Zozzerie in bagno - Il pianeta delle formiche
di
Dora
genere
fantascienza
Non sapeva ancora che quello sarebbe stato l’ultimo giorno del loro amore. La pagina finale del libro. Quella in cui un minuscolo punto di inchiostro nero interrompe per sempre il rapporto tra quello che c’è e quello che ci sarà.
Era tutto grigio ed evanescente. Camminava vuota sulle stesse scale della stessa stazione. Ancora e ancora, gli stessi binari da attraversare, le stesse linee gialle, le stesse mattonelle. Il rumore dei suoi passi le rimbombava dentro.
Trascinava i piedi nelle sue scarpe consumate e si sentiva sempre diversa. Alla gente non importa di come si senta una sconosciuta, si limitano a fare su e giù per la loro strada, giorno dopo giorno. Riempire e svuotare i luoghi continuamente, come fa quel posticino nel suo corpo, dove lo sterno si congiunge con le costole e l’esofago si congiunge con lo stomaco.
Continuava a muoversi, pensava che alla fine siamo tutti fatti di sacche e cunicoli, qualche bastoncino per tenerci interi.
Il vento soffiava forte di rabbia e lei aveva smesso di preoccuparsi dei suoi capelli da tempo. Quando la porta si aprì lui la vide. Arruffata, vuota e vestita completamente di nero.
«Chi è che ha trasformato gli uomini in formiche?»
Lei non parlava e Mario non parlava. Quante volte si era ripetuta quel nome nella testa, ripercorrendone le sillabe, adattandolo ai contorni del suo viso spigoloso, riempiendolo di significati sempre nuovi. Non parlavano perché non era necessario. Entrambi sapevano perché erano lì.
La porta di legno si chiuse alle loro spalle con un rumore sordo, come una vetrata che si infrange sul muro del silenzio.
Mario mise una mano sulla sua e la strinse. Per la prima volta quel giorno sentì di esistere.
«Chi è che ha trasformato le formiche in uomini?»
Il sangue scorreva sotto la pelle delle loro mani, a prendere strade che non avevano tracciato loro consapevolmente. Non lo avevano fatto.
Mario le lanciò uno sguardo e fu come se le avesse spedito mille lettere, quindi cento e poi altre mille.
Sempre stringendole la mano la guidò verso il bagno. Il silenzio aveva qualcosa di definitivo dentro di sé, ci si sarebbe aspettato che i mobili della casa fossero coperti da lenzuoli bianchi, che le imposte fossero chiuse. Anche se non era così, tutto era comunque muto e sacro e loro erano i primi abitanti di quel pianeta.
Il bagno aveva una piccola finestrella a vasistas, in alto sulla parete che dava verso l’esterno, da lì entrava la luce grigia. Quella che non smetteva di seguirla da quella mattina. Che si nutriva del suo vuoto. Mario si fermò di spalle allo specchio e la guardò di nuovo negli occhi.
Una lacrima scivolò sulla sua guancia dall’occhio destro, lentamente, come una lumaca su una foglia. Lui la raccolse con la punta della lingua, dischiudendo appena le labbra.
Passò i suoi polpastrelli di petali di fiore sulle guance di lei. Li usò per far scappare dalle asole i due bottoni della giacca da uomo che la avvolgeva. Dolcemente la sfilò dalle sue spalle, accarezzando anche quelle. Poi si chinò a sfiorarle il collo con le labbra, dolcemente, restituendole la sua lacrima. Il suo corpo iniziò a tremare lievemente, quelle attenzioni la rimescolavano dentro, si sentiva trasparente.
Mario posò le sue labbra su quelle di lei, il primo bacio di quel loro pianeta. Prese poi a sfilarle i vestiti: la felpa nera del suo umore nero, il maglione rosso del suo cuore di sangue, la maglia bianca, ultimo strato a celare la pelle.
Poi si inginocchiò, cavaliere cortese, affondò i suoi zigomi ruvidi e affilati nel ventre sensibile della sua dama. Posò morbidi baci intorno al suo ombelico. Sciolse attentamente i lacci delle sue scarpe nere e gliele sfilò. Fece lo stesso con i pantaloni neri. Poi con le lunghe calze nere. Infine con le mutandine nere.
Lei si scorse alle spalle di Mario, riflessa nello specchio. Era diventata completamente bianca, il viso esangue, i muscoli tesi, il tremore. Poi quegli occhi languidi e spauriti. E il suo Mario che la trasformava, la abbracciava, le sfiorava le ossa con le dita, la pelle con i baci. Si prendeva cura di lei come fosse stata un bellissimo scarabeo che non avrebbe sopportato di uccidere.
Lo vide sfilarsi i vestiti: il maglione rosso e nero e verde, i pantaloni scuri, i calzini a pois piccoli piccoli. Per lei era come vivere una poesia dei crepuscolari, gesti che lui ripeteva ogni giorno acquistavano in quel momento un significato profondo, la grazia delle sue mani le faceva provare dolore nell’anima tanto era bella.
Si strinsero di nuovo forte, con tutti e due i loro corpi nudi. Presero ad esistere insieme.
“Vieni con me”, disse Mario. Le prime parole sul loro piccolo pianeta. Le sole che servissero.
Anche la luce che veniva dalla finestra diventò bianca, lui aveva il potere di trasformare tutto con la sua voce, con il suo calore.
Sui loro corpi cominciò a piovere acqua calda. Le gocce smussarono gli spigoli.
Si accorsero presto che anche dai loro occhi pioveva, gocce discrete che cercavano di passare inosservate. Non potevano che piangere l’uno per l’altra in quel momento. Piangere per il loro modo di esistere.
Mario le sorrise tra le lacrime. Il corpo di lei continuava a tremare mentre le sue dita seguivano i sentieri violacei tracciati sotto la sua pelle. Sotto i polsi, sul collo e sulla schiena. Ogni osso sporgente era un piolo a cui aggrapparsi, di cui saggiare la consistenza.
Non potevano che baciarsi in quel momento. Soffrendo e consumandosi per poi cominciare nuovamente.
I seni di lei erano fatti per strusciarsi sul petto di lui, per essere stretti dalle sue mani. I suoi denti per mordergli il collo. Le sue unghie per graffiare la pelle spessa della sua schiena di marmo.
Continuarono a muoversi e cercarsi, sempre più in profondità, finirono per penetrare l’uno dentro l’altra, facilmente come immergersi nell’acqua.
Come si può non esistere? Si chiese.
Lei e Mario erano fatti per esistere, erano l’unica cosa esistente sul loro pianeta.
In fondo alla pancia crebbe l’energia elettrica del piacere, li spinse sempre più l’uno verso l’altra, come seguendo il ritmo di tamburi tribali. Fino a che non esplose massima, si sprigionò nei loro corpi fusi e poi scappò via. Fra le gocce d’acqua, sulle piastrelle della doccia, fuori dalla finestrella.
Si ritrovarono accasciati sul pavimento, l’uno sull’altra. Respirando, mentre ancora continuava a piovere.
“Cosa staranno facendo i nostri doppi nello specchio, Mario?”
“Quello che facciamo noi ma mille volte diverso”.
Continuarono a restare seduti sul pavimento del loro pianeta, continuarono a interrogarsi sulle loro copie là fuori, nell’universo.
Quante sono vere? Quante sono false?
“Esistono tutte”, convenirono.
Infine si dissero addio.
Tornarono al loro umore nero, alla vita grigia, perché non potevano vivere sul loro pianeta per sempre. Erano fagocitati dalla gravità del mondo, stavano per schiantarsi in ogni caso.
Morirono lì, sulla porta del bagno, lei e Mario. Con la sicurezza che da qualche parte nell’universo, le loro copie, diverse e uguali, continuavano ad amarsi.
«Chi è che ha trasformato gli uomini in formiche?».
Era tutto grigio ed evanescente. Camminava vuota sulle stesse scale della stessa stazione. Ancora e ancora, gli stessi binari da attraversare, le stesse linee gialle, le stesse mattonelle. Il rumore dei suoi passi le rimbombava dentro.
Trascinava i piedi nelle sue scarpe consumate e si sentiva sempre diversa. Alla gente non importa di come si senta una sconosciuta, si limitano a fare su e giù per la loro strada, giorno dopo giorno. Riempire e svuotare i luoghi continuamente, come fa quel posticino nel suo corpo, dove lo sterno si congiunge con le costole e l’esofago si congiunge con lo stomaco.
Continuava a muoversi, pensava che alla fine siamo tutti fatti di sacche e cunicoli, qualche bastoncino per tenerci interi.
Il vento soffiava forte di rabbia e lei aveva smesso di preoccuparsi dei suoi capelli da tempo. Quando la porta si aprì lui la vide. Arruffata, vuota e vestita completamente di nero.
«Chi è che ha trasformato gli uomini in formiche?»
Lei non parlava e Mario non parlava. Quante volte si era ripetuta quel nome nella testa, ripercorrendone le sillabe, adattandolo ai contorni del suo viso spigoloso, riempiendolo di significati sempre nuovi. Non parlavano perché non era necessario. Entrambi sapevano perché erano lì.
La porta di legno si chiuse alle loro spalle con un rumore sordo, come una vetrata che si infrange sul muro del silenzio.
Mario mise una mano sulla sua e la strinse. Per la prima volta quel giorno sentì di esistere.
«Chi è che ha trasformato le formiche in uomini?»
Il sangue scorreva sotto la pelle delle loro mani, a prendere strade che non avevano tracciato loro consapevolmente. Non lo avevano fatto.
Mario le lanciò uno sguardo e fu come se le avesse spedito mille lettere, quindi cento e poi altre mille.
Sempre stringendole la mano la guidò verso il bagno. Il silenzio aveva qualcosa di definitivo dentro di sé, ci si sarebbe aspettato che i mobili della casa fossero coperti da lenzuoli bianchi, che le imposte fossero chiuse. Anche se non era così, tutto era comunque muto e sacro e loro erano i primi abitanti di quel pianeta.
Il bagno aveva una piccola finestrella a vasistas, in alto sulla parete che dava verso l’esterno, da lì entrava la luce grigia. Quella che non smetteva di seguirla da quella mattina. Che si nutriva del suo vuoto. Mario si fermò di spalle allo specchio e la guardò di nuovo negli occhi.
Una lacrima scivolò sulla sua guancia dall’occhio destro, lentamente, come una lumaca su una foglia. Lui la raccolse con la punta della lingua, dischiudendo appena le labbra.
Passò i suoi polpastrelli di petali di fiore sulle guance di lei. Li usò per far scappare dalle asole i due bottoni della giacca da uomo che la avvolgeva. Dolcemente la sfilò dalle sue spalle, accarezzando anche quelle. Poi si chinò a sfiorarle il collo con le labbra, dolcemente, restituendole la sua lacrima. Il suo corpo iniziò a tremare lievemente, quelle attenzioni la rimescolavano dentro, si sentiva trasparente.
Mario posò le sue labbra su quelle di lei, il primo bacio di quel loro pianeta. Prese poi a sfilarle i vestiti: la felpa nera del suo umore nero, il maglione rosso del suo cuore di sangue, la maglia bianca, ultimo strato a celare la pelle.
Poi si inginocchiò, cavaliere cortese, affondò i suoi zigomi ruvidi e affilati nel ventre sensibile della sua dama. Posò morbidi baci intorno al suo ombelico. Sciolse attentamente i lacci delle sue scarpe nere e gliele sfilò. Fece lo stesso con i pantaloni neri. Poi con le lunghe calze nere. Infine con le mutandine nere.
Lei si scorse alle spalle di Mario, riflessa nello specchio. Era diventata completamente bianca, il viso esangue, i muscoli tesi, il tremore. Poi quegli occhi languidi e spauriti. E il suo Mario che la trasformava, la abbracciava, le sfiorava le ossa con le dita, la pelle con i baci. Si prendeva cura di lei come fosse stata un bellissimo scarabeo che non avrebbe sopportato di uccidere.
Lo vide sfilarsi i vestiti: il maglione rosso e nero e verde, i pantaloni scuri, i calzini a pois piccoli piccoli. Per lei era come vivere una poesia dei crepuscolari, gesti che lui ripeteva ogni giorno acquistavano in quel momento un significato profondo, la grazia delle sue mani le faceva provare dolore nell’anima tanto era bella.
Si strinsero di nuovo forte, con tutti e due i loro corpi nudi. Presero ad esistere insieme.
“Vieni con me”, disse Mario. Le prime parole sul loro piccolo pianeta. Le sole che servissero.
Anche la luce che veniva dalla finestra diventò bianca, lui aveva il potere di trasformare tutto con la sua voce, con il suo calore.
Sui loro corpi cominciò a piovere acqua calda. Le gocce smussarono gli spigoli.
Si accorsero presto che anche dai loro occhi pioveva, gocce discrete che cercavano di passare inosservate. Non potevano che piangere l’uno per l’altra in quel momento. Piangere per il loro modo di esistere.
Mario le sorrise tra le lacrime. Il corpo di lei continuava a tremare mentre le sue dita seguivano i sentieri violacei tracciati sotto la sua pelle. Sotto i polsi, sul collo e sulla schiena. Ogni osso sporgente era un piolo a cui aggrapparsi, di cui saggiare la consistenza.
Non potevano che baciarsi in quel momento. Soffrendo e consumandosi per poi cominciare nuovamente.
I seni di lei erano fatti per strusciarsi sul petto di lui, per essere stretti dalle sue mani. I suoi denti per mordergli il collo. Le sue unghie per graffiare la pelle spessa della sua schiena di marmo.
Continuarono a muoversi e cercarsi, sempre più in profondità, finirono per penetrare l’uno dentro l’altra, facilmente come immergersi nell’acqua.
Come si può non esistere? Si chiese.
Lei e Mario erano fatti per esistere, erano l’unica cosa esistente sul loro pianeta.
In fondo alla pancia crebbe l’energia elettrica del piacere, li spinse sempre più l’uno verso l’altra, come seguendo il ritmo di tamburi tribali. Fino a che non esplose massima, si sprigionò nei loro corpi fusi e poi scappò via. Fra le gocce d’acqua, sulle piastrelle della doccia, fuori dalla finestrella.
Si ritrovarono accasciati sul pavimento, l’uno sull’altra. Respirando, mentre ancora continuava a piovere.
“Cosa staranno facendo i nostri doppi nello specchio, Mario?”
“Quello che facciamo noi ma mille volte diverso”.
Continuarono a restare seduti sul pavimento del loro pianeta, continuarono a interrogarsi sulle loro copie là fuori, nell’universo.
Quante sono vere? Quante sono false?
“Esistono tutte”, convenirono.
Infine si dissero addio.
Tornarono al loro umore nero, alla vita grigia, perché non potevano vivere sul loro pianeta per sempre. Erano fagocitati dalla gravità del mondo, stavano per schiantarsi in ogni caso.
Morirono lì, sulla porta del bagno, lei e Mario. Con la sicurezza che da qualche parte nell’universo, le loro copie, diverse e uguali, continuavano ad amarsi.
«Chi è che ha trasformato gli uomini in formiche?».
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