La stanza rossa
di
Omeros
genere
etero
La signora Vittoria prese un caffè allo Zucca, camminò per la Galleria per poi spuntare davanti alla Scala. Non stava passeggiando, ma camminava decisa, fiera, elegante, e chiusa nel suo cappotto di sartoria, col bavero un po’ su, perché l’aria, quella mattina a Milano, era decisamente fredda. Le persone, in Galleria, si voltavano a vedere questa giovane signora di una bellezza altera, di una eleganza raffinata e severa.
Lei rallentò il passo, una volta arrivata a Brera, per dare un’occhiata a qualche vetrina che le andava a genio, poi guardò l’orologino da polso e valutò che aveva solo dieci minuti prima dell’appuntamento. Lasciò dunque perdere le vetrine e continuò il cammino accelerando il passo. Entrò nell’ufficio notarile in perfetto orario, diede il cappotto alla signorina da cui fu fatta accomodare nella sala riunioni, dove sarebbe stato stilato l’atto.
La procedura fu noiosa, come al solito, e lei annuiva scocciata e altera al salmodiare del vecchio notaio. Era il quinto appartamento che vendeva, del vecchio stabile in zona Ticinese, quello che la nonna Luisina le aveva lasciato come unica erede. Li stava vendendo tutti, in fretta, da quando aveva saputo la storiaccia.
Erano tre mesi, che aveva saputo cosa faceva, ai tempi, la Nonna, la bella Luisina che tutti ricordavano con un sorrisino ammiccante, i parenti anziani, tutti borghesi ricchi e potenti della Milano bene da più generazioni, solidi e per niente bacchettoni. Il sorrisino però lo tiravano fuori, ogni tanto, e lei ragazzina non capiva cos’era quella punta di sarcasmo sulle labbra, quell’espressione che a lei dava così fastidio. La Nonna era sbrigativa, certe volte anche brusca, però le voleva bene e anche Vittoria voleva bene a lei. Ricordava i pianti, che aveva versato alla sua morte, l’anno prima, tanto da dimenticare che lei, la “povera Luisina” le aveva lasciato, oltre che un importante tesoretto in ori, un palazzo intero. Questo, all’epoca della sua costruzione, era popolare e di periferia, mentre già dagli anni Ottanta era diventato “vecchia Milano” e richiesto da architetti, pubblicitari e gente della moda. Vittoria era già ricca, ma fu una bella sorpresa conoscere il valore di quell’immobile di quaranta appartamenti, tutti in affitto, anche perché, nei primi anni Novanta, il suo valore era cresciuto ulteriormente.
Conosciuto però il lavoro della Luisina, ovvero quello di puttana, Vittoria volle a tutti costi vendere, e vendere tutto lo stabile, senza se e senza ma. Aveva sfrattato gli inquilini che non volevano, o non potevano, diventare proprietari e messo in vendita l’intero immobile, negozi compresi. Grazie ai suoi temibili avvocati, tutta l’operazione si stava svolgendo velocissimamente.
Quel giorno, per quanto non le facesse per niente piacere, avrebbe fatto una visita nel palazzo, perché il geometra Vitolo voleva farle vedere il vecchio appartamentino “segreto” della Nonna, quello dove si nascondeva quando litigava col Nonno. Il Geometra aveva bisogno di lei, perché controllasse i beni che vi avevano trovato, ad un anno dalla morte della Luisina. Maledicendo la Nonna e il geometra Vitolo, Vittoria si fece forza e andò, alle quattro del pomeriggio e arrivò, come suo solito, puntualissima.
“Puttana, cosa da non credere ancor oggi, anche dopo tre mesi che sono venuta a saperlo. Avevo una nonna puttana, che si è fatta scopare da quasi mezza Milano. Il puttaniere del Nonno la volle sposare per far dispetto a tutto il parentado e ci fece anche una figlia, che però mandò a scuola dalle Orsoline. Se non era bislacco anche lui, il grand’uomo! Che le comprò anche l’intero palazzo dove lei abitava, lo stesso dove faceva anche le marchette. La sposò, la portò in pompa magna nel palazzo di Corso Magenta, ma in Ticinese, tra la plebaglia che ancora ci viveva, lei tornava e nemmeno tanto di nascosto. L’appartamento che visiterò ora, io non l’ho mai visto e spero solo di venderlo presto. Voglio anzi che tutta questa proprietà e la sua storia siano cancellate dalla mia memoria e dai miei registri, non voglio che il mio nome sia legato a queste turpitudini da bordello.” Così pensava Vittoria, altera e tremendamente stizzita.
“Venga Signora Vittoria, venga! Mi spiace che il palazzo non abbia l’ascensore, ma, sa com’è: questa era la classica edilizia popolare, la casa di ringhiera per eccellenza, tipica da noi a Milano.” Esordì il Geometra, volendo fare anche il simpatico.
“Noi a Milano! Ma senti questo… Si vede e si sente che sei terrone, anche se ti sei dato una spolverata, caro mio!” Pensava Vittoria, salendo le scale senza accusare nessuna fatica, grazie all’ottima forma fisica.
Entrarono nell’appartamento e Vittoria dovette ammettere che aveva il suo fascino, con i mobili ancora degli anni Trenta e Quaranta, i quadri, tutto perfettamente intatto. Lo pensò, ma non lo disse, restando muta e impegnata a curiosare per le stanze, che erano tante. Il Geometra, mentre giravano, le andava dietro, spiegando cose che a lei non interessavano, come le pulizie che venivano puntualmente eseguite, che era stato fatto l’elenco dei beni di valore e altre quisquiglie.
“Ecco, vorrei farle vedere qui…” disse Vitolo a un certo punto e armeggiò sull’unica porta chiusa a chiave.
Una stanza piuttosto ampia, al centro dell’appartamento: pentagonale, con una sola porticina e senza finestre, con sul soffitto uno strano condotto di aerazione, addirittura in ottone, con pareti ricoperte da velluti rossi che foderavano anche il soffitto, un letto, due strani divani e una poltrona che sembrava progettata da un alieno, seppure in legno e velluto.
“Ma che roba è?!” scappò detto a Vittoria mentre indicava le pareti rosse.
“Beh… la stanza risulta insonorizzata, con metodi antiquati, ma piuttosto efficaci. Se mi chiudessi qui dentro e urlassi a squarciagola, lei, anche appena qui fuori, non udrebbe niente, sa?
Vittoria era allibita: “…e questi mobili, così… strani?”
“Sono mobili… come dire… da bordello -mi perdoni il termine- molto rari e di grandissimo pregio. La moda di questi “oggetti d’arte” nacque a Parigi, nell’Ottocento, nelle case di tolleranza frequentate dall’alta aristocrazia europea e, qui a Milano, questi pezzi, sono veramente una scoperta unica.” Poi si interruppe, un po’ imbarazzato, “ho dovuto fare una ricerca, prima non ne conoscevo neanche l’esistenza. Ma le garantisco che in qualche casa d’aste, a Londra o a New York, potrebbe venderli a cifre folli…”
Vittoria era ferma e rigida, scocciata e nervosa per tutte quelle folli zozzerie di quella nonna, vergogna imposta alla famiglia da un nonno sadicamente eccentrico e burlone.
“Guardi Signora, guardi queste scatoline in argento su questo mobiletto… sono ninnoli preziosi…”
Vittoria avrebbe voluto farlo tacere, quell’ottuso geometra, ma stizzita, prese una scatolina e se l’avvicinò agli occhi per guardarla meglio. Era molto bella, in argento finemente cesellato: un oggetto raffinato, da tenere, “non fosse stato di quella sgualdrina,” pensò…
Nel mentre teneva l’oggetto in mano, questo si aprì e, una nuvola di quella che sembrava cipria le coprì la mano e il viso. Aveva un odore pungente, speziato, molto particolare. Vitolo volle spolverare la mano e il cappotto della signora. Eseguì l’operazione assai maldestramente, con la propria sciarpa, con il risultato che quella polvere si diffuse maggiormente in una nuvola bianca. Entrambi iniziarono a starnutire e si dovettero sedere su uno di quei divani dalla forma a dir poco assurda.
Vittoria non riusciva a togliersi quell’odore dal suo nasetto diafano e affilato, sentiva la testa ondeggiare e il cuore battere forte. Che diavolo le stava succedendo. Cominciò a guardare il Geometra con occhi strani e si vide fissata dagli occhi di lui, che sembrava aver perso l’aria ossequiosa che sempre aveva avuto nei suoi confronti, occhi che sembravano carboni ardenti, tanto erano scuri e scintillanti. Cominciò a guardare Vitolo diversamente, ne sentiva l’odore acre, ne avvertiva la crescente eccitazione e anche lei era… mio dio… eccitata. Sentiva un languore in tutto il corpo, un calore prenderla tra le cosce, sentiva i suoi capezzoli ergersi e indurirsi.
Vitolo si tolse cappotto, giacca e camicia, facendo vedere il torace villoso e scuro.
“Mmmm bestia di un terrone… vieni da me…” gli disse languida Vittoria, che nel mentre si stava spogliando di tutto, fino a rimanere con la sola biancheria intima di pizzo nero.
Vitolo si tolse i pantaloni, le mutande con l’elastico allentato, bianche, da bancarella del mercato. Invece di schifarsi, Vittoria era esaltata da quella vista, folle di desiderio, e quando vide ergersi di fronte ai suoi occhi quella specie di cotechino che Vitolo dirigeva dritto sulla sua bocca, mugolò di piacere.
Non entrando nella sua boccuccia, Vittoria cominciò a baciarlo, toccarlo, leccarlo, a succhiare la punta di quella cappella enorme. Non aveva idea come avrebbe potuto, ma lo voleva, quel nerchione color nocciola: “lo voglio, lo voglio…” mugolava strusciandoselo addosso, ormai completamente nuda.
Vitolo era eccitato come un animale, sbavava anche, e palpava freneticamente le bianche carni sode della signora; le era ormai sopra, come un leone su una gazzella, affondando il suo testone ricciuto sopra il seno turgido, i fianchi lisci, le cosce tornite che ormai gli si offrivano spalancate. Leccò come un ossesso la bella vulva e quando la sentì più bagnata di un lago tentò di penetrarla con quel suo… coso.
Impresa ardua, con lei che lo implorava: “lo voglio, lo voglio!”
Vitolo si guardò in giro nella stanza, fino a quando non vide dei flaconcini leziosi, in vetro. Li agguantò e ne aprì uno, come guidato da un’ispirazione. Era un unguento a dir poco miracoloso: si unse il membro, la rosa preziosa della signora Vittoria e, finalmente, con soli dieci minuti di tentativi, riuscì a fare entrare la mastodontica cappella nel prezioso scrigno.
Dovette chiudere la porta, sicuro che l’insonorizzazione della stanza avrebbe retto anche quel test. Lui ruggiva, lei ululava, soprattutto quando il tronco fu spinto fino a quasi la metà della sua lunghezza.
Sperimentarono l’eccellente design dei divani, un miracolo di ergonomia erotica: Vittoria aveva le gambe spalancate, in alto, rette da levigate mensole in legno di noce, robuste e leggere. In piedi, il Geometra poteva variare la geometria tridimensionale dei suoi movimenti pelvici. Riuscì ad allargare la passera della Signora, iniziando così a scoparsela come mai si era scopato nessuna.
Vittoria, passato un primo momento doloroso tenuto a bada dalla voglia ferina che aveva in corpo, godeva come una Messalina. Si sentiva ingorda ogni oltre limite. Ebbe orgasmi violenti, ripetuti. Mentre il Geometra sembrava una vaporiera del secolo scorso, tanto si dimostrava instancabile stantuffatore.
Vittoria tentò nuovamente di prendere il nerchione in bocca, ma si dovette accontentare di succhiarne la punta. Si era messa ginocchioni sul divano e il Geometra mirava le curve e la perfetta geometria dei glutei, così allungò una sua zampa pelosa e, piano piano, la voltò di spalle. Le leccò quel tondo bendidio e si spinse a fondo con la lingua, sondando l’intimità più nascosta.
Portò la signora sull’altro divano, perché ebbe l’intuizione che la geometria di questo si prestasse meglio per lo scopo che aveva in mente. Vittoria si assestò su questo divanetto prodigioso, si sporse con le natiche ben fuori e mugolante si offrì, incurante del fatto che avrebbe potuto essere un vero martirio. Il Geometra regolò il divanetto, per avere la migliore delle posizioni. Baciò, leccò e riempì di unguento il culo più bello che avesse mai visto, lo stimolò e lo allargò con le dita, con l’intera mano e, infine, quando lo vide spalancato come mai aveva sperato, tentò di penetrarlo.
Il miracolo avvenne.
Andarono avanti per non si sa quanto tempo e la stanzina funzionò egregiamente, perché nessuno del palazzo chiamò la polizia o i pompieri, nonostante i continui ululati della signora.
Finirono a notte fonda ed uscirono finalmente dalla stanza rossa, stanchi e stravolti.
Nel salottino, Vittoria sbirciò Vitolo che si rivestiva; guardava il grosso bitorzolo raggrinzito, un’ormai flaccida proboscide elefantiaca, il petto peloso, la canottiera, la mutanda larga e slabbrata, rendendosi conto di quanto il Geometra avesse perso del tutto le attrattive che l’avevano fatta urlare di desiderio e piacere per delle ore.
Ebbe un dubbio e volle risolverlo: chiamò l’uomo e gli disse di entrare nuovamente con lei nella stanza rossa.
Entrati, la stanza li avvolse, con i suoi colori accesi e i suoi odori. Si guardarono negli occhi, e, dopo una pausa di qualche secondo, furono presi da un improvviso raptus passionale, ritrovandosi abbracciati in un nuovo torbido amplesso.
Vittoria non vendette il palazzo e l’appartamento della Nonna diventò il suo nascondiglio segreto, dove incontrare uomini: il Geometra, soprattutto, ma anche altri uomini, questi di solito conoscenze occasionali a cui donare spudoratamente le sue grazie.
Ogni tanto pensava a quando avrebbe voluto vendere il palazzo e allora scuoteva la testa, dicendosi: “però, la Nonna… proprio una gran puttana! Proprio come la gran baldracca di sua nipote…”
Lei rallentò il passo, una volta arrivata a Brera, per dare un’occhiata a qualche vetrina che le andava a genio, poi guardò l’orologino da polso e valutò che aveva solo dieci minuti prima dell’appuntamento. Lasciò dunque perdere le vetrine e continuò il cammino accelerando il passo. Entrò nell’ufficio notarile in perfetto orario, diede il cappotto alla signorina da cui fu fatta accomodare nella sala riunioni, dove sarebbe stato stilato l’atto.
La procedura fu noiosa, come al solito, e lei annuiva scocciata e altera al salmodiare del vecchio notaio. Era il quinto appartamento che vendeva, del vecchio stabile in zona Ticinese, quello che la nonna Luisina le aveva lasciato come unica erede. Li stava vendendo tutti, in fretta, da quando aveva saputo la storiaccia.
Erano tre mesi, che aveva saputo cosa faceva, ai tempi, la Nonna, la bella Luisina che tutti ricordavano con un sorrisino ammiccante, i parenti anziani, tutti borghesi ricchi e potenti della Milano bene da più generazioni, solidi e per niente bacchettoni. Il sorrisino però lo tiravano fuori, ogni tanto, e lei ragazzina non capiva cos’era quella punta di sarcasmo sulle labbra, quell’espressione che a lei dava così fastidio. La Nonna era sbrigativa, certe volte anche brusca, però le voleva bene e anche Vittoria voleva bene a lei. Ricordava i pianti, che aveva versato alla sua morte, l’anno prima, tanto da dimenticare che lei, la “povera Luisina” le aveva lasciato, oltre che un importante tesoretto in ori, un palazzo intero. Questo, all’epoca della sua costruzione, era popolare e di periferia, mentre già dagli anni Ottanta era diventato “vecchia Milano” e richiesto da architetti, pubblicitari e gente della moda. Vittoria era già ricca, ma fu una bella sorpresa conoscere il valore di quell’immobile di quaranta appartamenti, tutti in affitto, anche perché, nei primi anni Novanta, il suo valore era cresciuto ulteriormente.
Conosciuto però il lavoro della Luisina, ovvero quello di puttana, Vittoria volle a tutti costi vendere, e vendere tutto lo stabile, senza se e senza ma. Aveva sfrattato gli inquilini che non volevano, o non potevano, diventare proprietari e messo in vendita l’intero immobile, negozi compresi. Grazie ai suoi temibili avvocati, tutta l’operazione si stava svolgendo velocissimamente.
Quel giorno, per quanto non le facesse per niente piacere, avrebbe fatto una visita nel palazzo, perché il geometra Vitolo voleva farle vedere il vecchio appartamentino “segreto” della Nonna, quello dove si nascondeva quando litigava col Nonno. Il Geometra aveva bisogno di lei, perché controllasse i beni che vi avevano trovato, ad un anno dalla morte della Luisina. Maledicendo la Nonna e il geometra Vitolo, Vittoria si fece forza e andò, alle quattro del pomeriggio e arrivò, come suo solito, puntualissima.
“Puttana, cosa da non credere ancor oggi, anche dopo tre mesi che sono venuta a saperlo. Avevo una nonna puttana, che si è fatta scopare da quasi mezza Milano. Il puttaniere del Nonno la volle sposare per far dispetto a tutto il parentado e ci fece anche una figlia, che però mandò a scuola dalle Orsoline. Se non era bislacco anche lui, il grand’uomo! Che le comprò anche l’intero palazzo dove lei abitava, lo stesso dove faceva anche le marchette. La sposò, la portò in pompa magna nel palazzo di Corso Magenta, ma in Ticinese, tra la plebaglia che ancora ci viveva, lei tornava e nemmeno tanto di nascosto. L’appartamento che visiterò ora, io non l’ho mai visto e spero solo di venderlo presto. Voglio anzi che tutta questa proprietà e la sua storia siano cancellate dalla mia memoria e dai miei registri, non voglio che il mio nome sia legato a queste turpitudini da bordello.” Così pensava Vittoria, altera e tremendamente stizzita.
“Venga Signora Vittoria, venga! Mi spiace che il palazzo non abbia l’ascensore, ma, sa com’è: questa era la classica edilizia popolare, la casa di ringhiera per eccellenza, tipica da noi a Milano.” Esordì il Geometra, volendo fare anche il simpatico.
“Noi a Milano! Ma senti questo… Si vede e si sente che sei terrone, anche se ti sei dato una spolverata, caro mio!” Pensava Vittoria, salendo le scale senza accusare nessuna fatica, grazie all’ottima forma fisica.
Entrarono nell’appartamento e Vittoria dovette ammettere che aveva il suo fascino, con i mobili ancora degli anni Trenta e Quaranta, i quadri, tutto perfettamente intatto. Lo pensò, ma non lo disse, restando muta e impegnata a curiosare per le stanze, che erano tante. Il Geometra, mentre giravano, le andava dietro, spiegando cose che a lei non interessavano, come le pulizie che venivano puntualmente eseguite, che era stato fatto l’elenco dei beni di valore e altre quisquiglie.
“Ecco, vorrei farle vedere qui…” disse Vitolo a un certo punto e armeggiò sull’unica porta chiusa a chiave.
Una stanza piuttosto ampia, al centro dell’appartamento: pentagonale, con una sola porticina e senza finestre, con sul soffitto uno strano condotto di aerazione, addirittura in ottone, con pareti ricoperte da velluti rossi che foderavano anche il soffitto, un letto, due strani divani e una poltrona che sembrava progettata da un alieno, seppure in legno e velluto.
“Ma che roba è?!” scappò detto a Vittoria mentre indicava le pareti rosse.
“Beh… la stanza risulta insonorizzata, con metodi antiquati, ma piuttosto efficaci. Se mi chiudessi qui dentro e urlassi a squarciagola, lei, anche appena qui fuori, non udrebbe niente, sa?
Vittoria era allibita: “…e questi mobili, così… strani?”
“Sono mobili… come dire… da bordello -mi perdoni il termine- molto rari e di grandissimo pregio. La moda di questi “oggetti d’arte” nacque a Parigi, nell’Ottocento, nelle case di tolleranza frequentate dall’alta aristocrazia europea e, qui a Milano, questi pezzi, sono veramente una scoperta unica.” Poi si interruppe, un po’ imbarazzato, “ho dovuto fare una ricerca, prima non ne conoscevo neanche l’esistenza. Ma le garantisco che in qualche casa d’aste, a Londra o a New York, potrebbe venderli a cifre folli…”
Vittoria era ferma e rigida, scocciata e nervosa per tutte quelle folli zozzerie di quella nonna, vergogna imposta alla famiglia da un nonno sadicamente eccentrico e burlone.
“Guardi Signora, guardi queste scatoline in argento su questo mobiletto… sono ninnoli preziosi…”
Vittoria avrebbe voluto farlo tacere, quell’ottuso geometra, ma stizzita, prese una scatolina e se l’avvicinò agli occhi per guardarla meglio. Era molto bella, in argento finemente cesellato: un oggetto raffinato, da tenere, “non fosse stato di quella sgualdrina,” pensò…
Nel mentre teneva l’oggetto in mano, questo si aprì e, una nuvola di quella che sembrava cipria le coprì la mano e il viso. Aveva un odore pungente, speziato, molto particolare. Vitolo volle spolverare la mano e il cappotto della signora. Eseguì l’operazione assai maldestramente, con la propria sciarpa, con il risultato che quella polvere si diffuse maggiormente in una nuvola bianca. Entrambi iniziarono a starnutire e si dovettero sedere su uno di quei divani dalla forma a dir poco assurda.
Vittoria non riusciva a togliersi quell’odore dal suo nasetto diafano e affilato, sentiva la testa ondeggiare e il cuore battere forte. Che diavolo le stava succedendo. Cominciò a guardare il Geometra con occhi strani e si vide fissata dagli occhi di lui, che sembrava aver perso l’aria ossequiosa che sempre aveva avuto nei suoi confronti, occhi che sembravano carboni ardenti, tanto erano scuri e scintillanti. Cominciò a guardare Vitolo diversamente, ne sentiva l’odore acre, ne avvertiva la crescente eccitazione e anche lei era… mio dio… eccitata. Sentiva un languore in tutto il corpo, un calore prenderla tra le cosce, sentiva i suoi capezzoli ergersi e indurirsi.
Vitolo si tolse cappotto, giacca e camicia, facendo vedere il torace villoso e scuro.
“Mmmm bestia di un terrone… vieni da me…” gli disse languida Vittoria, che nel mentre si stava spogliando di tutto, fino a rimanere con la sola biancheria intima di pizzo nero.
Vitolo si tolse i pantaloni, le mutande con l’elastico allentato, bianche, da bancarella del mercato. Invece di schifarsi, Vittoria era esaltata da quella vista, folle di desiderio, e quando vide ergersi di fronte ai suoi occhi quella specie di cotechino che Vitolo dirigeva dritto sulla sua bocca, mugolò di piacere.
Non entrando nella sua boccuccia, Vittoria cominciò a baciarlo, toccarlo, leccarlo, a succhiare la punta di quella cappella enorme. Non aveva idea come avrebbe potuto, ma lo voleva, quel nerchione color nocciola: “lo voglio, lo voglio…” mugolava strusciandoselo addosso, ormai completamente nuda.
Vitolo era eccitato come un animale, sbavava anche, e palpava freneticamente le bianche carni sode della signora; le era ormai sopra, come un leone su una gazzella, affondando il suo testone ricciuto sopra il seno turgido, i fianchi lisci, le cosce tornite che ormai gli si offrivano spalancate. Leccò come un ossesso la bella vulva e quando la sentì più bagnata di un lago tentò di penetrarla con quel suo… coso.
Impresa ardua, con lei che lo implorava: “lo voglio, lo voglio!”
Vitolo si guardò in giro nella stanza, fino a quando non vide dei flaconcini leziosi, in vetro. Li agguantò e ne aprì uno, come guidato da un’ispirazione. Era un unguento a dir poco miracoloso: si unse il membro, la rosa preziosa della signora Vittoria e, finalmente, con soli dieci minuti di tentativi, riuscì a fare entrare la mastodontica cappella nel prezioso scrigno.
Dovette chiudere la porta, sicuro che l’insonorizzazione della stanza avrebbe retto anche quel test. Lui ruggiva, lei ululava, soprattutto quando il tronco fu spinto fino a quasi la metà della sua lunghezza.
Sperimentarono l’eccellente design dei divani, un miracolo di ergonomia erotica: Vittoria aveva le gambe spalancate, in alto, rette da levigate mensole in legno di noce, robuste e leggere. In piedi, il Geometra poteva variare la geometria tridimensionale dei suoi movimenti pelvici. Riuscì ad allargare la passera della Signora, iniziando così a scoparsela come mai si era scopato nessuna.
Vittoria, passato un primo momento doloroso tenuto a bada dalla voglia ferina che aveva in corpo, godeva come una Messalina. Si sentiva ingorda ogni oltre limite. Ebbe orgasmi violenti, ripetuti. Mentre il Geometra sembrava una vaporiera del secolo scorso, tanto si dimostrava instancabile stantuffatore.
Vittoria tentò nuovamente di prendere il nerchione in bocca, ma si dovette accontentare di succhiarne la punta. Si era messa ginocchioni sul divano e il Geometra mirava le curve e la perfetta geometria dei glutei, così allungò una sua zampa pelosa e, piano piano, la voltò di spalle. Le leccò quel tondo bendidio e si spinse a fondo con la lingua, sondando l’intimità più nascosta.
Portò la signora sull’altro divano, perché ebbe l’intuizione che la geometria di questo si prestasse meglio per lo scopo che aveva in mente. Vittoria si assestò su questo divanetto prodigioso, si sporse con le natiche ben fuori e mugolante si offrì, incurante del fatto che avrebbe potuto essere un vero martirio. Il Geometra regolò il divanetto, per avere la migliore delle posizioni. Baciò, leccò e riempì di unguento il culo più bello che avesse mai visto, lo stimolò e lo allargò con le dita, con l’intera mano e, infine, quando lo vide spalancato come mai aveva sperato, tentò di penetrarlo.
Il miracolo avvenne.
Andarono avanti per non si sa quanto tempo e la stanzina funzionò egregiamente, perché nessuno del palazzo chiamò la polizia o i pompieri, nonostante i continui ululati della signora.
Finirono a notte fonda ed uscirono finalmente dalla stanza rossa, stanchi e stravolti.
Nel salottino, Vittoria sbirciò Vitolo che si rivestiva; guardava il grosso bitorzolo raggrinzito, un’ormai flaccida proboscide elefantiaca, il petto peloso, la canottiera, la mutanda larga e slabbrata, rendendosi conto di quanto il Geometra avesse perso del tutto le attrattive che l’avevano fatta urlare di desiderio e piacere per delle ore.
Ebbe un dubbio e volle risolverlo: chiamò l’uomo e gli disse di entrare nuovamente con lei nella stanza rossa.
Entrati, la stanza li avvolse, con i suoi colori accesi e i suoi odori. Si guardarono negli occhi, e, dopo una pausa di qualche secondo, furono presi da un improvviso raptus passionale, ritrovandosi abbracciati in un nuovo torbido amplesso.
Vittoria non vendette il palazzo e l’appartamento della Nonna diventò il suo nascondiglio segreto, dove incontrare uomini: il Geometra, soprattutto, ma anche altri uomini, questi di solito conoscenze occasionali a cui donare spudoratamente le sue grazie.
Ogni tanto pensava a quando avrebbe voluto vendere il palazzo e allora scuoteva la testa, dicendosi: “però, la Nonna… proprio una gran puttana! Proprio come la gran baldracca di sua nipote…”
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