"Quanto mi vuoi?"
di
Dora
genere
etero
“Niente è un bel pensiero da mettere tra le gambe delle ragazze”, lo canticchio insieme alla traccia.
Ho fatto sesso, dopo un anno, per nessun motivo e senza nessun sentimento. Niente è un bel pensiero da mettere tra le gambe delle ragazze.
Sono passata dall’essere vista alla macchinetta del caffè, a cuoricini sul mio profilo ig, a messaggini via via più espliciti nelle intenzioni. Due giorni dopo ero nel suo letto. Non ha nessun senso.
E un anno e mezzo fa io accompagnavo la mia vecchia migliore amica a casa sua in piena notte per lo stesso motivo. Non ha nessun senso.
Eppure l’ho deciso e l’ho fatto. Volevo esserne in grado e volevo essere vista. Volevo prendere una birra in un bar a caso e baciare labbra morbide nell’abitacolo buio della mia macchina. Sentire una mano sulla coscia, sotto il seno, che sfrega il tessuto di cotone sulla pelle nascosta. Sentirmi sussurrare roco all’orecchio: «Andiamo a casa?». Annuire, fingermi ragazzina sottomessa, come se fosse tutta una maschera e avessi smesso di vivermi il sesso con timore e curiosità.
Volevo salire in ascensore e pensare ai romanzi stupidi per preadolescenti in cui appena le porte si chiudono si viene travolte da mani e lingue in bocca; invece di guardarsi nello specchio, goffi come pupazzetti. Un giovane uomo, alto, robusto e spavaldo. Una giovane donna, piccola, pallida e insicura. Pupazzetti opposti, che si guardano nello specchio e non si toccano.
Volevo vedere la casa buia dell’ennesimo studente fuorisede, la sua stanzetta rettangolare, piena di roba ma non poi così tanta. Volevo farmi mostrare il libro su Fisher su cui sta scrivendo una tesi ed essere baciata e spinta all’indietro. Sbattere sul letto, dire – sono molto maldestra a volte – sentirsi rispondere – io no – precipitare.
Volevo perdere i vestiti, rimanere in mutandine mentre succhio il suo cazzo. Sentire le mani trai capelli, la pressione sulla testa. Leccare l’asta, farci scorrere le labbra. Andare su e giù assaporando il desiderio. Farmi invadere la bocca fino alla gola, essere tenuta un po’ ferma.
Volevo sentirmi dire – siediti sulla mia faccia – farmelo ripetere. Poi davvero svicolare nuda, goffa, verso il suo viso. Percepire l’invasione della lingua, lanciare gemiti e urletti. Domandarmi se il suo coinquilino ci abbia sentiti. Continuare a toccarlo un po’ con la bocca un po’ con le mani.
Non lo sapevo, ma volevo anche essere sollevata in aria all’improvviso, sulle sue spalle, reggermi al muro come un gatto che si aggrappa ad una tenda, pensare di cadere e rompermi sul pavimento ma sempre con quella lingua in mezzo alle cosce.
E poi ritornare giù sul letto, a succhiare e aspettare gli schizzi. Bere tutto e rimanere un attimo lì, nudi e affannosi. Bere un sorso della birra portata a casa e dire che mischiata al suo sapore è anche meglio.
Volevo dividere una sigaretta, nudi sul davanzale della finestra. Guardare giù e vedere un gruppo di cinquantenni, dire – forse non è il caso che mi vedano così – pensare – sarebbe bello essere visti entrambi così. Giovani, con i segni del sesso sul corpo, sul viso. Senza che ce ne fregasse un cazzo dei lampioni, della circonvallazione, dei cinquantenni per strada.
Volevo avere la certezza che il mondo fosse in quella stanza mentre lui, uno qualsiasi tra i tanti che avrei potuto scegliere, mi prendeva da dietro, affondava le mani nella pelle dei fianchi. Avevo la certezza di esistere stretta tra le mani, insidiata troppo velocemente. Ancora provando dolore per il troppo tempo in cui non mi era successo.
E poi finirla lì, senza volere più niente. Trovarsi segni di dita su un polpaccio e ridere. Dirgli che è bello guardandogli il culo e la schiena e il collo. Dirgli che è bello perché mi piacciono i maschi.
Raccattare le mutandine bianche e umidicce dal pavimento. Cercare collant, pantaloncini e maglietta sparsi qua e là. Ritrovarsi semplicemente nell’oscurità del pianerottolo. La porta chiusa con un tonfo. Chiamare l’ascensore.
Fissare allo specchio occhi umidi di bambolina chiedendosi se non manchi qualcosa.
Un orgasmo, forse. Ma non è solo quello.
Ritrovarsi per strada come tornando ad un altro pianeta, uguale in tutto ma non familiare. Una foresta di simboli fatta di semafori e luce arancione di sodio. Mi sentivo confusa e dolorante. Mi sfuggivano i significati delle cose. Non ero più solo corpo, non lo ero mai stata.
Il sesso mi sfugge, è un essere dal sorriso ammiccante che gioca con la seduzione, attrae e respinge. Riempie fino alla completezza, svuota fino all’abisso. Io lo interrogo, gli chiedo cosa ha da offrirmi di più perché quello che ho avuto non mi basta.
Mi fa l’occhiolino, mi mostra i numeri in rubrica, mi ricorda che c’è un modo, forse rischioso, ma comunque un modo per distrarsi dallo stress della sessione.
Niente è un bel pensiero da mettere tra le gambe delle ragazze.
Ho fatto sesso, dopo un anno, per nessun motivo e senza nessun sentimento. Niente è un bel pensiero da mettere tra le gambe delle ragazze.
Sono passata dall’essere vista alla macchinetta del caffè, a cuoricini sul mio profilo ig, a messaggini via via più espliciti nelle intenzioni. Due giorni dopo ero nel suo letto. Non ha nessun senso.
E un anno e mezzo fa io accompagnavo la mia vecchia migliore amica a casa sua in piena notte per lo stesso motivo. Non ha nessun senso.
Eppure l’ho deciso e l’ho fatto. Volevo esserne in grado e volevo essere vista. Volevo prendere una birra in un bar a caso e baciare labbra morbide nell’abitacolo buio della mia macchina. Sentire una mano sulla coscia, sotto il seno, che sfrega il tessuto di cotone sulla pelle nascosta. Sentirmi sussurrare roco all’orecchio: «Andiamo a casa?». Annuire, fingermi ragazzina sottomessa, come se fosse tutta una maschera e avessi smesso di vivermi il sesso con timore e curiosità.
Volevo salire in ascensore e pensare ai romanzi stupidi per preadolescenti in cui appena le porte si chiudono si viene travolte da mani e lingue in bocca; invece di guardarsi nello specchio, goffi come pupazzetti. Un giovane uomo, alto, robusto e spavaldo. Una giovane donna, piccola, pallida e insicura. Pupazzetti opposti, che si guardano nello specchio e non si toccano.
Volevo vedere la casa buia dell’ennesimo studente fuorisede, la sua stanzetta rettangolare, piena di roba ma non poi così tanta. Volevo farmi mostrare il libro su Fisher su cui sta scrivendo una tesi ed essere baciata e spinta all’indietro. Sbattere sul letto, dire – sono molto maldestra a volte – sentirsi rispondere – io no – precipitare.
Volevo perdere i vestiti, rimanere in mutandine mentre succhio il suo cazzo. Sentire le mani trai capelli, la pressione sulla testa. Leccare l’asta, farci scorrere le labbra. Andare su e giù assaporando il desiderio. Farmi invadere la bocca fino alla gola, essere tenuta un po’ ferma.
Volevo sentirmi dire – siediti sulla mia faccia – farmelo ripetere. Poi davvero svicolare nuda, goffa, verso il suo viso. Percepire l’invasione della lingua, lanciare gemiti e urletti. Domandarmi se il suo coinquilino ci abbia sentiti. Continuare a toccarlo un po’ con la bocca un po’ con le mani.
Non lo sapevo, ma volevo anche essere sollevata in aria all’improvviso, sulle sue spalle, reggermi al muro come un gatto che si aggrappa ad una tenda, pensare di cadere e rompermi sul pavimento ma sempre con quella lingua in mezzo alle cosce.
E poi ritornare giù sul letto, a succhiare e aspettare gli schizzi. Bere tutto e rimanere un attimo lì, nudi e affannosi. Bere un sorso della birra portata a casa e dire che mischiata al suo sapore è anche meglio.
Volevo dividere una sigaretta, nudi sul davanzale della finestra. Guardare giù e vedere un gruppo di cinquantenni, dire – forse non è il caso che mi vedano così – pensare – sarebbe bello essere visti entrambi così. Giovani, con i segni del sesso sul corpo, sul viso. Senza che ce ne fregasse un cazzo dei lampioni, della circonvallazione, dei cinquantenni per strada.
Volevo avere la certezza che il mondo fosse in quella stanza mentre lui, uno qualsiasi tra i tanti che avrei potuto scegliere, mi prendeva da dietro, affondava le mani nella pelle dei fianchi. Avevo la certezza di esistere stretta tra le mani, insidiata troppo velocemente. Ancora provando dolore per il troppo tempo in cui non mi era successo.
E poi finirla lì, senza volere più niente. Trovarsi segni di dita su un polpaccio e ridere. Dirgli che è bello guardandogli il culo e la schiena e il collo. Dirgli che è bello perché mi piacciono i maschi.
Raccattare le mutandine bianche e umidicce dal pavimento. Cercare collant, pantaloncini e maglietta sparsi qua e là. Ritrovarsi semplicemente nell’oscurità del pianerottolo. La porta chiusa con un tonfo. Chiamare l’ascensore.
Fissare allo specchio occhi umidi di bambolina chiedendosi se non manchi qualcosa.
Un orgasmo, forse. Ma non è solo quello.
Ritrovarsi per strada come tornando ad un altro pianeta, uguale in tutto ma non familiare. Una foresta di simboli fatta di semafori e luce arancione di sodio. Mi sentivo confusa e dolorante. Mi sfuggivano i significati delle cose. Non ero più solo corpo, non lo ero mai stata.
Il sesso mi sfugge, è un essere dal sorriso ammiccante che gioca con la seduzione, attrae e respinge. Riempie fino alla completezza, svuota fino all’abisso. Io lo interrogo, gli chiedo cosa ha da offrirmi di più perché quello che ho avuto non mi basta.
Mi fa l’occhiolino, mi mostra i numeri in rubrica, mi ricorda che c’è un modo, forse rischioso, ma comunque un modo per distrarsi dallo stress della sessione.
Niente è un bel pensiero da mettere tra le gambe delle ragazze.
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