L'Uomo Nero
di
Judicael Ouango
genere
etero
L’uomo nero
Sono nato a Bergamo oltre quarant’anni fa. Per uno come me, intendo, con la pelle del mio colore, era singolare vivere in mezzo ad una maggioranza di persone di un’altra tinta. E difficile la considerazione che avevano della mia. Chi mi sfiorava la pelle con curiosità, chi si manteneva a debita distanza da me e dai miei genitori, chi, addirittura, vietava al proprio figlio di giocare con me al parco. Mio padre, ingegnere alla Fiat, venuto dal Congo per proseguire i suoi studi, non ci faceva mancare niente, ma era poco presente. Mia madre, infermiera a Kinshasa, si era trasferita per amore di mio padre perdendo così ogni qualifica professionale, il che le consentiva di condividere a pieno le nostre realtà di vita quotidiane. E non era facile. La vedevo spesso piangere quando venivamo cacciati da un negozio, presi in giro per strada, o quando le altre mamme non volevano che i loro bimbi giocassero con noi. Mamma era molto sensibile. Una donna forte che aveva scelto la sua professione proprio per aiutare le persone; si sentiva inutile in quel contesto, offesa, sottovalutata e, come se non bastasse, mio padre non c’era mai.
Anche mio padre, viveva le sue difficoltà. Al lavoro aveva dovuto scontrarsi con alcuni razzisti dichiarati che non perdevano l’occasione di buttargli fango addosso o di ostacolarlo il più possibile nel suo lavoro. La sua era una lotta continua contro l’ignoranza e la superbia della gente.
Io, mio fratello e mia sorella, da piccoli, non avevamo sofferto molto. Non perché ci bastasse stare insieme, ma per noi era diventata normale la divisione in base a criteri che allora non conoscevamo. Eravamo abituati alla cattiveria della gente nei confronti del colore della nostra pelle o, all’opposto, alla loro compassione estrema che era addirittura peggio del disprezzo. Vidi mia madre piangere in pubblico una volta, quando una signora le diede dei soldi mentre passeggiavamo nelle strade del centro, dicendole: “Tenga signora, e che il cielo vi aiuti”.
Mamma non voleva aiuto. Mio padre guadagnava molto bene. Lei, semplicemente, voleva vivere in un posto dove non esistessero offese gratuite. Il razzismo, essendo africana e avendo, oltretutto, vissuto la drammatica esperienza delle guerre tribali, era disseminato ovunque. Lei lo sapeva, ma non immaginava che gente sazia, che non sapesse cosa significhi avere fame, potesse essere cosi cattiva. Lei, ingenuamente, pensava che in Europa la gente fosse buona a prescindere, perché non aveva problemi di sopravvivenza. L’assenza di mio padre non faceva che complicare le cose. Mia madre si sentiva abbandonata e cominciò a bere.
Per un increscioso episodio in chiesa, finito ad insulti pesanti e razzisti nei nostri confronti, non fummo più mandati a scuola. Io e i miei fratelli eravamo felici, visto che il prete ci trattava in malo modo. Il circolo delle donne del quartiere aveva rifiutato di ammettere mia madre, adducendo pretesti talmente inconsistenti da far sorridere addirittura lei. Le sue sole amiche erano le donne senegalesi che facevano le treccine a lei e a mia sorella. Erano, però, persone di basso livello culturale, esperte del loro mondo, ma lontane da quello in cui vivevano. Non parlavano l’italiano quasi per niente e continuavano a vivere quasi pressoché stesso modo del loro paese di origine; dalla cucina, al rito del tè, alle preghiere. Quando accompagnavo mia madre da loro, entravo in un mondo per me magico. Fatto di odori, di voci alte, di tante risate, di cibo, carezze, con la colonna sonora di una lingua che non capivo, il film di una vita ove non si facevano differenze.
Era l’unico luogo in cui mi sentissi completamente accettato. Così era anche per mio il fratellino e la mia sorellina. Allora, visto che Bergamo ci aveva abituati al rifiuto, l’accettazione totale ci meravigliava.
Credo che mia madre restò per noi. Cercò di convincere mio padre a cambiare paese, ma lui era reticente. Avrebbe dovuto ricominciare la sua carriera dai ranghi più bassi, asseriva. Mia madre, invece, era dell’opinione contraria, diceva che la sua esperienza era un strumento che qualunque altra casa automobilistica nel mondo avrebbe pagato a caro prezzo. Mia madre naturalmente aveva ragione, ma mio padre era scoraggiato. Non si aspettava questa guerra ai colori nel paese dei bianchi. Era rimasto schiacciato dall’ignoranza della gente e i suoi tentativi di integrarsi erano perlopiù falliti. In tutti quegli anni era riuscito a stringere amicizia con due persone. Mio padre non frequentava famiglie nere. Non credo lo facesse di proposito. A parte il fatto che avesse oggettivamente pochissimo tempo libero, non frequentava per niente quei luoghi dove gli africani venuti in Italia senza arte né parte erano soliti riunirsi. Si limitava ad andare avanti, giorno dopo giorno, senza nemmeno ricordarsi più quale fosse la direzione da intraprendere. Nel frattempo, aveva investito a Kinshasa. Aveva già comprato alcuni appartamenti che gli rendevano bene. Soldi con i quali poteva prendersi cura di parte della sua famiglia e di quella di mia madre. Con il suo stipendio, seppur consistente, affrontava le spese qui in Italia. Dalle nostre scuole, alla casa. Era un uomo buono. Sorpreso dalla vita, dalla sua durezza allorché si era giocato le carte migliori, era demoralizzato. E non riusciva a dare conforto a mia madre che era completamente distrutta.
Crebbi dunque così. In una bella casa, con dei genitori appassiti ed arresi alla realtà, in una società bergamasca dichiaratamente ostile alla pelle nera.
Crebbi dovendo affrontare problematiche che non erano mie. Screzi propri del mondo degli adulti che ricadevano su di me, sui miei fratelli, su tanti altri ragazzini e bambini come noi, colpevoli solo di essere figli di quei genitori. Nel corso dell’adolescenza, il rifiuto riscontrato quasi ovunque, si trasformò in rabbia. Ogni uomo ha precise responsabilità, e quando viene meno a quelle, viene messo sotto accusa... giudicato. Io ero alla gogna per il semplice fatto di essere nato nero. Un’ingiustizia che ti penetra in ogni fibra del corpo, ti rosicchia l’anima, ti graffia lo spirito. Non esiste nulla di più avvilente dell’essere considerato una nullità per una ragione come questa. Il mio fratellino, un giorno, arrivò anche a chiedere a mia madre se esistesse un modo di cambiare colore. Non potevo dargli torto, la pressione era tanta e anche la rabbia.
Divenni scontroso e irascibile.
Già a dieci anni, non esitavo a saltare addosso ai miei compagni quando mi insultavano o mi offendevano con epiteti razzisti. I miei erano disperati. Mi mandarono dallo psicologo, ma l’esimio specialista non sapeva nemmeno dove fosse il Congo. Non avrebbe mai potuto comprendere che la mente di uno come me era composta da due parti, che ne partorivano una terza. Quella africana non vissuta, quella europea negata, quella di un bambino solo in un mondo che non gli apparteneva.
Mio padre pensò di iscrivermi alla scuola calcio per placare il mio nervosismo. Fu allora che tutto cambiò. Ero bravo, davvero bravo. Un talento naturale.
La mia furia la riversavo su quel campo. Correvo come un forsennato, non avevo paura di farmi male, il contrasto non mi spaventava e, tecnicamente, avevo doti innegabili. Nel giro di tre anni, diventai il giocatore più bravo della regione. Fui convocato alle nazionali e il mio destino cominciò a cambiare.
Nel frattempo, oltre ad essermi guadagnato il rispetto a scuola a suon di botte, destavo ammirazione per le mie doti calcistiche. Già si sussurrava che squadre come il Milan e l’Inter fossero interessate a me.
Nonostante tutto questo, c’erano ancora le feste alle quali non ero mai invitato, luoghi dove non ero benvenuto... così la mia rabbia persisteva perché un giorno ero un promettente idolo, il giorno dopo solo uno sporco negro.
Avevo quindici anni ed ero nel dormitorio dell’Inter. Avevo rinunciato alla scuola vera, per accettare di rientrare a far parte delle speranze di un paese intero che sognava titoli. Parlavo spesso del futuro con i miei amici, anch’essi calciatori. Eravamo riuniti nella stanza di uno di noi, e da adolescenti promettenti, giocavamo alla playstation e davamo un’occhiata alle ragazze sui siti di incontri. Il nostro status di internati di una squadra prestigiosa come l’Inter ci rendeva particolarmente ambiti dalle ragazze di tutte le età. Eravamo il futuro del professionismo e, di conseguenza, eravamo non solo nel mirino delle ragazzine, ma anche di molte ragazze più grandi. Il nostro potenziale era altissimo.
“Fammi vedere”, disse Ronaldo, un giocatore brasiliano proveniente del Boca in Argentina. Gli passai il cellulare, c’era la foto in costume di Jessica, una ragazza con la quale avevo chattato per qualche giorno e ci eravamo dati appuntamento in una strada adiacente al centro. Contavo sui miei compagni di stanza perché mi coprissero casomai scoprissero la mia “fuga”. Qualcuno lo faceva di tanto in tanto, per me era la prima volta.
Dopo aver sistemato un mucchio di lenzuola sotto al piumino del letto dandogli la forma di un corpo, scavalcai il piccolo muro di recinzione e andai ad aspettarla al posto concordato.
Arrivò in auto. Pur non essendo ancora maggiorenne, guidava già. Iscritta a scuola guida, in realtà avrebbe dovuto avere accanto un adulto patentato da almeno cinque anni, ma non sembrava le importasse. La macchina era della madre.
Jessica era di un biondo favoloso. Il suo profumo avvolgeva l’abitacolo dell’auto. Mi salutò subito con un bacio in bocca che mi imbarazzò molto. Era un bacio deciso, di chi sapeva ciò che voleva, invasivo, passionale, emozionante.
“Andiamo da me”, disse senza mezzi termini.
I suoi genitori non c’erano, sarebbero stati assenti per un paio di settimane. Il fratello più grande ne aveva approfittato per trascorrere quel periodo con la fidanzata. In pratica, lei era da sola a casa. Eravamo soli.
Salimmo a casa sua. Andammo subito nella sua stanza e le si e lei mise musica sud Americana.
Subito dopo si mise sul letto a cavalcioni per far sì che vedessi che sotto la gonna non indossava le mutandine. In modo totalmente aggressivo, sfacciato, diretto.
Ero già stato con qualche ragazza precedentemente. Perlopiù, esperienze lievi e poco durevoli che tuttavia mi avevano insegnato cosa e come fare. Il sesso non è spontaneo, lo è il desiderio. Il sesso è arte; arte del piacere, delle sensazione, delle emozioni che finalmente trovano una direzione in cui incanalarsi. Non c’è nessun aspetto mistico in tutto questo, è una fusione con se stessi, prima di raggiungere l’altro. Fusione che diventa fluido, che scorre tra due esseri, li lega non per l’eternità, ma per un momento che, a volte, può valerla. Si scopre delicatamente ciò che hanno fatto di noi i retaggi e le sovrapposizioni di culture, di valori e di culti, fino a svelare ciò che siamo realmente. Mendicanti d’amore, bramosi di tocchi, aspiranti all’ascolto, emuli di Eros, sensazioni in un corpo pieno di refusi e di negazioni.
Mi sedetti col cuore in gola sul bordo letto. Ero agitato, eccitato, commosso...
Jessica non solo era davvero una gran bella ragazza, ma aveva qualcosa in più. Quella sensualità che sfida il buonsenso e sbaraglia le emozioni. Lei sapeva come muoversi, aveva qualcosa di innato in lei che richiamava al piacere, era solo una donna, ma Dio, quanto era bella!
Indossavo pantaloni neri, una maglietta dello stesso colore, e persino il cappello era nero. Cosi, quando allungò il piede e lo sporse sopra la mia gamba, si formò un quadro.
Bianco su nero, il suo piede abbigliato solo da una fine collana d’oro si muoveva lentamente. Quel movimento ne creò altri. Tutto in me era in subbuglio i fluidi, le ossa e i muscoli.
Il suo piede si era fatto più ardito, mentre parlava con naturalezza del più del meno. Io, nel frattempo, stavo per morire di asfissia. Trattenevo il respiro ad ogni avanzata del suo piede lungo la mia gamba, sperando che arrivasse li, esattamente li, cosi da dare il via al tutto. Trattenevo il respiro anche quando ritraeva il piede. La mia mano, molto scura, si avventurò lungo la sua gamba, risalendo nella direzione più ambita da ogni uomo. Non ci arrivai, perché chiuse le gambe e mi disse:
“Tranquillo… abbiamo tempo…”.
Si tolse il top con una naturalezza inaudita lasciando vedere i suoi seni sodi ed i capezzoli grandi e turgidi. Nel mio petto, il tormento. Il mio cuore faceva a pugni nella cassa toracica. C’era una protuberanza perfettamente visibile tra le mie gambe che lei toccò dapprima con delicatezza e poi con decisione.
“Wow…”, esclamò.
Sono alto oltre il metro e novanta, gli estenuanti allenamenti avevano scolpito il mio corpo e, oltretutto, madre natura era stata piuttosto generosa nei miei confronti.
Mi sfilò la maglietta con estrema lentezza, bruciavo dal desiderio. I suoi movimenti languidi, i suoi occhi che accarezzavano ogni centimetro della mia pelle, la sua aura che quasi mi penetrava le carni e sconvolgeva la mia anima. Il suo profumo poi si insinuava nelle mie narici dilatate per l’eccitazione, colmandomi di sensuale dolcezza.
I miei pantaloni scivolarono lungo le mie cosce mentre Jessica faceva svolazzare la sua gonna sopra la testa. Mi fece sdraiare accanto a lei e cominciammo a baciarci ovunque. Leccammo il desiderio che impregnava le nostre pelli. Il languore era straziante. Sapevo che per questa partita, non ci sarebbe stato nessun goal vincente, ma che ne saremmo usciti ugualmente entrambi vincitori. La mia pelle nera, la sua bianca, giocavano con la luce. Lei la rifletteva, io la catturavo ed era come l’arcobaleno. C’era poesia nell’incrocio dei nostri colori, magia negli odori, lava negli ardori.
Entrai in lei come si fa quando avendo disubbidito sull’orario si torna tardi a casa e si cammina sulla punta dei piedi per non svegliare i genitori. In silenzio, con paura, timore. Ma anche gioia, orgoglio, decisione.
Lei mi accolse aprendo di più le cosce e rovesciando la testa all’indietro mentre si mordeva le labbra. Il battito dei nostri cuori si fuse, le nostre sfumature si sovrapposero ed i nostri odori diedero vita ad un nuovo ed unico aroma.
Rimasi fermo a lungo dentro di lei. Sembrava di galleggiare nell’aria. La sensazione era avvolgente, oltre ad essere coinvolgente. Ogni fibra del mio corpo era tesa, ogni muscolo contratto, ogni nervo tirato. Il piacere aveva preso possesso del mio corpo e, cogliendolo di sorpresa, lo aveva intrappolato, desideroso di trattenerlo. Non ricordo nemmeno se riuscivo a respirare. So solo che durò un’eternità.
Cominciai a muovermi piano. Il lieve movimento non fece che accrescere le sensazioni già estreme. Lei, gemeva... ed era come un canto. La mia verga era l’archetto, e la sua fica, le corde del violino. Ballammo su una nube di sensazioni. Eravamo drogati, i nostri sensi estasiati. La guardavo, i suoi occhi quasi sempre chiusi, ascoltavo i suoi sospiri e i suoni del suo piacere, il mio sguardo seguiva le linee dei nostri corpi, scendendo fino al mio cazzo ricoperto dei suoi umori lattiginosi. Strani disegni che cambiavano ogni volta che uscivo ed entravo in lei. Con le mani la tenevo per le caviglie per far sì che rimanesse con le gambe ben alzate ed aperte. Crocefissi dal piacere. Il nostro ballo diventò un valzer, e poi una danza tribale indiavolata.
Lei era sopra di me, il suo sudore la rendeva lucente, le sue mani appoggiate sul mio petto, i suoi occhi diritti nei miei. Si muoveva sul mio cazzo lentamente, rabbrividiva facendomi rabbrividire. Poi cominciò a cavalcarmi con un movimento spasmodico. Mi guardava entrare in lei, era come ipnotizzata. Si era messa sulla punta dei piedi, e mi prendeva. Attenta ad ogni centimetro della mia verga scura che entrava nelle profondità rosa della sua vagina. Anch’io guardavo. Era un contrasto perfetto.
Facemmo l’amore fino all’alba e venimmo più e più volte. La mattina, mi diede il passaggio. Lo staff della squadra era in piedi ad attendermi; sospeso per due settimane. La prima di una lunga serie di sospensioni e multe.
Poi, ebbi diciott’anni. Ero pieno di rabbia, pur avendo l’assoluta certezza di avercela fatta, il mio risentimento contro la società non era scemato. Eppure, avevo tutto; una Ferrari, una villa, parecchi soldi in banca.
Essere ribelle non é una scelta, ma un atteggiamento di difesa che siamo obbligati ad adoperare. E, ormai, avevo difficolta a sbarazzarmene. Non volevo più essere un ragazzaccio, non ne avevo più bisogno, ma quel senso di rabbia aveva messo radici in me, e spesso, esplodeva in modi brutali e irragionevoli. Come quando buttai via la maglia di una grande squadra perché avevano osato sostituirmi all’ultimo momento. Il calcio era la mia soluzione personale, il mio campo di battaglia, non volevo anche lì, essere scartato. Il guaio è che all’inizio i miei modi provocatori mi diedero ancor più fama. Cosi, mi sentii autorizzato ad essere me stesso, senza controllo. Investito da un talento poco comune, speranza del calcio italiano che si divideva tra le fazioni dei pro “coloured” e di quelli contrari, ero costantemente sotto pressione. Insultato e osannato. Spesso, un insulto fa talmente tanto male che mille carezze non ne attenuano il bruciore.
Amavo le donne. Dare ascolto alla propria carne è essenziale per l’equilibrio. Essendo un calciatore professionista, questa mia passione viscerale mi portava a trasgredire spesso. Finivo continuamente sui giornali, multato, o messo da parte. Distrussi la mia carriera per colpa dell’unico modo di protestare che conoscevo; la disubbidienza. Fui sballottato da una squadra all’altra. All’inizio tutte famose, ma ne combinai così tante dentro e fuori il campo che nel giro di una decina di anni, finii a giocare nelle fila del Brescia. Ironia della sorte.
Ancora oggi ho difficoltà a gestire la rabbia. Sono fortunato, è vero, ma quella fortuna nasce da questa rabbia. Su ogni campo mi ha spinto ad essere il migliore, ma anche distrutto. Ho pensato spesso che se non fossi stato nero, sarebbe potuta andare diversamente. Probabilmente una ragione, una spiegazione necessaria al fallimento nel mio successo.
Ma l’esistenza è fatta di contraddizioni, di opposti che si attraggono, di contrasti, quelli che riempiono lo sguardo di passione e ti fanno consumare di piacer, ma odiare da tanti altri. Ma loro non sanno, e non possono.
Sono nato a Bergamo oltre quarant’anni fa. Per uno come me, intendo, con la pelle del mio colore, era singolare vivere in mezzo ad una maggioranza di persone di un’altra tinta. E difficile la considerazione che avevano della mia. Chi mi sfiorava la pelle con curiosità, chi si manteneva a debita distanza da me e dai miei genitori, chi, addirittura, vietava al proprio figlio di giocare con me al parco. Mio padre, ingegnere alla Fiat, venuto dal Congo per proseguire i suoi studi, non ci faceva mancare niente, ma era poco presente. Mia madre, infermiera a Kinshasa, si era trasferita per amore di mio padre perdendo così ogni qualifica professionale, il che le consentiva di condividere a pieno le nostre realtà di vita quotidiane. E non era facile. La vedevo spesso piangere quando venivamo cacciati da un negozio, presi in giro per strada, o quando le altre mamme non volevano che i loro bimbi giocassero con noi. Mamma era molto sensibile. Una donna forte che aveva scelto la sua professione proprio per aiutare le persone; si sentiva inutile in quel contesto, offesa, sottovalutata e, come se non bastasse, mio padre non c’era mai.
Anche mio padre, viveva le sue difficoltà. Al lavoro aveva dovuto scontrarsi con alcuni razzisti dichiarati che non perdevano l’occasione di buttargli fango addosso o di ostacolarlo il più possibile nel suo lavoro. La sua era una lotta continua contro l’ignoranza e la superbia della gente.
Io, mio fratello e mia sorella, da piccoli, non avevamo sofferto molto. Non perché ci bastasse stare insieme, ma per noi era diventata normale la divisione in base a criteri che allora non conoscevamo. Eravamo abituati alla cattiveria della gente nei confronti del colore della nostra pelle o, all’opposto, alla loro compassione estrema che era addirittura peggio del disprezzo. Vidi mia madre piangere in pubblico una volta, quando una signora le diede dei soldi mentre passeggiavamo nelle strade del centro, dicendole: “Tenga signora, e che il cielo vi aiuti”.
Mamma non voleva aiuto. Mio padre guadagnava molto bene. Lei, semplicemente, voleva vivere in un posto dove non esistessero offese gratuite. Il razzismo, essendo africana e avendo, oltretutto, vissuto la drammatica esperienza delle guerre tribali, era disseminato ovunque. Lei lo sapeva, ma non immaginava che gente sazia, che non sapesse cosa significhi avere fame, potesse essere cosi cattiva. Lei, ingenuamente, pensava che in Europa la gente fosse buona a prescindere, perché non aveva problemi di sopravvivenza. L’assenza di mio padre non faceva che complicare le cose. Mia madre si sentiva abbandonata e cominciò a bere.
Per un increscioso episodio in chiesa, finito ad insulti pesanti e razzisti nei nostri confronti, non fummo più mandati a scuola. Io e i miei fratelli eravamo felici, visto che il prete ci trattava in malo modo. Il circolo delle donne del quartiere aveva rifiutato di ammettere mia madre, adducendo pretesti talmente inconsistenti da far sorridere addirittura lei. Le sue sole amiche erano le donne senegalesi che facevano le treccine a lei e a mia sorella. Erano, però, persone di basso livello culturale, esperte del loro mondo, ma lontane da quello in cui vivevano. Non parlavano l’italiano quasi per niente e continuavano a vivere quasi pressoché stesso modo del loro paese di origine; dalla cucina, al rito del tè, alle preghiere. Quando accompagnavo mia madre da loro, entravo in un mondo per me magico. Fatto di odori, di voci alte, di tante risate, di cibo, carezze, con la colonna sonora di una lingua che non capivo, il film di una vita ove non si facevano differenze.
Era l’unico luogo in cui mi sentissi completamente accettato. Così era anche per mio il fratellino e la mia sorellina. Allora, visto che Bergamo ci aveva abituati al rifiuto, l’accettazione totale ci meravigliava.
Credo che mia madre restò per noi. Cercò di convincere mio padre a cambiare paese, ma lui era reticente. Avrebbe dovuto ricominciare la sua carriera dai ranghi più bassi, asseriva. Mia madre, invece, era dell’opinione contraria, diceva che la sua esperienza era un strumento che qualunque altra casa automobilistica nel mondo avrebbe pagato a caro prezzo. Mia madre naturalmente aveva ragione, ma mio padre era scoraggiato. Non si aspettava questa guerra ai colori nel paese dei bianchi. Era rimasto schiacciato dall’ignoranza della gente e i suoi tentativi di integrarsi erano perlopiù falliti. In tutti quegli anni era riuscito a stringere amicizia con due persone. Mio padre non frequentava famiglie nere. Non credo lo facesse di proposito. A parte il fatto che avesse oggettivamente pochissimo tempo libero, non frequentava per niente quei luoghi dove gli africani venuti in Italia senza arte né parte erano soliti riunirsi. Si limitava ad andare avanti, giorno dopo giorno, senza nemmeno ricordarsi più quale fosse la direzione da intraprendere. Nel frattempo, aveva investito a Kinshasa. Aveva già comprato alcuni appartamenti che gli rendevano bene. Soldi con i quali poteva prendersi cura di parte della sua famiglia e di quella di mia madre. Con il suo stipendio, seppur consistente, affrontava le spese qui in Italia. Dalle nostre scuole, alla casa. Era un uomo buono. Sorpreso dalla vita, dalla sua durezza allorché si era giocato le carte migliori, era demoralizzato. E non riusciva a dare conforto a mia madre che era completamente distrutta.
Crebbi dunque così. In una bella casa, con dei genitori appassiti ed arresi alla realtà, in una società bergamasca dichiaratamente ostile alla pelle nera.
Crebbi dovendo affrontare problematiche che non erano mie. Screzi propri del mondo degli adulti che ricadevano su di me, sui miei fratelli, su tanti altri ragazzini e bambini come noi, colpevoli solo di essere figli di quei genitori. Nel corso dell’adolescenza, il rifiuto riscontrato quasi ovunque, si trasformò in rabbia. Ogni uomo ha precise responsabilità, e quando viene meno a quelle, viene messo sotto accusa... giudicato. Io ero alla gogna per il semplice fatto di essere nato nero. Un’ingiustizia che ti penetra in ogni fibra del corpo, ti rosicchia l’anima, ti graffia lo spirito. Non esiste nulla di più avvilente dell’essere considerato una nullità per una ragione come questa. Il mio fratellino, un giorno, arrivò anche a chiedere a mia madre se esistesse un modo di cambiare colore. Non potevo dargli torto, la pressione era tanta e anche la rabbia.
Divenni scontroso e irascibile.
Già a dieci anni, non esitavo a saltare addosso ai miei compagni quando mi insultavano o mi offendevano con epiteti razzisti. I miei erano disperati. Mi mandarono dallo psicologo, ma l’esimio specialista non sapeva nemmeno dove fosse il Congo. Non avrebbe mai potuto comprendere che la mente di uno come me era composta da due parti, che ne partorivano una terza. Quella africana non vissuta, quella europea negata, quella di un bambino solo in un mondo che non gli apparteneva.
Mio padre pensò di iscrivermi alla scuola calcio per placare il mio nervosismo. Fu allora che tutto cambiò. Ero bravo, davvero bravo. Un talento naturale.
La mia furia la riversavo su quel campo. Correvo come un forsennato, non avevo paura di farmi male, il contrasto non mi spaventava e, tecnicamente, avevo doti innegabili. Nel giro di tre anni, diventai il giocatore più bravo della regione. Fui convocato alle nazionali e il mio destino cominciò a cambiare.
Nel frattempo, oltre ad essermi guadagnato il rispetto a scuola a suon di botte, destavo ammirazione per le mie doti calcistiche. Già si sussurrava che squadre come il Milan e l’Inter fossero interessate a me.
Nonostante tutto questo, c’erano ancora le feste alle quali non ero mai invitato, luoghi dove non ero benvenuto... così la mia rabbia persisteva perché un giorno ero un promettente idolo, il giorno dopo solo uno sporco negro.
Avevo quindici anni ed ero nel dormitorio dell’Inter. Avevo rinunciato alla scuola vera, per accettare di rientrare a far parte delle speranze di un paese intero che sognava titoli. Parlavo spesso del futuro con i miei amici, anch’essi calciatori. Eravamo riuniti nella stanza di uno di noi, e da adolescenti promettenti, giocavamo alla playstation e davamo un’occhiata alle ragazze sui siti di incontri. Il nostro status di internati di una squadra prestigiosa come l’Inter ci rendeva particolarmente ambiti dalle ragazze di tutte le età. Eravamo il futuro del professionismo e, di conseguenza, eravamo non solo nel mirino delle ragazzine, ma anche di molte ragazze più grandi. Il nostro potenziale era altissimo.
“Fammi vedere”, disse Ronaldo, un giocatore brasiliano proveniente del Boca in Argentina. Gli passai il cellulare, c’era la foto in costume di Jessica, una ragazza con la quale avevo chattato per qualche giorno e ci eravamo dati appuntamento in una strada adiacente al centro. Contavo sui miei compagni di stanza perché mi coprissero casomai scoprissero la mia “fuga”. Qualcuno lo faceva di tanto in tanto, per me era la prima volta.
Dopo aver sistemato un mucchio di lenzuola sotto al piumino del letto dandogli la forma di un corpo, scavalcai il piccolo muro di recinzione e andai ad aspettarla al posto concordato.
Arrivò in auto. Pur non essendo ancora maggiorenne, guidava già. Iscritta a scuola guida, in realtà avrebbe dovuto avere accanto un adulto patentato da almeno cinque anni, ma non sembrava le importasse. La macchina era della madre.
Jessica era di un biondo favoloso. Il suo profumo avvolgeva l’abitacolo dell’auto. Mi salutò subito con un bacio in bocca che mi imbarazzò molto. Era un bacio deciso, di chi sapeva ciò che voleva, invasivo, passionale, emozionante.
“Andiamo da me”, disse senza mezzi termini.
I suoi genitori non c’erano, sarebbero stati assenti per un paio di settimane. Il fratello più grande ne aveva approfittato per trascorrere quel periodo con la fidanzata. In pratica, lei era da sola a casa. Eravamo soli.
Salimmo a casa sua. Andammo subito nella sua stanza e le si e lei mise musica sud Americana.
Subito dopo si mise sul letto a cavalcioni per far sì che vedessi che sotto la gonna non indossava le mutandine. In modo totalmente aggressivo, sfacciato, diretto.
Ero già stato con qualche ragazza precedentemente. Perlopiù, esperienze lievi e poco durevoli che tuttavia mi avevano insegnato cosa e come fare. Il sesso non è spontaneo, lo è il desiderio. Il sesso è arte; arte del piacere, delle sensazione, delle emozioni che finalmente trovano una direzione in cui incanalarsi. Non c’è nessun aspetto mistico in tutto questo, è una fusione con se stessi, prima di raggiungere l’altro. Fusione che diventa fluido, che scorre tra due esseri, li lega non per l’eternità, ma per un momento che, a volte, può valerla. Si scopre delicatamente ciò che hanno fatto di noi i retaggi e le sovrapposizioni di culture, di valori e di culti, fino a svelare ciò che siamo realmente. Mendicanti d’amore, bramosi di tocchi, aspiranti all’ascolto, emuli di Eros, sensazioni in un corpo pieno di refusi e di negazioni.
Mi sedetti col cuore in gola sul bordo letto. Ero agitato, eccitato, commosso...
Jessica non solo era davvero una gran bella ragazza, ma aveva qualcosa in più. Quella sensualità che sfida il buonsenso e sbaraglia le emozioni. Lei sapeva come muoversi, aveva qualcosa di innato in lei che richiamava al piacere, era solo una donna, ma Dio, quanto era bella!
Indossavo pantaloni neri, una maglietta dello stesso colore, e persino il cappello era nero. Cosi, quando allungò il piede e lo sporse sopra la mia gamba, si formò un quadro.
Bianco su nero, il suo piede abbigliato solo da una fine collana d’oro si muoveva lentamente. Quel movimento ne creò altri. Tutto in me era in subbuglio i fluidi, le ossa e i muscoli.
Il suo piede si era fatto più ardito, mentre parlava con naturalezza del più del meno. Io, nel frattempo, stavo per morire di asfissia. Trattenevo il respiro ad ogni avanzata del suo piede lungo la mia gamba, sperando che arrivasse li, esattamente li, cosi da dare il via al tutto. Trattenevo il respiro anche quando ritraeva il piede. La mia mano, molto scura, si avventurò lungo la sua gamba, risalendo nella direzione più ambita da ogni uomo. Non ci arrivai, perché chiuse le gambe e mi disse:
“Tranquillo… abbiamo tempo…”.
Si tolse il top con una naturalezza inaudita lasciando vedere i suoi seni sodi ed i capezzoli grandi e turgidi. Nel mio petto, il tormento. Il mio cuore faceva a pugni nella cassa toracica. C’era una protuberanza perfettamente visibile tra le mie gambe che lei toccò dapprima con delicatezza e poi con decisione.
“Wow…”, esclamò.
Sono alto oltre il metro e novanta, gli estenuanti allenamenti avevano scolpito il mio corpo e, oltretutto, madre natura era stata piuttosto generosa nei miei confronti.
Mi sfilò la maglietta con estrema lentezza, bruciavo dal desiderio. I suoi movimenti languidi, i suoi occhi che accarezzavano ogni centimetro della mia pelle, la sua aura che quasi mi penetrava le carni e sconvolgeva la mia anima. Il suo profumo poi si insinuava nelle mie narici dilatate per l’eccitazione, colmandomi di sensuale dolcezza.
I miei pantaloni scivolarono lungo le mie cosce mentre Jessica faceva svolazzare la sua gonna sopra la testa. Mi fece sdraiare accanto a lei e cominciammo a baciarci ovunque. Leccammo il desiderio che impregnava le nostre pelli. Il languore era straziante. Sapevo che per questa partita, non ci sarebbe stato nessun goal vincente, ma che ne saremmo usciti ugualmente entrambi vincitori. La mia pelle nera, la sua bianca, giocavano con la luce. Lei la rifletteva, io la catturavo ed era come l’arcobaleno. C’era poesia nell’incrocio dei nostri colori, magia negli odori, lava negli ardori.
Entrai in lei come si fa quando avendo disubbidito sull’orario si torna tardi a casa e si cammina sulla punta dei piedi per non svegliare i genitori. In silenzio, con paura, timore. Ma anche gioia, orgoglio, decisione.
Lei mi accolse aprendo di più le cosce e rovesciando la testa all’indietro mentre si mordeva le labbra. Il battito dei nostri cuori si fuse, le nostre sfumature si sovrapposero ed i nostri odori diedero vita ad un nuovo ed unico aroma.
Rimasi fermo a lungo dentro di lei. Sembrava di galleggiare nell’aria. La sensazione era avvolgente, oltre ad essere coinvolgente. Ogni fibra del mio corpo era tesa, ogni muscolo contratto, ogni nervo tirato. Il piacere aveva preso possesso del mio corpo e, cogliendolo di sorpresa, lo aveva intrappolato, desideroso di trattenerlo. Non ricordo nemmeno se riuscivo a respirare. So solo che durò un’eternità.
Cominciai a muovermi piano. Il lieve movimento non fece che accrescere le sensazioni già estreme. Lei, gemeva... ed era come un canto. La mia verga era l’archetto, e la sua fica, le corde del violino. Ballammo su una nube di sensazioni. Eravamo drogati, i nostri sensi estasiati. La guardavo, i suoi occhi quasi sempre chiusi, ascoltavo i suoi sospiri e i suoni del suo piacere, il mio sguardo seguiva le linee dei nostri corpi, scendendo fino al mio cazzo ricoperto dei suoi umori lattiginosi. Strani disegni che cambiavano ogni volta che uscivo ed entravo in lei. Con le mani la tenevo per le caviglie per far sì che rimanesse con le gambe ben alzate ed aperte. Crocefissi dal piacere. Il nostro ballo diventò un valzer, e poi una danza tribale indiavolata.
Lei era sopra di me, il suo sudore la rendeva lucente, le sue mani appoggiate sul mio petto, i suoi occhi diritti nei miei. Si muoveva sul mio cazzo lentamente, rabbrividiva facendomi rabbrividire. Poi cominciò a cavalcarmi con un movimento spasmodico. Mi guardava entrare in lei, era come ipnotizzata. Si era messa sulla punta dei piedi, e mi prendeva. Attenta ad ogni centimetro della mia verga scura che entrava nelle profondità rosa della sua vagina. Anch’io guardavo. Era un contrasto perfetto.
Facemmo l’amore fino all’alba e venimmo più e più volte. La mattina, mi diede il passaggio. Lo staff della squadra era in piedi ad attendermi; sospeso per due settimane. La prima di una lunga serie di sospensioni e multe.
Poi, ebbi diciott’anni. Ero pieno di rabbia, pur avendo l’assoluta certezza di avercela fatta, il mio risentimento contro la società non era scemato. Eppure, avevo tutto; una Ferrari, una villa, parecchi soldi in banca.
Essere ribelle non é una scelta, ma un atteggiamento di difesa che siamo obbligati ad adoperare. E, ormai, avevo difficolta a sbarazzarmene. Non volevo più essere un ragazzaccio, non ne avevo più bisogno, ma quel senso di rabbia aveva messo radici in me, e spesso, esplodeva in modi brutali e irragionevoli. Come quando buttai via la maglia di una grande squadra perché avevano osato sostituirmi all’ultimo momento. Il calcio era la mia soluzione personale, il mio campo di battaglia, non volevo anche lì, essere scartato. Il guaio è che all’inizio i miei modi provocatori mi diedero ancor più fama. Cosi, mi sentii autorizzato ad essere me stesso, senza controllo. Investito da un talento poco comune, speranza del calcio italiano che si divideva tra le fazioni dei pro “coloured” e di quelli contrari, ero costantemente sotto pressione. Insultato e osannato. Spesso, un insulto fa talmente tanto male che mille carezze non ne attenuano il bruciore.
Amavo le donne. Dare ascolto alla propria carne è essenziale per l’equilibrio. Essendo un calciatore professionista, questa mia passione viscerale mi portava a trasgredire spesso. Finivo continuamente sui giornali, multato, o messo da parte. Distrussi la mia carriera per colpa dell’unico modo di protestare che conoscevo; la disubbidienza. Fui sballottato da una squadra all’altra. All’inizio tutte famose, ma ne combinai così tante dentro e fuori il campo che nel giro di una decina di anni, finii a giocare nelle fila del Brescia. Ironia della sorte.
Ancora oggi ho difficoltà a gestire la rabbia. Sono fortunato, è vero, ma quella fortuna nasce da questa rabbia. Su ogni campo mi ha spinto ad essere il migliore, ma anche distrutto. Ho pensato spesso che se non fossi stato nero, sarebbe potuta andare diversamente. Probabilmente una ragione, una spiegazione necessaria al fallimento nel mio successo.
Ma l’esistenza è fatta di contraddizioni, di opposti che si attraggono, di contrasti, quelli che riempiono lo sguardo di passione e ti fanno consumare di piacer, ma odiare da tanti altri. Ma loro non sanno, e non possono.
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