Il morso nascosto
di
Chicken1973
genere
prime esperienze
La donna era seduta da sola al tavolino in formica del bar del paese.
Corporatura esile, priva di seno sotto la camicetta bianca con il colletto decorato a fiorellini e le maniche a sbuffo; una lunga informe gonna beige che lasciava intravedere delle ballerine ordinarie e ordinate.
I capelli con evidenti segni di grigio, raccolti a crocchia sulla testa le lasciavano scoperto il collo e il viso indurito da zigomi importanti che, più del naso minuto, sorreggevano gli occhialini tondi.
Era inevitabile quindi che i suoi occhi verdi catalizzassero tutta l’attenzione di chi l’avesse incrociata per la prima volta senza sapere chi fosse.
Ma il ragazzo seduto dall’altro lato della sala, che la scrutava da un tempo apparentemente infinito, sapeva perfettamente chi era quella donna.
O almeno credeva.
In un piccolo comune come quello dove risiedeva, le dicerie di paese erano occhi e bocca e orecchie capaci di violare porte che sarebbero dovute rimanere ben chiuse, a nascondere quello che la gente faceva e che non voleva che si sapesse.
Quello che faceva la Professoressa con quegli studenti che lasciava entrare in casa sua, introducendoli al suo letto dalla pesante e antica testiera in ottone, tutti credevano di saperlo ma nessuno avrebbe saputo dirlo.
Anche il ragazzo conosceva quelle dicerie, e per quel motivo era li’ seduto in attesa di una minima mossa della donna, le mani a torturare il cellulare, lo sguardo saltuariamente rivolto alla vetrina per assicurarsi che nessuno lo vedesse lì. Ad accompagnarlo, un'erezione fuori controllo per la prospettiva di ciò che lo attendeva.
Perchè era la prima volta in diversi mesi che la professoressa si faceva vedere al bar dopo quel certo fatto.
Un fatto che nessuno poteva giurare fosse realmente accaduto, ma i cui particolari erano girati di sussurro in sussurro, di vocale in vocale.
Da sempre i ragazzi raccontavano storie di cosa succedeva dietro la porta della casa della Professoressa, e la marea che la riguardava montava dal basso e dal fondo delle mutande di uomini e donne, di madri e padri del paese.
La Professoressa viveva da sola, nessun uomo ad occupare l’altra metà del suo letto.
Si narrava alcuni studenti ne conoscessero bene l'odore; ma, chiedendo chiedendo, alla fine non trovavi nessuno che ammettesse di essercisi disteso.
Perchè la Professoressa non era il tipico trofeo da esibire, con i suoi vestiti antichi ed il suo corpo duro privo di curve.
Le voci accennavano, suggerivano, insinuavano quello che lei pretendeva dallo studente di turno in cambio di indicibili piaceri, varcata quella soglia, catturato da uno sguardo dei suoi occhi verdi dietro le lenti degli occhialini.
Ma la realtà delle ossessioni sessuali di quella donna nessuno sembrava conoscerla o avere il coraggio di raccontarla.
Anche il ragazzo del bar ricordava nel dettaglio tutte le dicerie: che la professoressa era vergine e vergine voleva rimanere. Ma che questo non le impediva di godere di quegli studenti abbastanza coraggiosi da avventurarsi dietro il mistero della sua figura asciutta.
E che quando uscivi dalla sua stanza, non avevi voglia di raccontare nulla di quello che era successo, sebbene sembrasse che non riuscissi piu’ a pensare ad altro.
La chiave per accedere a quell’oscuro e dolce luogo abitato dal corpo della Professoressa era venire al bar, e sedere, paziente, in attesa di un suo segno, che nessuno conosceva ma che non potevi non riconoscere una volta visto.
Ed ora era lì seduta, una tazza di camomilla davanti a lei, lo sguardo sulla porta: unica concessione di voluttà, la carta vuota di un piccolo babà, nel piattino l'alcool che le labbra della Professoressa non avevano catturato da quel cilindretto di pasta morbida e porosa.
Soltanto una volta la porta della sua casa sembrò aprirsi al mondo di fuori per lasciarne uscire i misteri, il giorno di quel certo fatto, il giorno in cui si era ritirata dalla circolazione.
Il ragazzo più sbruffone del paese si era presentato al bar una mattina, vedendola come sempre seduta al suo tavolino, seguendone poi gli occhi verdi e le ballerine e superando la soglia di quella porta, certo di uscire con una storia da aggiungere a quelle in cui si infilava nelle mutandine di turiste straniere.
Si diceva che fosse rimasto più di chiunque altro dentro la stanza, un intero finesettimana. E che le finestre della casa non erano mai state aperte in quei due giorni: l’avevano ben notato le signore di passaggio la domenica, rispondendo alla chiamata delle campane della parrocchia lì vicino.
Ma, prima della sera, la porta si era finalmente aperta.
La Professoressa era comparsa stagliandosi di profilo mentre il ragazzo riemergeva dall’oscurità.
“Voglio vedere che cancelli quelle foto. Ora”, si racconta che avesse ordinato.
Il ragazzo che prende il cellullare e armeggia, glielo mostra e finalmente si congeda, svuotato e come ubriaco.
Lei austera lo guarda allontanarsi, si sfiora le labbra, fa un passo incerto fuori casa e chiude la porta dietro di sè, incamminandosi verso la farmacia.
La farmacista raccontò dei segni sulla caviglia della donna, come di un morso di un cane.
O come quello di qualcuno giunto a un parossismo tale da non riuscire lasciare la presa. E le aveva consigliato di farsi vedere al pronto soccorso.
E al pronto soccorso altri avevano visto quella caviglia e quel morso, ed erano dovuti intervenire: chi aveva morso quella carne doveva aver perso ogni controllo per stringere fino a quel punto.
Ma significava anche che a qualcuno era stato concesso di guardare sotto la sua ormai proverbiale gonna beige, quella che indossava anche quella mattina, e sbirciare l'irraggiungibile tra le sue gambe.
E le voci si amplificarono, rimbalzando di muro in muro, di cellulare in cellulare, infrangendosi sulla porta della casa del ragazzo che ora negava di essere mai stato dalla Professoressa.
Le madri e i padri avevano cominciato a rumoreggiare contro di lei che, a quel punto, aveva valutato opportuno mettersi in malattia per un po', lasciando il paese alla sua stanca e pudica quotidianità.
Ma quel giorno la Professoressa era tornata al bar. Il ragazzo sedeva lì impaziente, riempiendosi gli occhi e le mutande della sua figura immobile, promessa di esperti piaceri che le ragazze del paese non avrebbero saputo regalare.
A meno che non fosse tutto finto.
A meno che quella non fosse solo che la triste immagine di una zitella, infangata di chiacchiere più sensuali di lei.
E lui era lì inutilmente, eccitato per una noiosa e frigida donna, zimbello di chi l'avesse visto da oltre le vetrine.
La porta del bar si apre. La campanella sospesa suona come nei vecchi film.
Si fa avanti una ragazza con i capelli corti tinti di azzurro, top nero e hot pants elastici aderenti, a stringere le sue chiappe, le cuciture che dividono il suo monte di Venere, i piedi liberi nelle infradito, unghie laccate di rosso.
Gli occhi verdi della donna sono rivolti a lei, che avanza lentamente, lasciandosi guardare.
Il ragazzo è rapito dalle due femmine, e un film parte nella sua testa, lo spettacolo di quello che farebbero quei due corpi assieme sullo stesso letto, pelvi che si strusciano, lingue che si incontrano.
Se solo quanto si racconta della Professoressa fosse effettivamente vero.
La ragazza è ora davanti alla donna seduta al suo tavolino, le mani in grembo sulla gonna che la copre fino alle ballerine, la figura austera che contrasta con i contorni delle sedere della ragazza.
Poi la giovane solleva un poco un piede nudo, le tocca la punta delle basse scarpe e risale lentamente lungo la linea delle ballerine, verso la sua caviglia.
Giunge al bordo della gonna, il ragazzo è costretto a staccare gli occhi dalle chiappe di lei per seguirne il piede ormai andato troppo oltre.
Un dito solleva impertinente il tessuto, il rosso acceso dell'unghia risalta sulla pelle bianca della Professoressa.
Una cicatrice, una mezzaluna fa capolino alla caviglia della donna, immobile al tavolino mentre fissa la ragazza dal seno strizzato nel top da dietro gli occhialini, lei che risponde con uno sguardo ammiccante da quegli occhioni altrimenti innocenti.
Il ragazzo ora sa che non è tempo per lui, ancora troppo acerbo.
La ragazza dice poche parole alla donna che la fissa seduta al tavolino, senza presentarsi.
"È sabato."
Infila la punta delle dita sotto il bordo dei pantaloncini, ad accarezzarsi impercettibile il ventre.
"Sarà un lungo weekend."
La donna sorride.
Corporatura esile, priva di seno sotto la camicetta bianca con il colletto decorato a fiorellini e le maniche a sbuffo; una lunga informe gonna beige che lasciava intravedere delle ballerine ordinarie e ordinate.
I capelli con evidenti segni di grigio, raccolti a crocchia sulla testa le lasciavano scoperto il collo e il viso indurito da zigomi importanti che, più del naso minuto, sorreggevano gli occhialini tondi.
Era inevitabile quindi che i suoi occhi verdi catalizzassero tutta l’attenzione di chi l’avesse incrociata per la prima volta senza sapere chi fosse.
Ma il ragazzo seduto dall’altro lato della sala, che la scrutava da un tempo apparentemente infinito, sapeva perfettamente chi era quella donna.
O almeno credeva.
In un piccolo comune come quello dove risiedeva, le dicerie di paese erano occhi e bocca e orecchie capaci di violare porte che sarebbero dovute rimanere ben chiuse, a nascondere quello che la gente faceva e che non voleva che si sapesse.
Quello che faceva la Professoressa con quegli studenti che lasciava entrare in casa sua, introducendoli al suo letto dalla pesante e antica testiera in ottone, tutti credevano di saperlo ma nessuno avrebbe saputo dirlo.
Anche il ragazzo conosceva quelle dicerie, e per quel motivo era li’ seduto in attesa di una minima mossa della donna, le mani a torturare il cellulare, lo sguardo saltuariamente rivolto alla vetrina per assicurarsi che nessuno lo vedesse lì. Ad accompagnarlo, un'erezione fuori controllo per la prospettiva di ciò che lo attendeva.
Perchè era la prima volta in diversi mesi che la professoressa si faceva vedere al bar dopo quel certo fatto.
Un fatto che nessuno poteva giurare fosse realmente accaduto, ma i cui particolari erano girati di sussurro in sussurro, di vocale in vocale.
Da sempre i ragazzi raccontavano storie di cosa succedeva dietro la porta della casa della Professoressa, e la marea che la riguardava montava dal basso e dal fondo delle mutande di uomini e donne, di madri e padri del paese.
La Professoressa viveva da sola, nessun uomo ad occupare l’altra metà del suo letto.
Si narrava alcuni studenti ne conoscessero bene l'odore; ma, chiedendo chiedendo, alla fine non trovavi nessuno che ammettesse di essercisi disteso.
Perchè la Professoressa non era il tipico trofeo da esibire, con i suoi vestiti antichi ed il suo corpo duro privo di curve.
Le voci accennavano, suggerivano, insinuavano quello che lei pretendeva dallo studente di turno in cambio di indicibili piaceri, varcata quella soglia, catturato da uno sguardo dei suoi occhi verdi dietro le lenti degli occhialini.
Ma la realtà delle ossessioni sessuali di quella donna nessuno sembrava conoscerla o avere il coraggio di raccontarla.
Anche il ragazzo del bar ricordava nel dettaglio tutte le dicerie: che la professoressa era vergine e vergine voleva rimanere. Ma che questo non le impediva di godere di quegli studenti abbastanza coraggiosi da avventurarsi dietro il mistero della sua figura asciutta.
E che quando uscivi dalla sua stanza, non avevi voglia di raccontare nulla di quello che era successo, sebbene sembrasse che non riuscissi piu’ a pensare ad altro.
La chiave per accedere a quell’oscuro e dolce luogo abitato dal corpo della Professoressa era venire al bar, e sedere, paziente, in attesa di un suo segno, che nessuno conosceva ma che non potevi non riconoscere una volta visto.
Ed ora era lì seduta, una tazza di camomilla davanti a lei, lo sguardo sulla porta: unica concessione di voluttà, la carta vuota di un piccolo babà, nel piattino l'alcool che le labbra della Professoressa non avevano catturato da quel cilindretto di pasta morbida e porosa.
Soltanto una volta la porta della sua casa sembrò aprirsi al mondo di fuori per lasciarne uscire i misteri, il giorno di quel certo fatto, il giorno in cui si era ritirata dalla circolazione.
Il ragazzo più sbruffone del paese si era presentato al bar una mattina, vedendola come sempre seduta al suo tavolino, seguendone poi gli occhi verdi e le ballerine e superando la soglia di quella porta, certo di uscire con una storia da aggiungere a quelle in cui si infilava nelle mutandine di turiste straniere.
Si diceva che fosse rimasto più di chiunque altro dentro la stanza, un intero finesettimana. E che le finestre della casa non erano mai state aperte in quei due giorni: l’avevano ben notato le signore di passaggio la domenica, rispondendo alla chiamata delle campane della parrocchia lì vicino.
Ma, prima della sera, la porta si era finalmente aperta.
La Professoressa era comparsa stagliandosi di profilo mentre il ragazzo riemergeva dall’oscurità.
“Voglio vedere che cancelli quelle foto. Ora”, si racconta che avesse ordinato.
Il ragazzo che prende il cellullare e armeggia, glielo mostra e finalmente si congeda, svuotato e come ubriaco.
Lei austera lo guarda allontanarsi, si sfiora le labbra, fa un passo incerto fuori casa e chiude la porta dietro di sè, incamminandosi verso la farmacia.
La farmacista raccontò dei segni sulla caviglia della donna, come di un morso di un cane.
O come quello di qualcuno giunto a un parossismo tale da non riuscire lasciare la presa. E le aveva consigliato di farsi vedere al pronto soccorso.
E al pronto soccorso altri avevano visto quella caviglia e quel morso, ed erano dovuti intervenire: chi aveva morso quella carne doveva aver perso ogni controllo per stringere fino a quel punto.
Ma significava anche che a qualcuno era stato concesso di guardare sotto la sua ormai proverbiale gonna beige, quella che indossava anche quella mattina, e sbirciare l'irraggiungibile tra le sue gambe.
E le voci si amplificarono, rimbalzando di muro in muro, di cellulare in cellulare, infrangendosi sulla porta della casa del ragazzo che ora negava di essere mai stato dalla Professoressa.
Le madri e i padri avevano cominciato a rumoreggiare contro di lei che, a quel punto, aveva valutato opportuno mettersi in malattia per un po', lasciando il paese alla sua stanca e pudica quotidianità.
Ma quel giorno la Professoressa era tornata al bar. Il ragazzo sedeva lì impaziente, riempiendosi gli occhi e le mutande della sua figura immobile, promessa di esperti piaceri che le ragazze del paese non avrebbero saputo regalare.
A meno che non fosse tutto finto.
A meno che quella non fosse solo che la triste immagine di una zitella, infangata di chiacchiere più sensuali di lei.
E lui era lì inutilmente, eccitato per una noiosa e frigida donna, zimbello di chi l'avesse visto da oltre le vetrine.
La porta del bar si apre. La campanella sospesa suona come nei vecchi film.
Si fa avanti una ragazza con i capelli corti tinti di azzurro, top nero e hot pants elastici aderenti, a stringere le sue chiappe, le cuciture che dividono il suo monte di Venere, i piedi liberi nelle infradito, unghie laccate di rosso.
Gli occhi verdi della donna sono rivolti a lei, che avanza lentamente, lasciandosi guardare.
Il ragazzo è rapito dalle due femmine, e un film parte nella sua testa, lo spettacolo di quello che farebbero quei due corpi assieme sullo stesso letto, pelvi che si strusciano, lingue che si incontrano.
Se solo quanto si racconta della Professoressa fosse effettivamente vero.
La ragazza è ora davanti alla donna seduta al suo tavolino, le mani in grembo sulla gonna che la copre fino alle ballerine, la figura austera che contrasta con i contorni delle sedere della ragazza.
Poi la giovane solleva un poco un piede nudo, le tocca la punta delle basse scarpe e risale lentamente lungo la linea delle ballerine, verso la sua caviglia.
Giunge al bordo della gonna, il ragazzo è costretto a staccare gli occhi dalle chiappe di lei per seguirne il piede ormai andato troppo oltre.
Un dito solleva impertinente il tessuto, il rosso acceso dell'unghia risalta sulla pelle bianca della Professoressa.
Una cicatrice, una mezzaluna fa capolino alla caviglia della donna, immobile al tavolino mentre fissa la ragazza dal seno strizzato nel top da dietro gli occhialini, lei che risponde con uno sguardo ammiccante da quegli occhioni altrimenti innocenti.
Il ragazzo ora sa che non è tempo per lui, ancora troppo acerbo.
La ragazza dice poche parole alla donna che la fissa seduta al tavolino, senza presentarsi.
"È sabato."
Infila la punta delle dita sotto il bordo dei pantaloncini, ad accarezzarsi impercettibile il ventre.
"Sarà un lungo weekend."
La donna sorride.
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