La schiava ceduta (parte 2)
di
Kugher
genere
sadomaso
“Nuda”.
L’ordine venne dato con la tranquillità di chi esercita un potere solito, sapendo che verrà eseguito, pronunciato quasi con distrazione, come se fosse l’affermazione dell’ovvio.
La pioggia stava dando una tregua e la ghiaia del cortile del privè aveva drenato l’acqua.
Faceva fresco ma la temperatura era l’ultima sua preoccupazione, più concentrata sulla tensione.
Sapeva cosa sarebbe accaduto quella sera. Ne avevano parlato o, meglio, lui gliene aveva parlato una sera, a casa sua, in quella stanza che tanto le piaceva, piena di libri, da terra al soffitto, tutti catalogati per ordine di autore e dove, scorrendo, tra Balzac e Dostoevskij, aveva trovato le opere di De Sade. Accadde la sera del secondo incontro, quando lei aveva deciso che sarebbe stata sua. Era vestita in maniera eccitante, come lui le aveva ordinato. Stava scorrendo i libri e si fermò a quell’autore. Lui la stava osservando. Le si avvicinò e la prese per i capelli, facendola inginocchiare davanti ai libri, davanti a de Sade. Era ancora vestita quando, nel vortice delle prime emozioni, le arrivò la prima frustata, forte, dolorosa. Era stata frustata altre volte. Le piaceva il dolore. Quel colpo però era forte. Lei si era vantata di sopportare bene il dolore, nei primi scambi in mail, e lui aveva voluto affermare il suo potere. Si appoggiò con le mani ai libri, per le successive 4 frustate. Si appoggiò a De Sade.
In quella stessa stanza, che era stata testimone della sua sottomissione, qualche mese dopo, le disse che avrebbe voluto portarla in un privè e cederla, scambiarla con un’altra schiava, solo per quella sera, o per quella notte.
Il Padrone cui l’avrebbe ceduta, e dal quale avrebbe preso la sua schiava, avrebbe dovuto essere uno sconosciuto. Voleva che lei, per lui, fosse solo un corpo, un oggetto, una schiava, appunto, una schiava vera, non una donna con la quale era stato a cena o a teatro. Solo una schiava.
Per lui sarebbe stato lo stesso, con la schiava di quello sconosciuto.
Lei non lo aveva mai fatto.
Lui sì, non spesso ma qualche volta aveva dato sfogo a questa sua fantasia.
Una volta era andata male. La schiava, a metà serata, se ne era andata, prima ancora di prendere in bocca il cazzo del Padrone al quale era stata ceduta.
Altra volta, invece, fu eccitantissimo, per entrambi, e la cosa rafforzò il loro rapporto, la loro complicità, il loro piacere.
Quando gliene parlò erano entrambi nudi, lui, però, seduto nella poltrona di pelle che recava i segni dell’uso, sulla quale si sedeva spessissimo per leggere. Alle sua spalle c’erano i libri di De Sade.
Lei era inginocchiata davanti a lui che, in mano, reggeva il guinzaglio.
Luisa inizialmente si spaventò. Poi l’incognita, la cessione, l’oggettificazione la eccitarono ed il cuore prese a batterle più forte, al punto da farle divenire più sensuale quella posa già di per sé eccitante, come una preda che chiama il cacciatore, perché vuole essere presa.
Mentre il Padrone entrava sempre più nei dettagli, eccitata e senza ordine alcuno, si chinò a leccargli i piedi e, poi, i testicoli, fino a quando il sesso non fu duro per prenderlo in bocca e farlo crescere proporzionalmente al suo desidero, alla sua eccitazione che la vedeva già prostrata davanti ad uno sconosciuto che avrebbe potuto fare di lei ciò che voleva.
Il Padrone la liberò del plug che la costringeva sempre a tenere nell’ano quando era con lui e, inginocchiata faccia a terra, la prese per goderle nel culo.
Quella sera era arrivata.
L’aria fresca sulla pelle nuda, nel cortile del privè, non le sciolse la tensione che sentiva forte dentro.
Glielo aveva detto con una settimana di anticipo che quella sera l’avrebbe portata per essere ceduta. Solitamente non le anticipava mai cosa aveva intenzione di farle. Lo faceva solo quando sapeva che la notizia e, soprattutto, l’attesa, l’avrebbero lasciata in quella tensione che si alternava all’eccitazione, al timore ed all’umido tra le cosce.
Per la settimana che avrebbe preceduto l’evento, le aveva ordinato di non masturbarsi né di fare sesso col marito.
Gli piaceva gestire, a volte, la vita sessuale coniugale. Piaceva anche a lei, facendola sentire schiava, appartenente a quell’uomo, con quel filo invisibile teso tra loro che li teneva uniti anche se non si sarebbero sentiti o visti.
La sera in cui si negò al marito provò un fremito nel pensare che se lo avesse fatto col suo Padrone, si sarebbe ritrovata stesa a terra col suo piede sul collo mentre la osservava nel momento in cui si sarebbe sfilato la cinghia dei pantaloni.
In quel momento non pensava al marito, e nemmeno alle auto che stavano entrando nel cortile del privè i cui occupanti l’avrebbero vista.
Era concentrata sull’ordine ricevuto, che la voleva inginocchiata sulla ghiaia, sui sassolini che le avrebbero procurato quel dolore che rappresentava la sua proprietà al Padrone.
Mentre le fitte le arrivavano alla testa, con una lentezza che a lei parve amplificata, Fabrizio prese il frustino, quello rigido, che assomigliava più a un cane che ad un attrezzo da cavallerizzo.
Le piaceva il dolore ma l’attesa era sempre snervante, fino a che il primo colpo le avrebbe sciolto la tensione.
Al Padrone non bastava che fosse bella, nuda, esposta, elegante sul tacco 12 con i morsetti a capezzoli e figa.
La voleva ornata, disegnata.
Le diede tre colpi, forti, paralleli sulla schiena che, subito dopo, lasciarono altrettante strisce rosse.
Poi un colpo in diagonale per ciascuna natica in modo che, visti da lontano, sarebbero apparsi coma un V, quasi un segno che indirizzasse l’attenzione verso la figa.
Si allontanò quel tanto per apprezzare la sua opera.
“Alzati, schiava”.
Il nome di battesimo non trovava mai spazio in quei momenti, sempre sostituito da altri ai quali era affidato di descrivere, volta per volta, la sua funzione: schiava, serva, cagna, puttana, bestia, quest’ultimo quando la destinava a lavori pesanti, al limite delle sue forze.
Anche quella sera aveva il plug nel culo.
Anche quella sera aveva il collare, quello comprato in un negozio per animali e che le aveva fatto provare davanti al commesso.
Le ammanettò le mani dietro la schiena ed attaccò il guinzaglio al collare.
Lei sapeva che c’erano altre persone in cortile. Li aveva sentiti arrivare e scendere dall’auto. Non li vedeva, aveva lo sguardo basso per il senso di sottomissione e per il timore di ciò che l’avrebbe attesa là dentro, con la voglia di scappare appena inferiore a quella di entrare.
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krugher.1863@gmail.com
L’ordine venne dato con la tranquillità di chi esercita un potere solito, sapendo che verrà eseguito, pronunciato quasi con distrazione, come se fosse l’affermazione dell’ovvio.
La pioggia stava dando una tregua e la ghiaia del cortile del privè aveva drenato l’acqua.
Faceva fresco ma la temperatura era l’ultima sua preoccupazione, più concentrata sulla tensione.
Sapeva cosa sarebbe accaduto quella sera. Ne avevano parlato o, meglio, lui gliene aveva parlato una sera, a casa sua, in quella stanza che tanto le piaceva, piena di libri, da terra al soffitto, tutti catalogati per ordine di autore e dove, scorrendo, tra Balzac e Dostoevskij, aveva trovato le opere di De Sade. Accadde la sera del secondo incontro, quando lei aveva deciso che sarebbe stata sua. Era vestita in maniera eccitante, come lui le aveva ordinato. Stava scorrendo i libri e si fermò a quell’autore. Lui la stava osservando. Le si avvicinò e la prese per i capelli, facendola inginocchiare davanti ai libri, davanti a de Sade. Era ancora vestita quando, nel vortice delle prime emozioni, le arrivò la prima frustata, forte, dolorosa. Era stata frustata altre volte. Le piaceva il dolore. Quel colpo però era forte. Lei si era vantata di sopportare bene il dolore, nei primi scambi in mail, e lui aveva voluto affermare il suo potere. Si appoggiò con le mani ai libri, per le successive 4 frustate. Si appoggiò a De Sade.
In quella stessa stanza, che era stata testimone della sua sottomissione, qualche mese dopo, le disse che avrebbe voluto portarla in un privè e cederla, scambiarla con un’altra schiava, solo per quella sera, o per quella notte.
Il Padrone cui l’avrebbe ceduta, e dal quale avrebbe preso la sua schiava, avrebbe dovuto essere uno sconosciuto. Voleva che lei, per lui, fosse solo un corpo, un oggetto, una schiava, appunto, una schiava vera, non una donna con la quale era stato a cena o a teatro. Solo una schiava.
Per lui sarebbe stato lo stesso, con la schiava di quello sconosciuto.
Lei non lo aveva mai fatto.
Lui sì, non spesso ma qualche volta aveva dato sfogo a questa sua fantasia.
Una volta era andata male. La schiava, a metà serata, se ne era andata, prima ancora di prendere in bocca il cazzo del Padrone al quale era stata ceduta.
Altra volta, invece, fu eccitantissimo, per entrambi, e la cosa rafforzò il loro rapporto, la loro complicità, il loro piacere.
Quando gliene parlò erano entrambi nudi, lui, però, seduto nella poltrona di pelle che recava i segni dell’uso, sulla quale si sedeva spessissimo per leggere. Alle sua spalle c’erano i libri di De Sade.
Lei era inginocchiata davanti a lui che, in mano, reggeva il guinzaglio.
Luisa inizialmente si spaventò. Poi l’incognita, la cessione, l’oggettificazione la eccitarono ed il cuore prese a batterle più forte, al punto da farle divenire più sensuale quella posa già di per sé eccitante, come una preda che chiama il cacciatore, perché vuole essere presa.
Mentre il Padrone entrava sempre più nei dettagli, eccitata e senza ordine alcuno, si chinò a leccargli i piedi e, poi, i testicoli, fino a quando il sesso non fu duro per prenderlo in bocca e farlo crescere proporzionalmente al suo desidero, alla sua eccitazione che la vedeva già prostrata davanti ad uno sconosciuto che avrebbe potuto fare di lei ciò che voleva.
Il Padrone la liberò del plug che la costringeva sempre a tenere nell’ano quando era con lui e, inginocchiata faccia a terra, la prese per goderle nel culo.
Quella sera era arrivata.
L’aria fresca sulla pelle nuda, nel cortile del privè, non le sciolse la tensione che sentiva forte dentro.
Glielo aveva detto con una settimana di anticipo che quella sera l’avrebbe portata per essere ceduta. Solitamente non le anticipava mai cosa aveva intenzione di farle. Lo faceva solo quando sapeva che la notizia e, soprattutto, l’attesa, l’avrebbero lasciata in quella tensione che si alternava all’eccitazione, al timore ed all’umido tra le cosce.
Per la settimana che avrebbe preceduto l’evento, le aveva ordinato di non masturbarsi né di fare sesso col marito.
Gli piaceva gestire, a volte, la vita sessuale coniugale. Piaceva anche a lei, facendola sentire schiava, appartenente a quell’uomo, con quel filo invisibile teso tra loro che li teneva uniti anche se non si sarebbero sentiti o visti.
La sera in cui si negò al marito provò un fremito nel pensare che se lo avesse fatto col suo Padrone, si sarebbe ritrovata stesa a terra col suo piede sul collo mentre la osservava nel momento in cui si sarebbe sfilato la cinghia dei pantaloni.
In quel momento non pensava al marito, e nemmeno alle auto che stavano entrando nel cortile del privè i cui occupanti l’avrebbero vista.
Era concentrata sull’ordine ricevuto, che la voleva inginocchiata sulla ghiaia, sui sassolini che le avrebbero procurato quel dolore che rappresentava la sua proprietà al Padrone.
Mentre le fitte le arrivavano alla testa, con una lentezza che a lei parve amplificata, Fabrizio prese il frustino, quello rigido, che assomigliava più a un cane che ad un attrezzo da cavallerizzo.
Le piaceva il dolore ma l’attesa era sempre snervante, fino a che il primo colpo le avrebbe sciolto la tensione.
Al Padrone non bastava che fosse bella, nuda, esposta, elegante sul tacco 12 con i morsetti a capezzoli e figa.
La voleva ornata, disegnata.
Le diede tre colpi, forti, paralleli sulla schiena che, subito dopo, lasciarono altrettante strisce rosse.
Poi un colpo in diagonale per ciascuna natica in modo che, visti da lontano, sarebbero apparsi coma un V, quasi un segno che indirizzasse l’attenzione verso la figa.
Si allontanò quel tanto per apprezzare la sua opera.
“Alzati, schiava”.
Il nome di battesimo non trovava mai spazio in quei momenti, sempre sostituito da altri ai quali era affidato di descrivere, volta per volta, la sua funzione: schiava, serva, cagna, puttana, bestia, quest’ultimo quando la destinava a lavori pesanti, al limite delle sue forze.
Anche quella sera aveva il plug nel culo.
Anche quella sera aveva il collare, quello comprato in un negozio per animali e che le aveva fatto provare davanti al commesso.
Le ammanettò le mani dietro la schiena ed attaccò il guinzaglio al collare.
Lei sapeva che c’erano altre persone in cortile. Li aveva sentiti arrivare e scendere dall’auto. Non li vedeva, aveva lo sguardo basso per il senso di sottomissione e per il timore di ciò che l’avrebbe attesa là dentro, con la voglia di scappare appena inferiore a quella di entrare.
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