Beato te, Enrico!

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genere
etero

Beato te, Enrico

Non so se avete mai conosciuto uno di quei ragazzi brillanti e baciati dalla fortuna, di quelli che ti suscitano una sana e allegra invidia e non perché vengano da una famiglia ricca, ma perché sfoggiano in ogni situazione simpatia e fascino. Ebbene, nella nostra classe ce n’era uno di questi tipi rari: Enrico.
Alto, belloccio, elegante anche quando portava una semplice camicia infilata in un jeans, simpatico ai maschi e seducente per le femmine. Enrico aveva la risata contagiosa e composta e una forma di leggera autoironia che te lo faceva voler bene, sempre e comunque.
Lui non andava dietro le ragazze, ma si faceva venir dietro; “tanto” mi disse lui una volta, “a decidere sono sempre le donne, mai gli uomini.” Io gli invidiavo palesemente -e glielo dicevo spesso- questa leggerezza e questa allegria che caratterizzavano i suoi rapporti con il gentil sesso.

In quinta liceo avvenne un episodio particolarissimo, che posso narrare solo sommando i parziali racconti di chi, in classe, fu testimone, perché Enrico, da gran signore, ha sempre sorvolato sull’accaduto -tutte le volte che chiedevamo ragguagli su questa storia- sfoderando uno dei suoi sorrisi sornioni, che dicevano tutto e niente.
Dunque, il fatto è questo:

Avevamo una professoressa di Latino noiosissima, capace di far addormentare anche lo studente più volenteroso. Tanto noiosa, che la classe, nel mezzo della lezione, cadeva puntualmente in una specie di sonnolenta quiete, cullata dalla voce monotonale dell'insegnante.
Quel giorno, accanto a Enrico, in fondo all’aula, c’era C., una delle ragazze più carine della classe, che molti di noi consideravamo la più sexy: piccolina, mora, riccioluta, sinuosa come una donnola e con occhioni languidi che scatenavano i nostri più turpi pensieri. Era fidanzata con un figlio di papà e con noi faceva un po’ la schifiltosa e ci teneva un po’ a distanza.
Accanto ad Enrico, però, la ragazza si mostrava meno sulle sue: moine, sorrisini, sembrava anzi civettuola.
Pare sia accaduto, che una mano di Enrico scivolasse inavvertitamente dalla sedia della sua compagna di banco, fino a toccare il jeans in cui era inguainata. A quel tocco, lei spalancò gli occhioni, ma, la reazione stupita e imbarazzata di Enrico la fece sorridere e i due si misero a parlottare cordiali tra loro. Non sembrava contrariata per nulla, di quello che, fosse stato fatto da un altro, poteva sembrare un approccio maldestro, cosa di cui -e questo lo sapeva anche lei- Enrico non era assolutamente capace.
Parlottarono sottovoce per qualche minuto e lui dovette scorgere qualcosa negli occhi neri e vispi di lei: come se l’incidente avesse aperto un varco e che lei si aspettasse qualcosa. Per la mentalità di Enrico, se una donna sembrava, anche velatamente, chiedergli o offrirgli qualcosa, lui non se la sarebbe mai sentita di tirarsi indietro.

Enrico aveva le sue vie: lodò la stoffa del jeans -un vero Levi’s, non certo un’imitazione- e le fece ascoltare il rumore della sua unghia sulla stoffa blu. I due parlarono su quanto fosse particolare il suono di quel raschiare. E se la cosa, inizialmente, era partita come del tutto casuale, ora sembrava prendere un tono intenzionale e malizioso. Le unghie di Enrico continuarono a suonare e strimpellare come una specie di canzoncina sulla stoffa blu denim, ben stesa sulle chiappe della ragazza.
C. gli sorrideva, dapprima divertita, poi il giochetto evolse ulteriormente in una deriva languida che lei neanche si aspettava, ma probabilmente sperava. Inarcò la schiena, la maglietta si alzò un poco ed Enrico poté ammirare l’incavo tra le chiappe della ragazza. A quella vista, fece una faccia meravigliata e buffa, che fece sorridere lei ed Enrico, in un attimo, ebbe la certezza di poter osare: infilò la mano nell’incavo, solleticando la pelle sotto jeans e mutandina, per poi andare giù, forzando con graduale progressione il pantalone attillato. Lei sgranò gli occhi, ma rimase nella stessa posizione, con la schiena inarcata e il sedere in fuori. Si guardarono negli occhi e sembrarono entrambi trattenere il respiro. La classe sonnecchiava e la scena, in quel momento, veniva vista solo da coloro che, nel fondo della classe, erano abituati a tenere la loro presenza in ombra, per evitare il pericolo delle interrogazioni. Gente silenziosa e omertosa, che fece naturalmente finta di niente e si godette lo spettacolo.

Enrico continuò con impegno: con la mano seguì il solco ma, essendo il pantalone strettissimo, dovette lavorare non sulla passera -dove non poteva arrivare- ma sul bottoncino che, in quel percorso, incontrò prima e che sentiva già fremere. Queste deduzioni, naturalmente, sono mie e sono il compendio delle memorie degli spettatori, tutti osservatori attenti e interessati. Tutti mentalmente presero nota, di un così eccezionale spettacolo per quell'austero contesto, e le loro testimonianze risultarono alle mie orecchie come incredibilmente dettagliate e piuttosto coincidenti tra loro.

Enrico tirò fuori la mano per un attimo, si umettò due dita e mentre C. rimaneva inarcata come una ballerina di flamenco, ripeté l’operazione. Questa volta, sul bottoncino, dovette premere per poi affondare, perché la sua compagna di banco fece un movimento con i fianchi, come di assestamento. Da quel momento i due cominciarono a guardarsi come se volessero mangiarsi, mentre lei assecondava con la schiena il movimento insinuante del braccio di lui.
Gli osservatori -ripeto, attentissimi- capirono che almeno due dita erano entrate e a C. sembravano essere piaciute.
Qualcuno di loro notò la mano destra di lei toccarsi nel mezzo delle proprie cosce, mentre la sinistra cominciava ad esplorare nel mezzo delle gambe di lui.
Andò avanti per il tempo di un’intera spiegazione di un’ode di Orazio, fino a quando la ragazza ebbe un fremito e sembrò mordersi le labbra a sangue. Poi aprì la bocca per respirare, come dopo una lunga apnea in mare.
Qualcuno vide saettare, per un attimo, la sua linguetta rosea tra le labbra.

Enrico le fece uno strano segno, che lei evidentemente colse, tuffandosi sotto il banco, alla ricerca forse di una penna o di una gomma. Ma la poverina dovette perdere di vista gli oggetti caduti, perché lei, che sembrava tanto neghittosa, cominciò a mettere la testa sopra la patta dei pantaloni di Enrico, scuotendo la chioma ricciuta in un impercettibile su e giù.
Enrico aveva un’espressione rapita, ma non era per la maestria poetica di Orazio, bensì per quella che stava dimostrando C. nel fargli un pompino.
Quando la cosa finì, si avvertì un trambusto e la solerte Prof riprese severamente degli alunni innocenti, che, seduti in tutt’altra zona, erano forse gli unici ad aver seguito la lezione. Nel mentre, Enrico e C. si guardavano negli occhi come gatti in amore.


Enrico non scucì una parola, eccetto l’ammissione che “effettivamente fu un gran pompino”, fatta solamente quando, molto tempo dopo, finì messo alle strette da diversi di noi riguardo l’episodio.
Mi ricordo che non gli dissi assolutamente niente, ma ero veramente ammirato dalle sue capacità e pensavo solo:
“Beato te, Enrico!”
di
scritto il
2022-10-07
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