Tre racconti immorali
di
Dora
genere
etero
Manca poco. Le porte verranno chiuse con un tonfo, una volta per tutte. Le chiavi verranno restituite. Non vedremo mai più quelle case. I pullman si allontaneranno in un rumore assordante di combustione, scomparendo in nuvole di fumo denso e grigio. I treni partiranno fischiando, zeppi di valigie e di persone che non vogliono voltarsi indietro.
Solo due settimane e li lasceranno da soli: quelli che hanno scelto di rimanere. La luce perde durata e intensità. I colori si fanno più violenti. Le spiagge, le pinete, le strade provinciali deserte, regalano un piacere estatico di riappropriazione. Un piacere mischiato ai tagli di pugnale, sanguinanti, bruciati dall’aria salmastra. Gli amici veri vanno a lavorare al nord,
a lavorare, a studiare, a festeggiare, ai concerti, a ubriacarsi al nord.
«Parto tra quattro giorni, sono un po’ agitato», le disse, avevano finito da poco di fare sesso.
L’aveva contattata per quello, era la terza volta che si incontravano quell’estate.
Con lei era semplice, si scrivevano, entrambi avevano voglia, si incontravano a casa sua. Non doveva preoccuparsi di portarla in giro per locali, pagare da bere o da mangiare, presentarla agli amici. Ed era anche dieci anni più piccola, una benedizione.
Le stringeva i fianchi, le affondava dentro da dietro.
Farla venire era difficile, quello sì, ci era riuscito solo una volta. A dire la verità era stata lei a toccarsi il clitoride mentre lui la penetrava, ma valeva lo stesso. Era stato lui a resistere abbastanza a lungo da permetterglielo. Comunque si trattava di una questione mentale, glielo aveva detto: “è che a volte non ci riesco” – “ma anche da sola?” – “no, da sola ci riesco sempre”. Ma non si angosciava, dopo tutto se continuavano a vedersi doveva pur piacerle.
Non era affettuoso, non la baciava se non raramente, ma era gentile e rispettoso. Le dava i suoi tempi, cercava di tenerla rilassata, si muoveva come voleva lei.
Non la leccava, se non una punta di lingua sul clitoride. Non poteva farci niente, non gli piaceva al naturale, teneva i peli corti ma comunque c’erano. Era un brav’uomo abbastanza da non dirglielo. Tanto lei non chiedeva mai niente, al di là dei “puoi fare un po’ più piano” o “cambiamo posizione?”. Doveva persino offrirle lui un bicchiere d’acqua alla fine, prima di andare via, perché nonostante lei lo desiderasse non lo diceva ad alta voce. La beveva sempre gelata dal frigo, cosa che lui ammirava.
Le ultime due volte aveva preso a volerla scopare con addosso la gonna, lo eccitava. Doveva sempre alzarla per vedere la sua fighetta mangiargli il cazzo mentre lei lo cavalcava. O per darle delle pacche su quel bel culetto che si ritrovava.
Quell’ultima volta non era sembrata entusiasta. “Vuoi che la lasci?” aveva chiesto e alla sua risposta affermativa aveva fatto una smorfia, come a dire “ah, se proprio devo” ma ancora una volta non lo aveva fatto.
Si era goduto uno dei suoi gloriosi pompini, lo prendeva fino a fargli sentire il caldo della gola, con naturalezza, nel frattempo ci giocava con la lingua e gli massaggiava le palle con la mano. Lui doveva solo rimanere steso con gli occhi chiusi e godere.
La penetrazione poi era stata piacevole, lei era stretta, forse meno rilassata del solito, le era servito più tempo ad abituarsi. Anche prenderla da dietro aveva richiesto diversi aggiustamenti ma alla fine era riuscito a scoparla in profondità. “Possiamo cambiare ancora?”, aveva chiesto lei, non ne aveva abbastanza.
“Posso venirti sul culo?”, aveva chiesto lui.
“Va bene”.
In cuor suo la ragazza aveva immaginato un secondo round. Era rimasta sporca di sperma, carponi sul letto in una posa innaturale. Lui aveva preso della carta igienica e l’aveva ripulita sbrigativamente.
Dopo lei era stata più silenziosa del solito, non si guardavano, stesi nudi uno accanto all’altra.
È stato in quel momento che le ha detto della partenza. Forse finalmente avrebbe trovato un lavoro, dopo due lauree, diversi corsi e tentativi andati male. Era agitato, ancora incerto, ancora costretto a lasciare casa.
Le veniva da piangere, non per lui, non avevano quel tipo di rapporto, forse proprio perché lui non era speciale. Perché avrebbe voluto un orgasmo, più baci, più abbracci, più carezze.
Perché tutti partivano e ancora lei restava.
E avevano parlato di attacchi di panico. Lui le aveva consigliato di allenarsi per alleviare le sensazioni negative. Poco delicatamente, ma non con l’intenzione di ferirla, le aveva anche detto che difficilmente avrebbe trovato lavoro con la sua laurea umanistica. Parlava per esperienza, in cuor suo sperava che sarebbe riuscita a fare quello che voleva.
Si era trattenuta, non poteva piangere, non era quel tipo di rapporto.
Si erano rivestiti. Pipì post coito per evitare la cistite. Bicchiere d’acqua gelata. L’aveva accompagnata alla porta ma non giù per le scale, “guida piano”. Aveva chiuso la porta soddisfatto e non ci aveva più pensato.
- - - - - - - -
Alla festa era arrivato incazzato e non aveva più voglia di suonare.
Dovevano partire in cinque erano arrivati in due, lui e il batterista. Quei coglioni avevano bidonato, lo lasciavano sempre indietro.
Non era famoso, né pagato, perché avrebbe dovuto esserlo la band.
L’organizzatore era un amico, gli aveva offerto vitto, alloggio, una piccola pubblicità e praticamente una vacanza al mare. Andassero a fare in culo, una seconda chitarra e una tastiera li trovava quando voleva. Il bassista lo aveva già rimediato e sembrava un tipo sveglio.
Tolta la ruggine con il primo pezzo non era neanche andata male.
“Vi conviene alzarvi in piedi, non vogliamo fare come l’aperitivo ai Parioli” e lo avevano fatto, i ragazzi muovevano i piedi e si davano pacche sulle spalle, le ragazze ancheggiavano e lo guardavano suonare la chitarra. Alla fine gli avevano anche chiesto il bis.
Se aveva mollato il lavoro da videomaker professionista era per quello, tanto prima o poi tocca morire ed era meglio farlo facendo musica. Lo stava dicendo ad un tipo che gli stava proponendo un ingaggio in un’etichetta milanese. E in realtà anche ad una pischella che stava lì accanto, li fissava, annuiva, sorrideva ma non spiccicava una parola. Pareva quasi muta.
Aveva la maglietta leggermente macchiata di pomodoro, colpa del buffet. I capelli legati a coda, gli occhi truccati di nero e dei pantaloncini di cotone doppio, scoloriti. “Buffa sta pischella, me sa che le piaccio”, aveva pensato. Era ben conscio del suo fascino, stava giusto dicendo al tipo di come aveva mandato in fumo la sua ultima possibilità di contratto con un’etichetta.
“Me la sono scopata lì, alla festa della casa discografica. Poi lei si è accollata, ha iniziato a fare la matta come una ragazzina delle scuole medie. Stava già sotto contratto con loro e io ho preferito lasciare perdere, bro”; la pischella continuava ad ascoltarli in silenzio. Aveva provato a guardarla negli occhi e fare dei cenni nei suoi confronti mentre parlava, aveva intravisto la bocca aprirsi ma poi nulla. Un mix di mistero e timidezza.
Non poteva sapere cosa stava pensando lei, che avrebbe voluto saltargli direttamente sul cazzo. Forse stava ovulando e comunque nei pensieri certe cose le poteva dire. Ad alta voce proprio non trovava un modo di inserirsi nella conversazione, se l’era fatto scappare.
Gli amici lo reclamavano, aveva le cartine lunghe infilate nei calzini alti di spugna. Non vedeva l’ora di sballarsi, dopo il live non c’era sensazione migliore e quella sera stava girando un sacco di roba.
Era corso via e non aveva più pensato alla pischella strana.
Gli era parsa muta. Non aveva fatto caso ai suoi occhi scuri di caffè nel pubblico, mentre si inseriva come voce in una improvvisata “Walking On The Moon”. Una voce roca e sguaiata che dava un tocco punk al nero pece di un sabato notte di fine agosto.
- - - - - - - -
Con l’arrivo di settembre mancava sempre meno, chi doveva partire si sarebbe dissolto tra la prima e la seconda settimana.
Era una mattina pigra, convenzionalmente era quasi mezzogiorno, il baluardo del pomeriggio. “Chamber Of Reflection” usciva dal suo computer. Lei se ne stava sdraiata sul letto con un infantile pigiama rosa, quelli da donna li facevano tutti così. Intontita, aveva messo la canzone in loop.
Il cervello era piacevolmente intorpidito, la sera prima era stata ad un festino e aveva fatto tre tiri d’erba. Era tornata a casa in fame chimica e con un edibile cioccolatoso in un bicchiere di plastica. Aveva ceduto e l’aveva trangugiato, si era goduta il sapore avvolgente ed erbaceo. Poi era andata a dormire e si era svegliata così, un po’ sballata. Da indie con chitarre sognanti, da R&B che scioglie il cervello in un composto burroso, da “checazzovogliofaredellamiavitanonloso”.
Sapeva che non aveva ancora ripreso a studiare, che leggeva poco e faceva scelte sbagliate.
Era uscita con un quarantenne, professore di storia dell’arte, per il gusto di farlo, di ricevere attenzioni. Aveva sentito come di indossare una maschera, di essere un döppelganger sbiadito. Lui era più grasso che nelle foto, meno bello, non particolarmente interessante o divertente. Lo aveva baciato lo stesso, forse non lo avrebbe fatto se avesse avuto i soldi per andare in terapia.
Era più facile deresponsabilizzarsi, cedere ai mostri nascosti sotto al tappeto. Sentirsi dire che era carina perché si vergognava. Sapeva di essere una preda, carne giovane, un riempitivo per l’ego, una figurina che aiutava a risolvere la crisi di mezza età. Che pure era rimasta al tavolo in silenzio, stretta nel vestitino aderente, a bere la sua Sambuca, mentre lui gongolante salutava dei conoscenti incrociati per strada.
Era solo la soluzione più semplice per tappare buchi di bisogni emotivi, perché era diretto, le aveva chiesto di uscire, rispondeva ai messaggi. Era stanca di rincorrere i ragazzi della sua età.
Voleva solo qualcuno con cui avere lunghe conversazioni davanti a un caffè ma non era stagione.
Del resto aveva baciato un quarantenne, era tornata a casa con le mutandine fradice, si era toccata fino all’orgasmo, era mentally ill. Non poteva biasimare il ragazzo del festino se l’aveva evitata, lei aveva anche provato a fare conversazione, a buttare verso di lui domande e frasi di circostanza, nulla.
Forse era perché erano tutti sballati o forse aveva un’aura inquinata. E in fondo apparteneva al silenzio, alla solitudine della cameretta. Funzionava male in quel periodo, non poteva smettere di pensare e non giungeva mai a una conclusione.
Solo due settimane e li lasceranno da soli: quelli che hanno scelto di rimanere. La luce perde durata e intensità. I colori si fanno più violenti. Le spiagge, le pinete, le strade provinciali deserte, regalano un piacere estatico di riappropriazione. Un piacere mischiato ai tagli di pugnale, sanguinanti, bruciati dall’aria salmastra. Gli amici veri vanno a lavorare al nord,
a lavorare, a studiare, a festeggiare, ai concerti, a ubriacarsi al nord.
«Parto tra quattro giorni, sono un po’ agitato», le disse, avevano finito da poco di fare sesso.
L’aveva contattata per quello, era la terza volta che si incontravano quell’estate.
Con lei era semplice, si scrivevano, entrambi avevano voglia, si incontravano a casa sua. Non doveva preoccuparsi di portarla in giro per locali, pagare da bere o da mangiare, presentarla agli amici. Ed era anche dieci anni più piccola, una benedizione.
Le stringeva i fianchi, le affondava dentro da dietro.
Farla venire era difficile, quello sì, ci era riuscito solo una volta. A dire la verità era stata lei a toccarsi il clitoride mentre lui la penetrava, ma valeva lo stesso. Era stato lui a resistere abbastanza a lungo da permetterglielo. Comunque si trattava di una questione mentale, glielo aveva detto: “è che a volte non ci riesco” – “ma anche da sola?” – “no, da sola ci riesco sempre”. Ma non si angosciava, dopo tutto se continuavano a vedersi doveva pur piacerle.
Non era affettuoso, non la baciava se non raramente, ma era gentile e rispettoso. Le dava i suoi tempi, cercava di tenerla rilassata, si muoveva come voleva lei.
Non la leccava, se non una punta di lingua sul clitoride. Non poteva farci niente, non gli piaceva al naturale, teneva i peli corti ma comunque c’erano. Era un brav’uomo abbastanza da non dirglielo. Tanto lei non chiedeva mai niente, al di là dei “puoi fare un po’ più piano” o “cambiamo posizione?”. Doveva persino offrirle lui un bicchiere d’acqua alla fine, prima di andare via, perché nonostante lei lo desiderasse non lo diceva ad alta voce. La beveva sempre gelata dal frigo, cosa che lui ammirava.
Le ultime due volte aveva preso a volerla scopare con addosso la gonna, lo eccitava. Doveva sempre alzarla per vedere la sua fighetta mangiargli il cazzo mentre lei lo cavalcava. O per darle delle pacche su quel bel culetto che si ritrovava.
Quell’ultima volta non era sembrata entusiasta. “Vuoi che la lasci?” aveva chiesto e alla sua risposta affermativa aveva fatto una smorfia, come a dire “ah, se proprio devo” ma ancora una volta non lo aveva fatto.
Si era goduto uno dei suoi gloriosi pompini, lo prendeva fino a fargli sentire il caldo della gola, con naturalezza, nel frattempo ci giocava con la lingua e gli massaggiava le palle con la mano. Lui doveva solo rimanere steso con gli occhi chiusi e godere.
La penetrazione poi era stata piacevole, lei era stretta, forse meno rilassata del solito, le era servito più tempo ad abituarsi. Anche prenderla da dietro aveva richiesto diversi aggiustamenti ma alla fine era riuscito a scoparla in profondità. “Possiamo cambiare ancora?”, aveva chiesto lei, non ne aveva abbastanza.
“Posso venirti sul culo?”, aveva chiesto lui.
“Va bene”.
In cuor suo la ragazza aveva immaginato un secondo round. Era rimasta sporca di sperma, carponi sul letto in una posa innaturale. Lui aveva preso della carta igienica e l’aveva ripulita sbrigativamente.
Dopo lei era stata più silenziosa del solito, non si guardavano, stesi nudi uno accanto all’altra.
È stato in quel momento che le ha detto della partenza. Forse finalmente avrebbe trovato un lavoro, dopo due lauree, diversi corsi e tentativi andati male. Era agitato, ancora incerto, ancora costretto a lasciare casa.
Le veniva da piangere, non per lui, non avevano quel tipo di rapporto, forse proprio perché lui non era speciale. Perché avrebbe voluto un orgasmo, più baci, più abbracci, più carezze.
Perché tutti partivano e ancora lei restava.
E avevano parlato di attacchi di panico. Lui le aveva consigliato di allenarsi per alleviare le sensazioni negative. Poco delicatamente, ma non con l’intenzione di ferirla, le aveva anche detto che difficilmente avrebbe trovato lavoro con la sua laurea umanistica. Parlava per esperienza, in cuor suo sperava che sarebbe riuscita a fare quello che voleva.
Si era trattenuta, non poteva piangere, non era quel tipo di rapporto.
Si erano rivestiti. Pipì post coito per evitare la cistite. Bicchiere d’acqua gelata. L’aveva accompagnata alla porta ma non giù per le scale, “guida piano”. Aveva chiuso la porta soddisfatto e non ci aveva più pensato.
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Alla festa era arrivato incazzato e non aveva più voglia di suonare.
Dovevano partire in cinque erano arrivati in due, lui e il batterista. Quei coglioni avevano bidonato, lo lasciavano sempre indietro.
Non era famoso, né pagato, perché avrebbe dovuto esserlo la band.
L’organizzatore era un amico, gli aveva offerto vitto, alloggio, una piccola pubblicità e praticamente una vacanza al mare. Andassero a fare in culo, una seconda chitarra e una tastiera li trovava quando voleva. Il bassista lo aveva già rimediato e sembrava un tipo sveglio.
Tolta la ruggine con il primo pezzo non era neanche andata male.
“Vi conviene alzarvi in piedi, non vogliamo fare come l’aperitivo ai Parioli” e lo avevano fatto, i ragazzi muovevano i piedi e si davano pacche sulle spalle, le ragazze ancheggiavano e lo guardavano suonare la chitarra. Alla fine gli avevano anche chiesto il bis.
Se aveva mollato il lavoro da videomaker professionista era per quello, tanto prima o poi tocca morire ed era meglio farlo facendo musica. Lo stava dicendo ad un tipo che gli stava proponendo un ingaggio in un’etichetta milanese. E in realtà anche ad una pischella che stava lì accanto, li fissava, annuiva, sorrideva ma non spiccicava una parola. Pareva quasi muta.
Aveva la maglietta leggermente macchiata di pomodoro, colpa del buffet. I capelli legati a coda, gli occhi truccati di nero e dei pantaloncini di cotone doppio, scoloriti. “Buffa sta pischella, me sa che le piaccio”, aveva pensato. Era ben conscio del suo fascino, stava giusto dicendo al tipo di come aveva mandato in fumo la sua ultima possibilità di contratto con un’etichetta.
“Me la sono scopata lì, alla festa della casa discografica. Poi lei si è accollata, ha iniziato a fare la matta come una ragazzina delle scuole medie. Stava già sotto contratto con loro e io ho preferito lasciare perdere, bro”; la pischella continuava ad ascoltarli in silenzio. Aveva provato a guardarla negli occhi e fare dei cenni nei suoi confronti mentre parlava, aveva intravisto la bocca aprirsi ma poi nulla. Un mix di mistero e timidezza.
Non poteva sapere cosa stava pensando lei, che avrebbe voluto saltargli direttamente sul cazzo. Forse stava ovulando e comunque nei pensieri certe cose le poteva dire. Ad alta voce proprio non trovava un modo di inserirsi nella conversazione, se l’era fatto scappare.
Gli amici lo reclamavano, aveva le cartine lunghe infilate nei calzini alti di spugna. Non vedeva l’ora di sballarsi, dopo il live non c’era sensazione migliore e quella sera stava girando un sacco di roba.
Era corso via e non aveva più pensato alla pischella strana.
Gli era parsa muta. Non aveva fatto caso ai suoi occhi scuri di caffè nel pubblico, mentre si inseriva come voce in una improvvisata “Walking On The Moon”. Una voce roca e sguaiata che dava un tocco punk al nero pece di un sabato notte di fine agosto.
- - - - - - - -
Con l’arrivo di settembre mancava sempre meno, chi doveva partire si sarebbe dissolto tra la prima e la seconda settimana.
Era una mattina pigra, convenzionalmente era quasi mezzogiorno, il baluardo del pomeriggio. “Chamber Of Reflection” usciva dal suo computer. Lei se ne stava sdraiata sul letto con un infantile pigiama rosa, quelli da donna li facevano tutti così. Intontita, aveva messo la canzone in loop.
Il cervello era piacevolmente intorpidito, la sera prima era stata ad un festino e aveva fatto tre tiri d’erba. Era tornata a casa in fame chimica e con un edibile cioccolatoso in un bicchiere di plastica. Aveva ceduto e l’aveva trangugiato, si era goduta il sapore avvolgente ed erbaceo. Poi era andata a dormire e si era svegliata così, un po’ sballata. Da indie con chitarre sognanti, da R&B che scioglie il cervello in un composto burroso, da “checazzovogliofaredellamiavitanonloso”.
Sapeva che non aveva ancora ripreso a studiare, che leggeva poco e faceva scelte sbagliate.
Era uscita con un quarantenne, professore di storia dell’arte, per il gusto di farlo, di ricevere attenzioni. Aveva sentito come di indossare una maschera, di essere un döppelganger sbiadito. Lui era più grasso che nelle foto, meno bello, non particolarmente interessante o divertente. Lo aveva baciato lo stesso, forse non lo avrebbe fatto se avesse avuto i soldi per andare in terapia.
Era più facile deresponsabilizzarsi, cedere ai mostri nascosti sotto al tappeto. Sentirsi dire che era carina perché si vergognava. Sapeva di essere una preda, carne giovane, un riempitivo per l’ego, una figurina che aiutava a risolvere la crisi di mezza età. Che pure era rimasta al tavolo in silenzio, stretta nel vestitino aderente, a bere la sua Sambuca, mentre lui gongolante salutava dei conoscenti incrociati per strada.
Era solo la soluzione più semplice per tappare buchi di bisogni emotivi, perché era diretto, le aveva chiesto di uscire, rispondeva ai messaggi. Era stanca di rincorrere i ragazzi della sua età.
Voleva solo qualcuno con cui avere lunghe conversazioni davanti a un caffè ma non era stagione.
Del resto aveva baciato un quarantenne, era tornata a casa con le mutandine fradice, si era toccata fino all’orgasmo, era mentally ill. Non poteva biasimare il ragazzo del festino se l’aveva evitata, lei aveva anche provato a fare conversazione, a buttare verso di lui domande e frasi di circostanza, nulla.
Forse era perché erano tutti sballati o forse aveva un’aura inquinata. E in fondo apparteneva al silenzio, alla solitudine della cameretta. Funzionava male in quel periodo, non poteva smettere di pensare e non giungeva mai a una conclusione.
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