La stilografica
di
Kugher
genere
sentimentali
I raggi del sole passavano attraverso il fogliame dell’albero davanti alla casa e, non trovando ulteriori ostacoli, entravano nella stanza illuminando una parte del pavimento di legno, fino alla scrivania ed al foglio posato su essa. La stilografica, ancora aperta, era appoggiata di traverso sulla carta, appena sotto all’ultima parola, parte di una frase non terminata.
Erano i primi caldi che consentivano, finalmente, di tenere le finestre aperte e godere dell’aria tanto desiderata durante il lungo inverno.
Il sole giocava con le foglie mosse dal vento e creava una danza di luce all’interno della stanza. A quella danza partecipavano anche i riflessi che i raggi solari provocavano scontrandosi sul vetro del portafoto, posato sulla scrivania, che conteneva un'immagine della famiglia durante le ultime vacanze estive.
Gli armadi erano aperti, così come i cassetti all’interno dei quali vi era il tipico leggero disordine di chi cerca qualcosa in fretta.
Luisa, mentre si vestiva, lanciò un'occhiata carica di ansia al cellulare posato sul ripiano della scrivania, dove era stato lasciato subito dopo avere letto il messaggio del suo Padrone che la chiamava a sé.
Non prestò attenzione alla stilografica abbandonata sul foglio senza il cappuccio. Amava quello strumento di scrittura che utilizzava solo per le cose dell’anima. Era stato un dono dei suoi genitori in occasione della laurea, accompagnata da un biglietto, scritto con la stessa penna, con il quale la invitavano a non essere avara di parole utili, rifuggendo, invece, da quelle inutili.
La scritta, dando nuova e diversa motivazione a quello che avrebbe potuto sembrare il solito regalo di laurea, la fece subito decidere che avrebbe fatto ricorso alla stilografica solo per dare forma alle emozioni.
Visto l’orario di metà mattina, non ebbe problemi a trovare un posto sul frecciarossa che, da Bologna, la stava portando a Roma.
Scelse un posto lato finestrino. Le piaceva vedere la vita scorrere veloce davanti al vetro. Il libro, comprato al volo nella libreria in stazione prima di salire, giaceva, mai aperto, sul tavolino, accanto alla bottiglietta dell’acqua che il personale distribuiva ai passeggeri di prima classe.
Aveva sperato, vanamente, che la lettura sarebbe riuscita a distrarla dalla tensione che le attanagliava la bocca dello stomaco.
La campagna toscana, che solitamente le infondeva buon umore, complice la bellezza delle colline e dei casolari, le scorreva davanti senza essere vista, in quanto gli occhi erano impegnati a rivedere, sullo schermo della memoria, le immagini di sé stessa e del suo Padrone.
Si conoscevano da tanto ed il tempo che separava “oggi” dai “primi contatti” non era misurabile in anni (seppur tanti) ma in emozioni, eccitazioni, ansie, timori, risate. Insomma tutte quelle cose che compongono un rapporto umano, lo fanno crescere e resistere al tempo, rafforzandolo sempre più.
Era stato Matteo a farle prendere coscienza di qualcosa che lui aveva individuato in lei e che lei, inizialmente, si rifiutava di vedere e, una volta visto, di accettare.
Si erano conosciuti in una chat non a sfondo sessuale, nella quale lui l’aveva notata e, dopo qualche tempo, le aveva mandato in privato un messaggio che la fece infuriare:
“Tu sei una schiava”.
“E tu un coglione, vaffanculo”.
L’esordio non fu dei migliori.
Era una caratteristica di Matteo andare, duramente, dritto al sodo, quasi a voler spiazzare il suo interlocutore per togliergli forze.
Imperterrito, aveva proseguito nei suoi affondi.
“Ti si annusa lontano chilometri che la tua funzione è quella di servire dopo avere abbassato a terra la testa, ai piedi di un Padrone”.
Lei non si riconobbe nelle risposte dure, ma incerte, che gli dava perché sentiva, più che capirlo, che le era entrato in un punto scoperto, lasciandola senza difese e facendola sentire nuda. Così reagì in maniera scomposta, insultandolo, diversamente dal suo solito.
Aveva chiuso rabbiosamente la chat e spento il computer, non soddisfatta dalla semplice chiusura del browser.
Rientrò in quella chat 3 settimane dopo, mentendo a sé stessa quando si diceva che “gli altri” non c’entravano niente e sicuramente avrebbe ignorato quello stronzo che, invece, si scoprì a cercare.
Anche lui la vide on line, ma non la contattò.
Mentre lei pensava di non essere stata notata, lui aspettava solo che si rilassasse per entrare, nuovamente, di prepotenza nella chat privata.
“Puoi nasconderti da me, ma non da te stessa”.
La portò così a scoprirsi e a conoscersi.
Quando questo accadde lei si spaventò e chiuse ogni contatto, rifuggendo da sé stessa più che da lui.
Matteo, ogni tanto, le mandava una mail, tranquilla, pacata, solo per farle sapere che lui, al pari della sua anima scoperta e nuda, era lì.
Dopo che le acque delle sue emozioni si furono placate, Luisa lo cercò nuovamente e proseguirono lo scambio di mail, sempre più intime.
Dopo tre mesi di messaggi elettronici, decisero di “dialogare” in altro modo, scambiandosi una foto e ricorrendo a qualcosa che desse calore e concretezza ai pensieri ed alle emozioni che si comunicavano.
Ricorsero così alla carta e alla grafia a mano, per la quale lei utilizzava quella stilografica che aveva abbandonato sulla sua scrivania mentre stava scrivendo la lettera a lui destinata, nel momento in cui ricevette l’sms che la convinse a partire.
La gentilezza dell’uomo poté più della frusta. Nelle lunghe missive, lei abbassò tutte le sue difese, per aprire la propria mente prima e, poi, la propria anima, a sé stessa prima che al suo interlocutore, facendo fatica ad accettare quella maledetta esigenza di inginocchiarsi e sottomettersi ad un uomo, consegnando il proprio corpo alla soddisfazione degli altrui piaceri, per ricevere, a sua volta, i propri.
Non vi fu mai amore, ma tanto affetto, quello che inevitabilmente nasce quando di una persona si conoscono i più intimi pensieri.
Matteo la portò ad accettarsi e, con lui, diede sfogo alle sue fantasie, raccontandole e guardandosi dentro per capire le emozioni che le trasmettevano.
Al marito, Luisa non disse mai nulla né delle proprie pulsioni né, tantomeno, del rapporto con Matteo che, ormai, lei amava definire “Padrone” per rivolgersi a sé stessa con la definizione di “schiava”, fino a che queste parole non definirono più i ruoli ma i loro nomi, avendo abbandonato quelli di battesimo.
I primi imbarazzi lasciarono ben presto il posto alle eccitazioni dovute alle immagini che la vedevano prostrata o con la schiena segnata dalla cinghia, testimone del potere ceduto e gestito.
Il Padrone era divenuto lo specchio di sé stessa perchè l’immagine che rifletteva era una, ma composta dalle loro anime speculari, il bianco ed il nero, il suono ed il silenzio, la tela ed il disegno.
Emozioni, sensazioni.
Come ogni rapporto umano, anche il loro era destinato ad evolvere. L’intimità procurata dall’eccitazione lasciò spazio alla condivisione di ogni tipo di pensieri. Presero così a comunicarsi ogni cosa, non solo sessuale, ma qualunque aspetto delle loro anime, anche quello più riservato perché contiene le paure, le ansie o sensazioni che non si possono comunicare nemmeno al coniuge perché fanno paura anche a sé stessi.
Durante il viaggio ripercorse tutto il loro rapporto, provando quel calore tipico che scalda una parte non fisicamente identificabile del nostro corpo.
Solo al secondo avviso si accorse che il treno stava per entrare alla stazione Termini.
Staccò il telefono dalla carica e, in fretta, ritirò in borsa il cavo. Infilò la giacca leggera e si avviò all’uscita, lasciando sul tavolino quel libro che ora odiava perché rappresentava il suo tentativo di distrarsi dai pensieri per l’uomo che l’attendeva.
Presa dalla rabbia verso di sé, tornò indietro e gettò il libro nel cestino dei rifiuti.
Finalmente arrivò da Matteo.
Aveva il cuore in subbuglio per la forza delle emozioni che la stavano attraversando, in attesa di incontrare il suo Padrone, l’uomo che le aveva visto l’anima e tutti i suoi pensieri.
Lo trovò in camera, steso a letto.
“Sei bellissima”.
“E tu un grande porco, perché mi hai aspettato a letto”.
Non si erano mai incontrati. Quella era la prima volta. Si riconobbero subito, appena lei entrò, nonostante il tempo trascorso dall’unica foto che si erano mandati.
Luisa con ansia vide le macchine che consentivano all’uomo di restare in vita in quella asettica camera di ospedale.
Dopo tante emozioni vissute assieme, per la prima volta si guardavano in viso travolti dalle reciproche emozioni.
Avevano entrambi deciso che non si sarebbero mai incontrati, pur mantenendo sempre vivo lo scambio epistolare al quale nessuno dei due avrebbe rinunciato. Avevano costruito un rapporto scevro da interessi ulteriori rispetto al piacere di avere un’anima con la quale scambiare la propria. La “virtualità” non fu mai un ostacolo alle emozioni che provavano alla lettura dei pensieri altrui in quanto, benché impalpabili, esse esistono in ogni caso e sono più forti delle parole, delle forme, della logica, della ragione.
Erano i primi caldi che consentivano, finalmente, di tenere le finestre aperte e godere dell’aria tanto desiderata durante il lungo inverno.
Il sole giocava con le foglie mosse dal vento e creava una danza di luce all’interno della stanza. A quella danza partecipavano anche i riflessi che i raggi solari provocavano scontrandosi sul vetro del portafoto, posato sulla scrivania, che conteneva un'immagine della famiglia durante le ultime vacanze estive.
Gli armadi erano aperti, così come i cassetti all’interno dei quali vi era il tipico leggero disordine di chi cerca qualcosa in fretta.
Luisa, mentre si vestiva, lanciò un'occhiata carica di ansia al cellulare posato sul ripiano della scrivania, dove era stato lasciato subito dopo avere letto il messaggio del suo Padrone che la chiamava a sé.
Non prestò attenzione alla stilografica abbandonata sul foglio senza il cappuccio. Amava quello strumento di scrittura che utilizzava solo per le cose dell’anima. Era stato un dono dei suoi genitori in occasione della laurea, accompagnata da un biglietto, scritto con la stessa penna, con il quale la invitavano a non essere avara di parole utili, rifuggendo, invece, da quelle inutili.
La scritta, dando nuova e diversa motivazione a quello che avrebbe potuto sembrare il solito regalo di laurea, la fece subito decidere che avrebbe fatto ricorso alla stilografica solo per dare forma alle emozioni.
Visto l’orario di metà mattina, non ebbe problemi a trovare un posto sul frecciarossa che, da Bologna, la stava portando a Roma.
Scelse un posto lato finestrino. Le piaceva vedere la vita scorrere veloce davanti al vetro. Il libro, comprato al volo nella libreria in stazione prima di salire, giaceva, mai aperto, sul tavolino, accanto alla bottiglietta dell’acqua che il personale distribuiva ai passeggeri di prima classe.
Aveva sperato, vanamente, che la lettura sarebbe riuscita a distrarla dalla tensione che le attanagliava la bocca dello stomaco.
La campagna toscana, che solitamente le infondeva buon umore, complice la bellezza delle colline e dei casolari, le scorreva davanti senza essere vista, in quanto gli occhi erano impegnati a rivedere, sullo schermo della memoria, le immagini di sé stessa e del suo Padrone.
Si conoscevano da tanto ed il tempo che separava “oggi” dai “primi contatti” non era misurabile in anni (seppur tanti) ma in emozioni, eccitazioni, ansie, timori, risate. Insomma tutte quelle cose che compongono un rapporto umano, lo fanno crescere e resistere al tempo, rafforzandolo sempre più.
Era stato Matteo a farle prendere coscienza di qualcosa che lui aveva individuato in lei e che lei, inizialmente, si rifiutava di vedere e, una volta visto, di accettare.
Si erano conosciuti in una chat non a sfondo sessuale, nella quale lui l’aveva notata e, dopo qualche tempo, le aveva mandato in privato un messaggio che la fece infuriare:
“Tu sei una schiava”.
“E tu un coglione, vaffanculo”.
L’esordio non fu dei migliori.
Era una caratteristica di Matteo andare, duramente, dritto al sodo, quasi a voler spiazzare il suo interlocutore per togliergli forze.
Imperterrito, aveva proseguito nei suoi affondi.
“Ti si annusa lontano chilometri che la tua funzione è quella di servire dopo avere abbassato a terra la testa, ai piedi di un Padrone”.
Lei non si riconobbe nelle risposte dure, ma incerte, che gli dava perché sentiva, più che capirlo, che le era entrato in un punto scoperto, lasciandola senza difese e facendola sentire nuda. Così reagì in maniera scomposta, insultandolo, diversamente dal suo solito.
Aveva chiuso rabbiosamente la chat e spento il computer, non soddisfatta dalla semplice chiusura del browser.
Rientrò in quella chat 3 settimane dopo, mentendo a sé stessa quando si diceva che “gli altri” non c’entravano niente e sicuramente avrebbe ignorato quello stronzo che, invece, si scoprì a cercare.
Anche lui la vide on line, ma non la contattò.
Mentre lei pensava di non essere stata notata, lui aspettava solo che si rilassasse per entrare, nuovamente, di prepotenza nella chat privata.
“Puoi nasconderti da me, ma non da te stessa”.
La portò così a scoprirsi e a conoscersi.
Quando questo accadde lei si spaventò e chiuse ogni contatto, rifuggendo da sé stessa più che da lui.
Matteo, ogni tanto, le mandava una mail, tranquilla, pacata, solo per farle sapere che lui, al pari della sua anima scoperta e nuda, era lì.
Dopo che le acque delle sue emozioni si furono placate, Luisa lo cercò nuovamente e proseguirono lo scambio di mail, sempre più intime.
Dopo tre mesi di messaggi elettronici, decisero di “dialogare” in altro modo, scambiandosi una foto e ricorrendo a qualcosa che desse calore e concretezza ai pensieri ed alle emozioni che si comunicavano.
Ricorsero così alla carta e alla grafia a mano, per la quale lei utilizzava quella stilografica che aveva abbandonato sulla sua scrivania mentre stava scrivendo la lettera a lui destinata, nel momento in cui ricevette l’sms che la convinse a partire.
La gentilezza dell’uomo poté più della frusta. Nelle lunghe missive, lei abbassò tutte le sue difese, per aprire la propria mente prima e, poi, la propria anima, a sé stessa prima che al suo interlocutore, facendo fatica ad accettare quella maledetta esigenza di inginocchiarsi e sottomettersi ad un uomo, consegnando il proprio corpo alla soddisfazione degli altrui piaceri, per ricevere, a sua volta, i propri.
Non vi fu mai amore, ma tanto affetto, quello che inevitabilmente nasce quando di una persona si conoscono i più intimi pensieri.
Matteo la portò ad accettarsi e, con lui, diede sfogo alle sue fantasie, raccontandole e guardandosi dentro per capire le emozioni che le trasmettevano.
Al marito, Luisa non disse mai nulla né delle proprie pulsioni né, tantomeno, del rapporto con Matteo che, ormai, lei amava definire “Padrone” per rivolgersi a sé stessa con la definizione di “schiava”, fino a che queste parole non definirono più i ruoli ma i loro nomi, avendo abbandonato quelli di battesimo.
I primi imbarazzi lasciarono ben presto il posto alle eccitazioni dovute alle immagini che la vedevano prostrata o con la schiena segnata dalla cinghia, testimone del potere ceduto e gestito.
Il Padrone era divenuto lo specchio di sé stessa perchè l’immagine che rifletteva era una, ma composta dalle loro anime speculari, il bianco ed il nero, il suono ed il silenzio, la tela ed il disegno.
Emozioni, sensazioni.
Come ogni rapporto umano, anche il loro era destinato ad evolvere. L’intimità procurata dall’eccitazione lasciò spazio alla condivisione di ogni tipo di pensieri. Presero così a comunicarsi ogni cosa, non solo sessuale, ma qualunque aspetto delle loro anime, anche quello più riservato perché contiene le paure, le ansie o sensazioni che non si possono comunicare nemmeno al coniuge perché fanno paura anche a sé stessi.
Durante il viaggio ripercorse tutto il loro rapporto, provando quel calore tipico che scalda una parte non fisicamente identificabile del nostro corpo.
Solo al secondo avviso si accorse che il treno stava per entrare alla stazione Termini.
Staccò il telefono dalla carica e, in fretta, ritirò in borsa il cavo. Infilò la giacca leggera e si avviò all’uscita, lasciando sul tavolino quel libro che ora odiava perché rappresentava il suo tentativo di distrarsi dai pensieri per l’uomo che l’attendeva.
Presa dalla rabbia verso di sé, tornò indietro e gettò il libro nel cestino dei rifiuti.
Finalmente arrivò da Matteo.
Aveva il cuore in subbuglio per la forza delle emozioni che la stavano attraversando, in attesa di incontrare il suo Padrone, l’uomo che le aveva visto l’anima e tutti i suoi pensieri.
Lo trovò in camera, steso a letto.
“Sei bellissima”.
“E tu un grande porco, perché mi hai aspettato a letto”.
Non si erano mai incontrati. Quella era la prima volta. Si riconobbero subito, appena lei entrò, nonostante il tempo trascorso dall’unica foto che si erano mandati.
Luisa con ansia vide le macchine che consentivano all’uomo di restare in vita in quella asettica camera di ospedale.
Dopo tante emozioni vissute assieme, per la prima volta si guardavano in viso travolti dalle reciproche emozioni.
Avevano entrambi deciso che non si sarebbero mai incontrati, pur mantenendo sempre vivo lo scambio epistolare al quale nessuno dei due avrebbe rinunciato. Avevano costruito un rapporto scevro da interessi ulteriori rispetto al piacere di avere un’anima con la quale scambiare la propria. La “virtualità” non fu mai un ostacolo alle emozioni che provavano alla lettura dei pensieri altrui in quanto, benché impalpabili, esse esistono in ogni caso e sono più forti delle parole, delle forme, della logica, della ragione.
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