Complamare*
di
Dora
genere
sentimentali
La mente mi riporta alla tua stanza. Il buio che sfuma nel giallo della lampada sul comodino. Il silenzio rotto dal ticchettare della pioggia sul tetto di legno. Il letto ingombrante al centro dell’inquadratura, le lenzuola grigie di pile scostate. Seduto crei un piccolo avvallamento. La penombra ti disegna. Hai il viso incorniciato dai ricci, le guance sfiorate dalla barba soffice. Il tuo sguardo è fisso su di me e luccica.
Hai pantaloni scuri dal tessuto liscio, dal taglio dritto. Io non ho niente a coprirmi le gambe. Hai una camicia di flanella a quadri. Io non ho niente di niente a coprirmi il petto. Mi hai spogliato tu. Il rossore sulle guance è l’unico velo che mi è concesso.
«Vieni qui», la voce ti esce roca e rilassata. Un sorrisetto obliquo ti trasfigura il viso.
Sento i piedi avanzare sul pavimento, il corpo bianco e nudo come una porcellana. Mi fermi in piedi e affondi le mani nei miei fianchi, il viso sul mio ventre. Inspiri il mio odore facendomi rabbrividire. Mi tiri giù, la pancia sulle tue ginocchia, il resto del corpo sorretto dal letto.
«Concentrati, respira», fai scendere carezze dai capelli alla schiena, continui a sussurrare: «Concentrati, respira». Ma non riesco a fermare i tremori che mi scuotono. È il freddo. È la consapevolezza di essere tra le tue mani che scendono e si muovono in circolo tra i fianchi e l’osso sacro e il culo, non posso smettere di vibrare, è la consapevolezza che il mio corpo lo controlli tu e poi
SLAP! assesti il primo colpo, dalla mia gola sgorga un urlo esile, il bacino si protende verso la tua mano in attesa di entrare nel ritmo di colpi e carezze. Sei consapevole del mio bisogno quando delicato mi sfiori le guance, posi un bacio sulla schiena e subito dopo vai a segno sferzante col palmo aperto sul culo, è il mio bisogno – mentre mi torco e mi ritorco stretta alle tue ginocchia - e con piacere lo assecondi.
Ti fermi solo quando gocciolo, mi metti a sedere.
«brava piccola», buttato lì mentre con le dita sfiori la mia intimità, mi fai mugolare e posi le labbra sulle mie. Percorri il mio corpo con baci umidi di bava di lumaca. Attaccato ai capezzoli li rendi gonfi e duri. Posso solo accarezzarti i capelli e aprire le cosce.
Aspetto il momento in cui divelta sul letto ti sentirò entrare e uscire da me, sospirandomi nell’orecchio. Il tuo petto schiacciato sulla schiena, imperlati da un velo di sudore come fossimo fili d’erba al sorgere del sole.
Alla fine pulsare violenti e rimanersi addosso con l’affanno, mentre la stanza torna a suonare corde lente e mi sento vuota fino alla pace.
Possiamo essere carnali in un modo così viscerale? Non ci conosciamo bene e mi vergogno a guardarti negli occhi quando ti sono sopra e la tua mano mi stringe il collo.
Cosa mi rimarrà degli uomini che mi sono piaciuti e hanno toccato il mio corpo?
È come mi ha detto quello studente nella sua stanza a Roma Tiburtina, con una mano sulla mia pancia mentre mi rivestivo: «Senti? È diverso se ti tocco io. Abbiamo bisogno del contatto».
Allora ripenso a tutti loro, alle stanze, ai letti, alle macchine; ai posti, ai film, alle canzoni e a tutte le esperienze che ho condiviso. Non mi pento.
Tu mi piaci ma non ha importanza. Mi basta, ogni tanto, tornare col pensiero alle notti che abbiamo condiviso, ai risvolti tragicomici, al tuo sorriso, al morso che ti ho dato sulla pancia.
Continuo a consumare le scarpe che ho, fatte per camminare. A voler bene in modo prematuro e maldestro. Mi piace farmi consumare dal mondo.
*Scritto di getto dopo tanto tempo, mi scuso per eventuali errori o per bassa qualità di scrittura. Il titolo è un gioco di parole che ho preso da una mostra fotografica che ho visto anni fa. La parola "complanare" indica una strada secondaria rispetto ad un'arteria principale dove spesso stazionano le prostitute. Con "complamare" intendo un modo diverso, parallelo di amare, un modo mio, maldestro, breve, volubile ma non per questo meno intenso. (La prostituzione non c'entra nel mio caso ma era oggetto delle fotografie della mostra).
Hai pantaloni scuri dal tessuto liscio, dal taglio dritto. Io non ho niente a coprirmi le gambe. Hai una camicia di flanella a quadri. Io non ho niente di niente a coprirmi il petto. Mi hai spogliato tu. Il rossore sulle guance è l’unico velo che mi è concesso.
«Vieni qui», la voce ti esce roca e rilassata. Un sorrisetto obliquo ti trasfigura il viso.
Sento i piedi avanzare sul pavimento, il corpo bianco e nudo come una porcellana. Mi fermi in piedi e affondi le mani nei miei fianchi, il viso sul mio ventre. Inspiri il mio odore facendomi rabbrividire. Mi tiri giù, la pancia sulle tue ginocchia, il resto del corpo sorretto dal letto.
«Concentrati, respira», fai scendere carezze dai capelli alla schiena, continui a sussurrare: «Concentrati, respira». Ma non riesco a fermare i tremori che mi scuotono. È il freddo. È la consapevolezza di essere tra le tue mani che scendono e si muovono in circolo tra i fianchi e l’osso sacro e il culo, non posso smettere di vibrare, è la consapevolezza che il mio corpo lo controlli tu e poi
SLAP! assesti il primo colpo, dalla mia gola sgorga un urlo esile, il bacino si protende verso la tua mano in attesa di entrare nel ritmo di colpi e carezze. Sei consapevole del mio bisogno quando delicato mi sfiori le guance, posi un bacio sulla schiena e subito dopo vai a segno sferzante col palmo aperto sul culo, è il mio bisogno – mentre mi torco e mi ritorco stretta alle tue ginocchia - e con piacere lo assecondi.
Ti fermi solo quando gocciolo, mi metti a sedere.
«brava piccola», buttato lì mentre con le dita sfiori la mia intimità, mi fai mugolare e posi le labbra sulle mie. Percorri il mio corpo con baci umidi di bava di lumaca. Attaccato ai capezzoli li rendi gonfi e duri. Posso solo accarezzarti i capelli e aprire le cosce.
Aspetto il momento in cui divelta sul letto ti sentirò entrare e uscire da me, sospirandomi nell’orecchio. Il tuo petto schiacciato sulla schiena, imperlati da un velo di sudore come fossimo fili d’erba al sorgere del sole.
Alla fine pulsare violenti e rimanersi addosso con l’affanno, mentre la stanza torna a suonare corde lente e mi sento vuota fino alla pace.
Possiamo essere carnali in un modo così viscerale? Non ci conosciamo bene e mi vergogno a guardarti negli occhi quando ti sono sopra e la tua mano mi stringe il collo.
Cosa mi rimarrà degli uomini che mi sono piaciuti e hanno toccato il mio corpo?
È come mi ha detto quello studente nella sua stanza a Roma Tiburtina, con una mano sulla mia pancia mentre mi rivestivo: «Senti? È diverso se ti tocco io. Abbiamo bisogno del contatto».
Allora ripenso a tutti loro, alle stanze, ai letti, alle macchine; ai posti, ai film, alle canzoni e a tutte le esperienze che ho condiviso. Non mi pento.
Tu mi piaci ma non ha importanza. Mi basta, ogni tanto, tornare col pensiero alle notti che abbiamo condiviso, ai risvolti tragicomici, al tuo sorriso, al morso che ti ho dato sulla pancia.
Continuo a consumare le scarpe che ho, fatte per camminare. A voler bene in modo prematuro e maldestro. Mi piace farmi consumare dal mondo.
*Scritto di getto dopo tanto tempo, mi scuso per eventuali errori o per bassa qualità di scrittura. Il titolo è un gioco di parole che ho preso da una mostra fotografica che ho visto anni fa. La parola "complanare" indica una strada secondaria rispetto ad un'arteria principale dove spesso stazionano le prostitute. Con "complamare" intendo un modo diverso, parallelo di amare, un modo mio, maldestro, breve, volubile ma non per questo meno intenso. (La prostituzione non c'entra nel mio caso ma era oggetto delle fotografie della mostra).
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