Monologo
di
Dora
genere
sentimentali
Avvertenza: questo pezzo non parla di sesso.
Ci siamo incontrati solo due volte, eppure sono due giorni che ti penso continuamente.
Penso a quello che ci siamo raccontati e a tutto quello che ancora non ci siamo detti. Alle domande che vorrei farti ma non so se ne avrò la possibilità.
Qual è il tuo colore preferito? A cosa pensi quando a notte fonda torni a casa in bici? Ti manca la Francia? Riesci a sopportare l’aria condizionata? Ti piacciono i treni? E i mezzi pubblici in generale? Li ascolti i New Order? Com’è la tua grafia? Come impugni la penna? Soffri più il caldo o il freddo? Ti manca il liceo? Hai paura dei trent’anni? Le lacrime ti bruciano gli occhi?
Quando ci siamo alzati da quel gradino l’altra sera, prima tu per salutare un amico, poi io, per tornare a casa; dopo esserci salutati, è lì che è iniziata quest’attesa. Perché sono un essere irrazionale e non vedo l’ora di rivederti.
Spesso ho il tuo nome in testa, come un mantra. Lo ripeto, lo contemplo, lo associo al tuo viso. E poi inizio a desiderare ardentemente, quasi a pregare: “Scrivimi, scrivimi, scrivimi”.
Però la tua chat resta muta.
Sono io che scrivo di te, ne ho bisogno, le mie emozioni vanno tenute a bada.
È sempre da due giorni che una strana nausea si impossessa di me a momenti alterni. Non sono malata, ho un’ansia indefinibile appollaiata sul fondo della gola. Se la percepisco devo mangiare piano e respirare, mangiare piano, respirare, altrimenti rischio di buttare tutto fuori.
La mia amica ammicca: “È da domenica che stai così perché sabato hai conosciuto lui?”. Io dico di no, che è impossibile, però in fondo in fondo non posso escluderlo.
Paradossalmente mi sento bene, questa strana energia che mi dilania mi fa sentire viva, mi circola nel sangue, mi scuota e mi agita, mi spinge ad andare avanti. Almeno fino a quando non potrò specchiarmi ancora nei tuoi occhi castani, quando mi siedi accanto parlandomi e ti guardi intorno, per poi voltarti di tanto in tanto a carpire le mie impressioni. Starei delle ore così, ascoltando la tua voce, percependo la tua presenza al mio fianco. Tutto questo mi placa.
Non ho bisogno di pensare a come comportarmi con te, sono spontanea, naturale, sono me stessa. Mi sembra finalmente che i miei ingranaggi girino nel verso giusto.
Mi piace il modo in cui mi piaci. Mi piace il fatto che siamo due persone vere quando siamo insieme.
Mi piace il fatto che sia tutto così reale: il nostro incontro, la nostra musica, le cose di cui abbiamo parlato, il gradino, la chiesa, il lunedì sera.
È anche per questo che ho paura dell’attesa, non voglio che il mio modo di pensare a te cambi, che tutto resti un ricordo o un’immagine nella mia mente.
È di nuovo mattina e il tuo album della vita viene riprodotto dal mio cellulare.
Penso al modo che hai di salutarmi. Due baci sulle guance. Non è mai un avvicinarsi o uno sfiorarsi, percepisco chiaramente la tua pelle ruvida di barba che affonda nella morbidezza della mia guancia.
Parliamo ancora.
Ci siamo incontrati solo due volte, eppure sono due giorni che ti penso continuamente.
Penso a quello che ci siamo raccontati e a tutto quello che ancora non ci siamo detti. Alle domande che vorrei farti ma non so se ne avrò la possibilità.
Qual è il tuo colore preferito? A cosa pensi quando a notte fonda torni a casa in bici? Ti manca la Francia? Riesci a sopportare l’aria condizionata? Ti piacciono i treni? E i mezzi pubblici in generale? Li ascolti i New Order? Com’è la tua grafia? Come impugni la penna? Soffri più il caldo o il freddo? Ti manca il liceo? Hai paura dei trent’anni? Le lacrime ti bruciano gli occhi?
Quando ci siamo alzati da quel gradino l’altra sera, prima tu per salutare un amico, poi io, per tornare a casa; dopo esserci salutati, è lì che è iniziata quest’attesa. Perché sono un essere irrazionale e non vedo l’ora di rivederti.
Spesso ho il tuo nome in testa, come un mantra. Lo ripeto, lo contemplo, lo associo al tuo viso. E poi inizio a desiderare ardentemente, quasi a pregare: “Scrivimi, scrivimi, scrivimi”.
Però la tua chat resta muta.
Sono io che scrivo di te, ne ho bisogno, le mie emozioni vanno tenute a bada.
È sempre da due giorni che una strana nausea si impossessa di me a momenti alterni. Non sono malata, ho un’ansia indefinibile appollaiata sul fondo della gola. Se la percepisco devo mangiare piano e respirare, mangiare piano, respirare, altrimenti rischio di buttare tutto fuori.
La mia amica ammicca: “È da domenica che stai così perché sabato hai conosciuto lui?”. Io dico di no, che è impossibile, però in fondo in fondo non posso escluderlo.
Paradossalmente mi sento bene, questa strana energia che mi dilania mi fa sentire viva, mi circola nel sangue, mi scuota e mi agita, mi spinge ad andare avanti. Almeno fino a quando non potrò specchiarmi ancora nei tuoi occhi castani, quando mi siedi accanto parlandomi e ti guardi intorno, per poi voltarti di tanto in tanto a carpire le mie impressioni. Starei delle ore così, ascoltando la tua voce, percependo la tua presenza al mio fianco. Tutto questo mi placa.
Non ho bisogno di pensare a come comportarmi con te, sono spontanea, naturale, sono me stessa. Mi sembra finalmente che i miei ingranaggi girino nel verso giusto.
Mi piace il modo in cui mi piaci. Mi piace il fatto che siamo due persone vere quando siamo insieme.
Mi piace il fatto che sia tutto così reale: il nostro incontro, la nostra musica, le cose di cui abbiamo parlato, il gradino, la chiesa, il lunedì sera.
È anche per questo che ho paura dell’attesa, non voglio che il mio modo di pensare a te cambi, che tutto resti un ricordo o un’immagine nella mia mente.
È di nuovo mattina e il tuo album della vita viene riprodotto dal mio cellulare.
Penso al modo che hai di salutarmi. Due baci sulle guance. Non è mai un avvicinarsi o uno sfiorarsi, percepisco chiaramente la tua pelle ruvida di barba che affonda nella morbidezza della mia guancia.
Parliamo ancora.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Sospirando Sabatoracconto sucessivo
Vibrazioni
Commenti dei lettori al racconto erotico