura verso la prima avvisaglia della sporgenza dello sterno sul mio petto.
La luce lambisce i miei seni sfiorandone le superfici affacciate lungo lo sterno.
L'ombra della convessità mammaria si staglia decisa contro la pelle chiara, illuminata dal tuo raggio.
Percorri le forme piene iniziando dalla base, là dove il seno tende ad appoggiarsi al petto sotto il peso del tessuto ghiandolare.
Trovi senza fatica un'areola e ci descrivi orbite concentriche, piccolo Sputnik luminoso intorno al pianeta del piacere.
L'areola scura si delimita con chiarezza dalla pelle circostante e il capezzolo, eccitato dal turbe gioco, proietta la sua ombra, come la stele di una meridiana, ruotando secondo il movimento che imprimi al fascio di luce.
Un'immaginaria carezza senza materia si muove sulle superfici dei miei seni, intorno ai capezzoli di una e dell'altra tetta, ne circonda i limiti gonfi e maturi lambendo lo stacco netto delle ghiandole contro il petto.
Fantastico come cresca la mia eccitazione insieme alla tua nel vedere il mio corpo frammentato e accarezzato, di leggere nelle immagini luminose i desideri che affiorano nella tua corteccia cerebrale, di carpire il fine andamento dei tuoi pensieri e delle tue perversioni che espliciti ed esasperi ora sul mio corpo in tua completa balia, eppure così inaccessibile.
Giochi coi miei seni e il mio respiro si fa profondo e regolare, quasi come se con la punta di un dito veramente tu stessi sfiorandoli.
I capezzoli dritti rendono ragione di quanto il pensiero possa influenzare il corpo.
La tua mente intorno alle mie curve, la mia mente ad inseguire i tuoi pensieri osceni, palesati, ostentati nei percorsi luminosi che tracci sul mio corpo.
Cerchi appagamento, ma solo il desiderio inappagato cresce e assume proporzioni insostenibili.
Ne pago anch'io lo scotto, con la mia voglia di essere toccata, accarezzata, leccata e succhiata.
Desideri inespressi che fanno scempio del mio basso ventre, ora scosso in esplicite, occasionali contrazioni che esplicitano un bisogno carnale.
Lo spot di luce risale lungo il collo.
La fossetta del giugulo adorna dell'unico indumento che mi sono concessa viene inquadrata nel tuo campo di indagine.
Una catenina in oro bianco che sostiene un piccolo brillante giallo canarino, a forma di goccia.
Il monile brilla sinistramente sulla mia pelle diafana.
Le ombre si allungano come macchie di inchiostro dilaganti quando ti sposti nelle fossette sopra le clavicole, per poi agonizzare lungo i decisi profili dei muscoli del collo.
(So che se avessi detto “i precisi profili dei muscoli sterno-cleido-mastoidei” il lettore avrebbe perso un po' di lucidità).
Là dove, di nascosto, carotidi e giugulari governano i flussi di sangue alla corteccia del mio cervello, ora decisamente circuitati verso le zone che gestiscono i centri del piacere sessuale, il pennello di fotoni sfiora l'angolo smusso della mandibola, impadronendosi del lobo del mio orecchio.
Nuova insenatura, nuovo scuro meato che adduce alle profondità del mio corpo, la lingua immaginaria vortica e si affonda tra le pieghe auricolari, facendomi trattenere il respiro in attesa di una percezioni umida che invece si fa desiderare.
Insenature, pertugi, meati, rientranze, incavi, affossamenti del corpo femminile, indecifrabili e occulti richiami per l'essere maschile.
Macchie buie, mari e crateri nell'abbagliante superficie lunare del corpo di donna, espliciti richiami, per essere riempiti di energia e potenza maschile.
Volumi vuoti in cerca di congruenti estroflessioni maschili.
Dita, nasi, lingue, peni maschili alla conquista di spazi da riempire e in cui riposare, porti finali di destinazioni agognate e perpetrate, pervicacemente e pertinacemente.
La luce ondeggia lungo il mio padiglione auricolare, senza che ne possa controllare i movimenti e le destinazioni; mi sfiora l'attaccatura dei capelli sulla fronte, segue il profilo del mio naso cercando di forzare lo spazio inaccessibile delle narici, nuovi buchi neri per la fantasia maschile.
La piramide nasale si affossa tra le concavità orbitarie che ospitano il mio sguardo scuro.
La lampada mi ferisce le pupille e mi provoca ammiccamenti involontari.
Nel forte contrasto tra luminosità piena e insondabile buio, la tua luce non riesce a discernere le pupille, ennesimo buco femminile, dalle mie iridi scure.
Il mio sguardo ferito si sottrae alla tua stimolazione e allora la lampada pietosa si perde sulle linee regolari delle sopracciglia. Pelo nero di donna, evocativo di altro pelo.
Sequenza ordinata di soffici peli, docili alle tue carezze di fotoni, che pure sono impalpabili.
I miei capelli neri ora si oppongono i tuoi attacchi luminosi, assorbendo la tua luce impotente nel gorgo di indomabili buchi neri, da cui nessuna radiazione riesce a far ritorno, scandita in riflessi che possano descriverti il mio capo nell'ombra.
Sconfitto ritorni al viso e cerchi le mie labbra.
Onde morbide dalla mucosa labiale scura, percepisci l'iperpigmentazione della razza orientale che contrasta con la pelle bianca di certe regioni dell'Asia.
Bocca chiusa, nuovo divieto di accesso. Una lingua nascosta, intuita, vagheggiata, ma proibita al tuo sguardo lampeggiante. Ma è solo questione di tempo e la tua sapiente magia saprà come aprirla e come possederla.
Due ordini hai a disposizione, due soli semplici ordini, inappellabili.
E sai che devi gestirti le poche emissioni verbali che ti sono concesse con la massima accortezza.
Segui il profilo della mia bocca, quel vago richiamo alla forma del cuore delle carte, il contorno tenuemente più scuro delle mie labbra carminie viene esplorato con attenzione maniacale. Quel colore che richiama le sfumatura dei miei capezzoli, ora viene esaminato al microscopio.
La luce tangenziale svela ogni minima increspatura della tumescente morbidezza che tante volte hai apprezzato sulla tua bocca, sul tuo collo e in zone più riservate, vertici di percorsi che dalla muscolatura del tuo petto si sono dipanati sui tuoi peli addominali per trovare completezza e appagamento nell'accoglienza dell'espressione della tua eccitazione.
Le mie labbra sotto la tua minuziosa ispezione; le ancelle dell'antro caldo e umido che in molte occasioni si è sostituito al mio apparato genitale, per accoglierti dentro di me.
Mi masturbi la bocca con quell'impertinente incursione di fotoni, senza che io realmente riesca a cogliere l'intensità della tua insistenza, non potendo seguire con lo sguardo il tuo ossessivo vagare.
Ma ad altro artificio dovrai appellarti per scorgere la corona dei miei denti e per sfiorarmi la punta bagnata della lingua.
L'impietosa ripartizione del mio viso che impone il piccolo spot luminoso, non ti permette di cogliere la mia espressione, dovendo dividere le tue attenzioni tra un singolo occhio, le labbra o le fini corrugazioni della mia fronte.
Ti sfugge la mia espressione compiaciuta, la velatura eccitata del mio sguardo, i fini tremori delle labbra nelle sensazioni conturbanti che sempre più avvolgono il mio corpo sotto le sferzate del tuo raggio di luna.
Sconfitto ridiscendi al seno.
Sempre lì, in paziente attesa; i capezzoli sono ora più rilassati e appena accennati nelle areole che si sono fatte più larghe, passata l'onda di fervore sessuale.
È tempo di proferire il primo ordine; a volo di uccello (e la perifrasi non è casuale), hai passato in rassegna tutti il mio corpo, dalle unghie dei piedi alle punte dei capelli, come scrutandolo attraverso un luminoso buco della serratura, e ora il tuo desiderio reclama appagamento dei sensi.
“Toccati la tetta di sinistra!”
Un comando ben ponderato, perchè irripetibile e non suscettibile di correzioni.
Liberata dalla rigidità statuaria a cui ero vincolata, passo le dita della mano destra nella bocca, movimento che non riesci a cogliere perchè nascosto nell'ombra, e con le dita bagnate di saliva comincio a sfiorarmi l'areola della mammella opposta, sotto il tuo sguardo indagatore, sotto quella lampada per interrogatorio da servizio anti-spionaggio.
I miei polpastrelli eseguono movimenti circolari che solo sfiorano il capezzolo, lasciando una luccicante scia di saliva sul mio seno, brillante come la traccia di una lumaca.
Il capezzolo esplode in un'eruzione vulcanica mentre il movimento rotatorio lo lambisce sempre più da vicino, fino ad incrociare il percorso e passare a una energica stimolazione diretta.
Il mio dito pettina l'estroflessione che si gonfia e diventa più sensibile.
Movimenti di pelo e contropelo impongono flessioni e torsioni al capezzolo che, duro e alto, si espone sulla superficie dell'areola che si contrae e si riveste di piccole increspature.
La luce tagliente esaspera ogni minima irregolarità dei tubercoli che fanno da corona all'areola.
L'ombra nera del vertice dei mie canali lattiferi, o meglio, dei miei dotti galattofori, si staglia sulla distesa eburnea del mio petto, e tra pollice e indice tormento la sensibile appendice restituendo respiri prolungati ed evocativi.
La luce fugge a cercare il mio volto.
Gli occhi socchiusi in atteggiamento implorante, le labbra semiaperte documentano un profondo cambiamento dell'imperturbabile volto che poco prima era stato analizzato con accuratezza chirurgica senza che nulla trapelasse.
Quella bocca all'apparenza solo disegnata ora si rianima e le labbra si contraggono accennando a movimenti di suzione.
Il suono dell'espirio prolungato palesa la mia eccitazione.
Le labbra lasciano trapelare una punta di lingua, mentre l'eccitazione sale a livelli incontrollabili, finalmente paga di una stimolazione tattile che a lungo si è fatta desiderare.
E tu sei condannato a scegliere se osservare la mia bocca, le mie labbra socchiuse e la mia lingua che vi si insinua timidamente, o le mie dita che tormentano il mio capezzolo. E intanto prosegue lo sfregamento tra indice e medio, mentre le altre dita sfiorano la superficie libera del seno.
Ma tu non puoi toccarti e non puoi raggiungermi; non ancora.
Un solo comando ti è rimasto e finchè io non avrò ubbidito al tuo ordine fino alle sue ultime conseguenze, tu non potrai fare altro che guardare, e nutrirti di quella sezione circolare o ellittica che il fascio di luce ti può concedere.
La tua attenzione ritorna sul seno sinistro.
Le mie dita ne accarezzano la grave convessità che aggetta verso il ventre.
La mano solleva il seno e se lo lascia scivolare sul palmo fino a catturare tra le dita il capezzolo appuntito e strapparmi un evocativo gemito.
Quanto a lungo può durare questo gioco perverso?
Io, ora schiava del mio piacere, gemo e ansimo nell'attesa di poter muovere l'altra mano e indirizzarla tra le cosce che reclamano ringhiando la mia attenzione.
Tu, dall'altra parte del manico della micidiale torcia, che mi guardi godere e nulla puoi fare per soddisfare il tuo e il mio desiderio di piacere.
Condannato a contemplarmi a piccole dosi, a rimirare la bocca che si apre mostrando la corona dei denti tra le labbra, o scegliere la visione degli occhi che, lucidi, si chiudono nel deliquio del piacere, potendo ritornare alle mie dita che manipolano il mio seno solo a costo di abbandonare il volto su cui si palesano gli effetti di quel lavoro digitale.
L'odore del tuo sudore si mescola a quello delle secrezioni che gemono dalla mia vulva e saturano l'ambiente del sentore di eccitazione femminile.
Richiamo olfattivo imperioso e intransigente che evapora e si diffonde nell'ambiente, forte e palese, frutto di anni di evoluzione antropologica finalizzata al mantenimento della specie.
La mia mano sinistra graffia il divano affondando le unghie nel tessuto.
Desiderio selvaggio di donna.
Istinto di accoppiamento e riproduzione incarcerato in un gioco che ormai ci soggioga e ci tormenta.
La tua erezione imbavagliata in tessuti diventati urgentemente troppo stretti.
Una donna che geme toccandosi il seno, sotto i tuoi occhi e le tue membra impotenti.
Il tuo sguardo limitato si divide tra il mio seno e la mia bocca, i miei occhi e il mio ventre che comincia a essere scosso da evocative contrazioni, richiami alla penetrazione che puoi solo intuire dall'irregolarità del mio respiro, ma che non puoi cogliere.
La mia vulva è lucida di muco, in un timido gemizio di stille odorose che preparano all'atto sessuale, brillanti come stelle che palpitano nel cielo invernale.
La situazione si fa insostenibile.
Maledetto giochetto di merda che ci sta straziando e torturando. Io più di te, perché vorrei sentirti dentro, dilatata dalla tua potenza, e tu più di me, costretto ad ascoltarmi miagolare e vedendomi godere senza neanche potermi toccare.
“Toccati la figa, porca!”
Il tuo secondo ordine quasi come una liberazione, una pioggia fredda su un incendio indomabile.
La tua luce balena impazzita e fuori controllo.
Dov'è l'ombelico che si contorce in spasimi di godimento? Dove sono le cosce che si aprono per chiamarti ad entrare dentro di me? Il mio ventre che si distende, il mio bacino che si protende per accoglierti più profondamente?
Il lampo inquadra la mia mano che passa dai peli del pube a quelli che si prolungano sulle grandi labbra.
Con due dita delineo il contorno dei genitali più esterni, mentre le cosce si allargano.
Come un ricettacolo dalla fioritura decennale la mia vulva si schiude.
Mollusco in attesa di inseminazione, di organi maschili, vongola, cozza, conchiglia Saint Jacques, madreperla su morbidezze bagnate.
Perdi la visione della mia bocca, delle dita che giocano sul seno, della lingua che sfugge leccandomi le labbra, dei capezzoli esposti come unghie di felini, dei miei occhi chiusi in atteggiamento di estasi.
E insieme alle mie dita, affondi la luce nella mia vulva satura di secrezioni, serri i denti al rumore ribollente delle mie acque violate dalle dita che si infilano discrete e riemergono lucide e bagnate per tormentare il clitoride.
Le dita aprono il vestibolo e, scura tra le piccole labbra, profonda nella mucosa rossa e sanguigna, si mostra l'apertura vaginale che ti cerca e che ti invoca.
Le dita ci affondano allargandola e quando la lasciano per pennellare i genitali esterni, l'apertura virtuale cela l'orifizio d'entrata.
Filamenti tra le dita, come seta di ragno, si distendono mentre mi accarezzo di nuovo il grilletto, ma la luce si muove per cercare le altre dita, quelle che stringono e tirano il capezzolo, allungandolo fino a misure insospettabili.
I miei gemiti richiamano la luce verso la mia bocca che si apre nell'imminente orgasmo; il respiro si strozza nella prossima esplosione di piacere, e non sai più cosa seguire, se la mia vulva, il mio seno, i miei occhi o la mai bocca, prima che il big bang deflagri in una sequenza di urla strozzate per l'eccitazione prolungata di questo gioco malvagio.
Un ultimo flash inquadra tre mie dita profondamente impiantate tra le mie cosce, poi, in affanno, insegui la concitata sequenza di urla e di espressione dei miei occhi serrati, della mia bocca spalancata e delle convulse contrazioni che mi serrano la nuca consegnando ai tuoi organi percettivi questo orgasmo prolungato.
Il seguito è un curioso vagare di particelle luminose sulla mia pelle sudata, sul mio ventre e sul seno scossi da tardive palpitazioni mentre il respiro si trasforma in un profondo affanno.
La penitenza è pagata. Sei un uomo libero.
L'interruttore della luce si accende e focalizzi il divano dove una giapponese giace sudata in preda agli ultimi singulti.
La macchia scura sul divano ci ricorda che ci siamo avventatamente dimenticati di mettermi alcuni asciugamani sotto al sedere, e che non immaginavamo che questo tormento luminoso avrebbe raggiunto tali vertici.
Mi guardi, mentre dai miei occhi, ridotti a due minute fessure, prendo visione dei devastanti effetti cui sei stato soggetto, enfatizzati dal tuo volto paonazzo.
Con lentezza misurata ti scuci di dosso i vestiti, sguainando un'erezione plutonica e ti avvicini a gambe larghe.
Allargo le cosce pronta ad accoglierti per replicare immediatamente con un n uovo orgasmo, un'esplosione di supernova dal mio ventre ancora alla massima eccitazione.
Con la voce ancora interrotta dall'affanno trovo la forza di sibilare:
“Scopami, eunuco! Sventrami fottuto olandese!”
Poi chiudo gli occhi e accolgo il tuo peso sopra e dentro di me.
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