Infiniti ritorni precedendo la tempesta.

di
genere
sentimentali

Cammino sulla spiaggia con i miei pensieri feriti precedendo minacciose nuvole dense, tridimensionali, cupe fino al nero antrace o sfavillanti come madreperla colpita da raggi di sole, torreggianti, dalle fogge cangianti, sospinte da un vento teso che mi sferza le spalle. Scricchiolano le fini conchiglie che le mie suole calpestano sul bagnasciuga, linea vertiginosa sospesa fra l’ignoto abisso del mare del nostro destino, scuro e agitato e la spiaggia simulacro di un fugace riparo, di una illusoria solidità, in realtà inconsistente come i nostri progetti, come le orme dei nostri passi che il lucido frusciante distendersi e ritirarsi dell’onda sulla spiaggia cancella.
Sto tornando e la linea che mi conduce alla meta è interrotta, inframezzata da deviazioni, da derive che dilatano il tempo senza renderlo meno inesorabile. Sto tornando da te verso la casa che guarda il mare che tante volte ho raggiunto e da cui altrettante, vigliacco e pieno di vergogna, son fuggito.
La mia paura di esser solo, non amato, invade la mia mente e non risparmia i miei sogni inquieti. Escatofobico ossessivo per l’idea che le cose mi si dissolvano sfarinandosi fra le mie dita, senza la prospettiva che siano per sempre. Avverto le prime gocce di pioggia su di me, mi rigano il volto come lacrime che da tempo non sgorgano più dai miei occhi secchi, aridi come la mia anima.
Ho bisogno disperato di una fonte viva.
Sono alla tua porta e suono il campanello, fisso timoroso l’obiettivo del videocitofono con il cuore a mille, sicuro che non mi aprirai. Mi merito tutta la tua indifferenza, il tuo disprezzo ma desidero smettere di sanguinare.
- Entra pure, accomodati. La strada la conosci.
Forse, ma tutto ha sapore di nuovo che mi sorprende, mi meraviglia, mi sgomenta.
Socchiudo la porta quel tanto che mi basta per passare e la richiudo.
Sei in cucina intenta a leggere un documento.
Hai milioni di ragioni per scacciarmi. Potessi dartene una sola perché tu potessi farmi rimanere!
Alzi il tuo volto e ti rivolgi verso di me: sottili rughe contornano i tuoi occhi e la tua bocca: mai mi sei sembrata così bella pur nel trascorrere del tempo che, pietoso, ti ha risparmiato, a differenza di me.
Prima ancora con gli occhi e poi con la labbra mi illumini con il tuo sorriso, incomparabilmente bello che col tempo avevo relegato nell’ovvio, nello scontato.
Nei tuoi occhi c’è lo sguardo che ogni uomo vorrebbe su di sé, l’accoglienza dolcissima che stempera nel perdono la miseria del mio tradimento. Non so dire nulla, il silenzio è pieno di parole non dette, dense che riempiono il cuore scaldandolo senza gonfiarlo opprimenti, rendendolo libero e leggero.
Lei con espressione dolcemente beffarda mi consegna un vecchio Ipod, di certo quello che avevo smarrito giorni fa.
- L’ho trovato qui vicino.
- Come hai capito che era mio?
- Solo tu potresti comporre una playlist che va dal “Requiem” di Mozart a “Sandra portami al mare”.
Non posso che sorridere all’evidenza del caos e dell’incompetenza dei miei gusti musicali, ernia di un inconscio che disorientato non sa ritrovare il fil rouge di un senso.
Siamo uno nelle braccia dell’altra. Cosa ho mai fatto per meritarmi il tuo bel corpo, che il tempo ha solo potuto ammorbidire e non far sfiorire? Ma soprattutto cosa ho fatto per meritare te? Prima si diluiscono, poi svaniscono le paure, si stagnano le ferite grondanti. Sento il profumo del seno di velluto, della tua intimità all’aprirsi delle cosce morbide. Sono in te e tu in me, il ritmo dei nostri bacini e dei nostri respiri, tutto si fonde, è condiviso.
Ti do il meglio di me, che è poca cosa, mi dai tutto di te che è anticipo d’infinito. Bestiale, cupo, ingrato, iracondo questo son io, ma il mio orizzonte sei tu e senza son perduto.
Mi alzo dal letto e mi dirigo verso la finestra per interrompere lo sbattere insistente di un’imposta. Un’angoscia d’un tratto mi assale. Penso che allorquando mi girerò la stanza sarà vuota, regno di silenzio e desolazione e il calore del sogno si dissolverà in spirali di fumo rivelandomi la verità di un nulla invadente e disperante.
Sarà stato solo un illusione consolatoria che ho creduto di vivere?
Mi volgo pronto a ricevere in faccia la vertiginosa freddezza del nulla…ma tu, amore antico, nuovo ed eterno ci sei, sei solida, morbida roccia a cui, naufrago, mi aggrappo.
Ci sei veramente. Sono fra le tue braccia in pace e quieto e solo la morte, ma spero nemmeno quella, mi strapperà da te.
Fuori la tempesta si scatena nella profondità della notte con scrosci di pioggia che il vento fa turbinare, cigolano le imposte e l’aria tumultuosa si insinua nella stanza recando umidi soffi profumati di mare. Ben al di sopra delle nuvole e del vento che urla, dieci miliardi di stelle della via Lattea, avamposti di un universo sconfinato brillano, slucciolano nello spazio: noi c’entriamo con loro. Lo capisco molto bene adesso.


PS. Velleitario e banale come son io e questo racconto è testimonianza nuda del mio grafico insulso ciangottare.
Ciao a tutti, così mi piace salutarvi, ormai anacronistico rappresentante di questo consesso - non paese per vecchi malinconici - a cui anagraficamente appartengo. La fastidiosa sensazione di essere ridicolo mi impone di sciogliere le vele oppure…chissà.

Vostro Samas

di
scritto il
2021-12-24
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