La schiava ceduta (parte 1)
di
Kugher
genere
sadomaso
Stava piovendo.
A Luisa piaceva la pioggia, le dava una sensazione di pulito oltre alla rilassatezza che il costante rumore delle gocce riusciva a trasmetterle.
Non in quel momento, però.
Era agitata, molto.
Non era nemmeno riuscita a cenare.
Le capitava sempre così quando incontrava il suo Padrone.
Quella sera l’avrebbe portata al privè, dove erano già stati altre volte.
In quel locale provava sensazioni fortissime, eccitanti, al punto da iniziare ad avere tensione già dal giorno prima, se non, addirittura, dal momento in cui concordava la data con Lui.
L’eccitazione, giunta alla porta di ingresso, si trasformava in quasi-paura, quella forte, eccitante, quella che trasmette il brivido dell’ignoto, quella stessa che le faceva quasi venire voglia di tornare a casa, nella tranquillità di una serata sul divano, in compagnia del marito al quale, invece, aveva detto che sarebbe stata fuori per il weekend.
Quella sera, però, sarebbe stata diversa dalle altre, lo sapeva, la temeva tanto quanto la desiderava, sempre alla scoperta di nuove sensazioni, nuove emozioni, nuove conoscenze di sé stessa.
Fabrizio, il Padrone, la conosceva, la conosceva molto bene.
La possedeva da qualche anno ormai ed aveva imparato tutti i suoi lati deboli, quelli che la fanno sentire nuda nell’anima, che tirano fuori il suo desiderio/bisogno di sottomissione, di appartenere, di sentirsi ed essere usata.
Ci giocava, quello stronzo, allentando e tirando la corda della tensione.
Il battito costante della pioggia, quella volta, non le trasmetteva nessuna sensazione di tranquillità, anzi, riusciva ad innervosirla, perché le sembrava accentuasse il silenzio nell’abitacolo.
Il silenzio, quell’assordante assenza di rumore che la costringeva a non distrarsi, a pensare a ciò cui stava andando a vivere ed al dolore che stava provando in quel momento, in auto, in quel maledetto silenzio.
Dolore e possesso o, meglio, cessione del proprio possesso.
Appena si erano incontrati al solito parcheggio della stazione, sotto il leggero vestito che aveva lo scopo di farla sentire ancora più nuda, con la scollatura che copriva solo metà seno, appena dopo il capezzolo, ed arrivata al fondo dello sterno.
Le gambe erano esposte, offerte dalla spaccatura laterale.
Lei aveva cercato il suo sguardo di apprezzamento per il suo corpo nudo in quel vestito eccitante, ma si era limitato a guardarla negli occhi, senza darle conforto, rassicurazione alcuna, sapendo che le avrebbe alimentato ulteriormente la tensione già forte.
L’unico contatto era avvenuto quando, ancora all’aperto, vicino alle auto, sotto la luce di quel maledetto lampione, lui le aveva apposto le pinzette a 4 morsetti, tra loro uniti da una catenella, ai capezzoli ed alle grandi labbra.
Il Padrone adorava esporla a quelle situazioni imbarazzanti, nelle quali, da lontano, avrebbe potuto solo sembrare la scena di un uomo che non resiste a toccare quella bella e giovane donna tanto eccitante.
Anche questo aspetto le dava una sensazione contrastante. Si vergognava in pubblico ma, contemporaneamente, la faceva sentire posseduta, usata, un oggetto di proprietà che non può opporsi al volere altrui.
La cessione del potere su di sé, la perdita del controllo del proprio corpo destinato, per il tempo dell’incontro, solo alla soddisfazione ed al divertimento del suo Padrone.
Era bagnata, la eccitava questo aspetto della sua sessualità che il marito non aveva saputo cogliere, stimolare, godere.
Luisa aveva scoperto e fatto i conti con queste sue esigenze solo dopo il matrimonio. Agli inizi sentiva solo il piacere per qualche comportamento autoritario degli uomini ma la cosa era ancora troppo latente.
Era stato un amante a farle scoprire il piacere della sottomissione, un uomo dal quale era attratta, un collega di lavoro di un’altra sede, troppo lontana per poter essere un pericolo per il matrimonio e troppo vicino, quella sera alla cena aziendale, per dire di no. L’aveva sculacciata e lei non riusciva a dire di smetterla. Anzi, lui l’aveva trovata bagnata e forte era stato il suo orgasmo. Durante la sculacciata indietreggiava col culo per invitarlo a prenderla, a scoparla, a picchiarla mentre la penetrava, “anche sulla schiena” si era sentita dire, prima che una manata piena le arrivasse a mezza schiena, poi una sul fianco.
In quel momento, però, aveva in mente solo l’umiliazione subita al parcheggio ed il dolore che provava, quel dolore costante, continuo, che a volte si assopisce fino a quando, quello stronzo, non allunga la mano e comincia a tirare la catenella, procurandole una fitta che risveglia il dolore fino a farglielo entrare in testa.
Una sensazione che aumenta il suo stato di sottomissione, di appartenenza a quell’uomo che gioca col suo corpo e col suo dolore, con la sua umiliazione, quella umiliazione che la eccita, che le fa venire voglia di scendere ancor di più, come sa che dovrà fare quella sera.
Fermi al semaforo, in doppia corsia, il vetro appena bagnato del finestrino laterale non la nascondeva alla vista dell’autista della corriera che si era affiancata.
La scollatura era evidente e l’illuminazione dell’incrocio sufficiente a farla vedere.
Se ne era accorto anche il suo Padrone che le aveva posato una mano tra le gambe che le spaccature del vestito avevano lasciate scoperte o, meglio, come Fabrizio aveva preteso che stessero.
L’autista del mezzo a fianco, vista la sua posizione elevata, aveva accesso alla vista di ogni atto, ogni movimento di quella mano che dal ginocchio saliva, fino alla figa non protetta da mutandine.
Sentendo salire la mano, istintivamente aveva allargato le gambe per consentire l’agevole passaggio fino al sesso, bagnato.
Al Padrone, però, non bastava. Voleva giocare con le sue sensazioni, le sue emozioni, la sua umiliazione.
Così scoprì il vestito fino a far vedere le pinzette che cominciò a tirare.
Luisa aveva cercato di tenere lo sguardo indifferente, sperando che l’autista, involontario testimone del suo stato, non si accorgesse di nulla.
Gli sforzi, però, la portarono a cedere e a dimostrare il dolore che Fabrizio le procurava e che lei era costretta subire, voleva subire, quale testimonianza della sua sottomissione, del potere di quell’uomo che aveva la facoltà di esibirla, esporla, far vedere a sconosciuti che lei era cosa sua.
Ma quanto durava quel cazzo di semaforo rosso?
Il Padrone aveva infilato una mano nella scollatura ed aveva evidenziato, a vantaggio della visione dell’autista, la catenella che univa i morsetti.
La tirava mentre lei cercava di stare ferma, di non staccare la schiena dal sedile. Lui non voleva, lui le aveva ordinato di mantenere la schiena aderente e lei obbediva.
Aveva imparato l’obbedienza in quegli anni in cui era stata educata a soddisfarlo.
Finalmente venne il verde.
Finalmente poté realizzare ciò che era accaduto. Durante il dolore si è più concentrati su esso. Dopo realizzò appieno l’episodio di dominazione e si eccitò.
Tra qualche giorno, parlandone, avrebbero riso di quanto appena accaduto.
Tra qualche giorno, però, non adesso, non in quel momento.
Adesso era eccitata, così come lo era anche lui e stavano andando incontro alla serata.
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krugher.1863@gmail.com
A Luisa piaceva la pioggia, le dava una sensazione di pulito oltre alla rilassatezza che il costante rumore delle gocce riusciva a trasmetterle.
Non in quel momento, però.
Era agitata, molto.
Non era nemmeno riuscita a cenare.
Le capitava sempre così quando incontrava il suo Padrone.
Quella sera l’avrebbe portata al privè, dove erano già stati altre volte.
In quel locale provava sensazioni fortissime, eccitanti, al punto da iniziare ad avere tensione già dal giorno prima, se non, addirittura, dal momento in cui concordava la data con Lui.
L’eccitazione, giunta alla porta di ingresso, si trasformava in quasi-paura, quella forte, eccitante, quella che trasmette il brivido dell’ignoto, quella stessa che le faceva quasi venire voglia di tornare a casa, nella tranquillità di una serata sul divano, in compagnia del marito al quale, invece, aveva detto che sarebbe stata fuori per il weekend.
Quella sera, però, sarebbe stata diversa dalle altre, lo sapeva, la temeva tanto quanto la desiderava, sempre alla scoperta di nuove sensazioni, nuove emozioni, nuove conoscenze di sé stessa.
Fabrizio, il Padrone, la conosceva, la conosceva molto bene.
La possedeva da qualche anno ormai ed aveva imparato tutti i suoi lati deboli, quelli che la fanno sentire nuda nell’anima, che tirano fuori il suo desiderio/bisogno di sottomissione, di appartenere, di sentirsi ed essere usata.
Ci giocava, quello stronzo, allentando e tirando la corda della tensione.
Il battito costante della pioggia, quella volta, non le trasmetteva nessuna sensazione di tranquillità, anzi, riusciva ad innervosirla, perché le sembrava accentuasse il silenzio nell’abitacolo.
Il silenzio, quell’assordante assenza di rumore che la costringeva a non distrarsi, a pensare a ciò cui stava andando a vivere ed al dolore che stava provando in quel momento, in auto, in quel maledetto silenzio.
Dolore e possesso o, meglio, cessione del proprio possesso.
Appena si erano incontrati al solito parcheggio della stazione, sotto il leggero vestito che aveva lo scopo di farla sentire ancora più nuda, con la scollatura che copriva solo metà seno, appena dopo il capezzolo, ed arrivata al fondo dello sterno.
Le gambe erano esposte, offerte dalla spaccatura laterale.
Lei aveva cercato il suo sguardo di apprezzamento per il suo corpo nudo in quel vestito eccitante, ma si era limitato a guardarla negli occhi, senza darle conforto, rassicurazione alcuna, sapendo che le avrebbe alimentato ulteriormente la tensione già forte.
L’unico contatto era avvenuto quando, ancora all’aperto, vicino alle auto, sotto la luce di quel maledetto lampione, lui le aveva apposto le pinzette a 4 morsetti, tra loro uniti da una catenella, ai capezzoli ed alle grandi labbra.
Il Padrone adorava esporla a quelle situazioni imbarazzanti, nelle quali, da lontano, avrebbe potuto solo sembrare la scena di un uomo che non resiste a toccare quella bella e giovane donna tanto eccitante.
Anche questo aspetto le dava una sensazione contrastante. Si vergognava in pubblico ma, contemporaneamente, la faceva sentire posseduta, usata, un oggetto di proprietà che non può opporsi al volere altrui.
La cessione del potere su di sé, la perdita del controllo del proprio corpo destinato, per il tempo dell’incontro, solo alla soddisfazione ed al divertimento del suo Padrone.
Era bagnata, la eccitava questo aspetto della sua sessualità che il marito non aveva saputo cogliere, stimolare, godere.
Luisa aveva scoperto e fatto i conti con queste sue esigenze solo dopo il matrimonio. Agli inizi sentiva solo il piacere per qualche comportamento autoritario degli uomini ma la cosa era ancora troppo latente.
Era stato un amante a farle scoprire il piacere della sottomissione, un uomo dal quale era attratta, un collega di lavoro di un’altra sede, troppo lontana per poter essere un pericolo per il matrimonio e troppo vicino, quella sera alla cena aziendale, per dire di no. L’aveva sculacciata e lei non riusciva a dire di smetterla. Anzi, lui l’aveva trovata bagnata e forte era stato il suo orgasmo. Durante la sculacciata indietreggiava col culo per invitarlo a prenderla, a scoparla, a picchiarla mentre la penetrava, “anche sulla schiena” si era sentita dire, prima che una manata piena le arrivasse a mezza schiena, poi una sul fianco.
In quel momento, però, aveva in mente solo l’umiliazione subita al parcheggio ed il dolore che provava, quel dolore costante, continuo, che a volte si assopisce fino a quando, quello stronzo, non allunga la mano e comincia a tirare la catenella, procurandole una fitta che risveglia il dolore fino a farglielo entrare in testa.
Una sensazione che aumenta il suo stato di sottomissione, di appartenenza a quell’uomo che gioca col suo corpo e col suo dolore, con la sua umiliazione, quella umiliazione che la eccita, che le fa venire voglia di scendere ancor di più, come sa che dovrà fare quella sera.
Fermi al semaforo, in doppia corsia, il vetro appena bagnato del finestrino laterale non la nascondeva alla vista dell’autista della corriera che si era affiancata.
La scollatura era evidente e l’illuminazione dell’incrocio sufficiente a farla vedere.
Se ne era accorto anche il suo Padrone che le aveva posato una mano tra le gambe che le spaccature del vestito avevano lasciate scoperte o, meglio, come Fabrizio aveva preteso che stessero.
L’autista del mezzo a fianco, vista la sua posizione elevata, aveva accesso alla vista di ogni atto, ogni movimento di quella mano che dal ginocchio saliva, fino alla figa non protetta da mutandine.
Sentendo salire la mano, istintivamente aveva allargato le gambe per consentire l’agevole passaggio fino al sesso, bagnato.
Al Padrone, però, non bastava. Voleva giocare con le sue sensazioni, le sue emozioni, la sua umiliazione.
Così scoprì il vestito fino a far vedere le pinzette che cominciò a tirare.
Luisa aveva cercato di tenere lo sguardo indifferente, sperando che l’autista, involontario testimone del suo stato, non si accorgesse di nulla.
Gli sforzi, però, la portarono a cedere e a dimostrare il dolore che Fabrizio le procurava e che lei era costretta subire, voleva subire, quale testimonianza della sua sottomissione, del potere di quell’uomo che aveva la facoltà di esibirla, esporla, far vedere a sconosciuti che lei era cosa sua.
Ma quanto durava quel cazzo di semaforo rosso?
Il Padrone aveva infilato una mano nella scollatura ed aveva evidenziato, a vantaggio della visione dell’autista, la catenella che univa i morsetti.
La tirava mentre lei cercava di stare ferma, di non staccare la schiena dal sedile. Lui non voleva, lui le aveva ordinato di mantenere la schiena aderente e lei obbediva.
Aveva imparato l’obbedienza in quegli anni in cui era stata educata a soddisfarlo.
Finalmente venne il verde.
Finalmente poté realizzare ciò che era accaduto. Durante il dolore si è più concentrati su esso. Dopo realizzò appieno l’episodio di dominazione e si eccitò.
Tra qualche giorno, parlandone, avrebbero riso di quanto appena accaduto.
Tra qualche giorno, però, non adesso, non in quel momento.
Adesso era eccitata, così come lo era anche lui e stavano andando incontro alla serata.
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