Ode al tavolo
di
RunningRiot
genere
etero
Il tavolo è l'eterogenesi dei fini di un falegname. Sì, lo so che con questo attacco mi sono persa nove lettori su dieci, ma è proprio così, se ci riflettete un attimo. Lui l'ha costruito affinché ci ceniate o ci facciate colazione, per farvici studiare o lavorare. Lo vende per questo ed è sempre per questo che voi lo comprate. Ma quando sottraete un tavolo alla sua naturale destinazione d'uso - o per meglio dire ne aggiungete un'altra - il tavolo diventa qualcosa di più di un oggetto indispensabile, diventa un amplificatore di sensazioni. Indispensabili anche quelle.
Il tavolo è una ragazza che ti sorride e che appoggiandoti le mani sul petto ti ci fa distendere, che si accoscia tra le tue gambe aperte e penzoloni.
Oppure un ragazzo che fa la stessa cosa - solo che la spinta è più energica - ma che molto più volentieri rimane in piedi e ti possiede. Oppure, anche più volentieri, anziché distenderti ti ci piega sopra. A meno che non ti volti – e io non sono una che si volta spesso – tu non vedi nulla di lui. Lui invece vede di te la sola cosa che in quel momento gli interessa. Sguardi e baci appassionati ci sono stati prima, forse, ma quella danza è finita: adesso sei sua, lo sai, lo vuoi.
È il mio modo preferito di usare un tavolo, e di questo parlerò. Non è “doggystyle”, è “a novanta”, non fate confusione. È uno dei miei fetish, è una cosa che fa parte del mio immaginario più lurido. Questione di imprinting, credo. Quante volte avevo scopato fino a quel momento? Quattro? Cinque? Di sicuro, l’ultima, da non più di mezzora. Sciacquata e appena rivestita, pronta per il bacetto dell’arrivederci. E invece no, la bocca dice “aspetta un attimo”, la mano dice “stai un po' giù”. Non ho mai saputo se l’abbia fatto per istinto o per internet, ma la prima volta avvertii un senso, come dire, di non-partecipazione. Sostanzialmente, dovevo starmene buona, subire e aspettare che concludesse. Certo, ci sono attese peggiori, ma di sicuro provai qualcosa di molto vicino alla delusione. Non ricordo se protestai. Tuttavia in maniera un po' confusa - com'è giusto che sia, agli esordi - per la prima volta oltre alla carne del maschio percepii anche il dominio del maschio. Una cosa che nemmeno nei pompini più concitati avevo sentito. La mano che spingeva la mia testa poteva essere molto rude, è vero, ma tranne rarissime eccezioni il pompino io l'ho sempre vissuto così: ti ho fatto vedere cosa so fare e chi comanda, adesso sfogati pure.
Quella volta invece ero stata soggiogata from the very start, e mi piacque. Non subito, ok, ma con il passare dei giorni diventò un'ossessione masturbatoria. Avere il mio ragazzo alle mie spalle che disponeva di me: l'idea mi mandava fuori come un balcone e il primo orgasmo provocato dagli affondi di un cazzo lo ebbi - non per caso, credo - a un paio di metri da quel tavolo. Alla pecorina sul divano. In seguito, il fatto di avere qualcuno alle spalle che non fosse più il mio ex diventò, da questo punto di vista, inessenziale: non disdegno gli altri, ma quello è il modo in cui mi piace di più.
Il tavolo però ha qualcosa di diverso, proprio perché non è stato pensato per quello. Noto o ignoto che sia, il tavolo assorbe la mia passività, mi riconosce. Riconosce le mie mutandine alle caviglie o il perizoma che non ho messo, la gonna sollevata, i pantaloni afflosciati sul pavimento. Mi dice “non pensare più a niente”, mi dice “goditela”, mi dice “zoccola”.
Mi conosce, conosce i miei pensieri di quel momento: speriamo che ce l’abbia duro, speriamo che ci sappia fare, madonna quanto sono puttana. Sono stata la puttana di tanti, così. Ma anche adesso che la puttana la faccio per uno solo non è che cambi poi molto, vi assicuro. Il tavolo è sempre quello, l’attesa è sempre quella, il tempo si dilata e si scioglie dentro la tua voglia: ti supplico, fa’ qualcosa, sbrigati.
Il tavolo è il Bianconiglio. Quanto io sono Alice a chiappe nude, tanto lui è il mio alter ego che dice ciò che penso: “Presto, ho fretta, è già tardi”. Perché il punto è esattamente questo: puoi essere stata ribaltata sul lavandino di un cesso o sul cofano ancora caldo di una macchina, ma non è proprio la stessa cosa. Quelle sono scelte quasi obbligate, nel caso del tavolo no. Nella maggior parte dei casi, il tipo che è con te potrebbe portarti dovunque, dal letto al divano, al tappeto. Invece ti piega sul tavolo e ti si fa. È una cosa che comunica “urgenza”, che dice “ti voglio subito”, che dice “non posso aspettare” o, in altri momenti, “non c’è tanto tempo ma devo fotterti/devo essere fottuta”. E soprattutto ti dice che chi è con te vuole farlo con una certa foga, che non c'è spazio per baci, coccole, smancerie e preliminari: tu stai colando e a lui scoppia il cazzo e vuole solo infilarlo dentro di te senza tanti riguardi. È una cosa che oltre alla vagina mi manda in pappa il cervello. Non ci posso fare nulla, è praticamente sempre stato così. Il rispetto lo esigo quando sono in posizione eretta, semmai. Lì sopra sono stata e sono un buco, un’occasione da cogliere, un desiderio da sventrare. È semplicemente fantastico.
Il tavolo è la tentazione bagnata, è il pensiero che ti coglie ogni tanto, anche quando sei sola. L'oggetto delle tue voglie è variabile, il pensiero sempre lo stesso: “chissà come sarebbe se mi inchiodasse lì sopra”. Il fatto stesso di immaginarmi piegata in quel modo è capace di farmi venire la voglia di cambiare la parte inferiore del mio intimo, se non togliermela proprio.
Il tavolo ondeggia nel mio campo visivo, con me e sotto di me. Il tavolo è appiglio trovato o fallito, la sua durezza fa da contrappunto alla durezza che sento dentro, è appoggio per le mie mani. Mi dice "tanto tornerai" quando vengo tirata su per i capelli, accoglie quegli stessi capelli sparsi su di lui quando mi abbandono. Comprime le mie tette se una mano mi schiaccia giù, accarezza la mia guancia, si bagna della bava che mi cola dalla bocca durante la lagna che la penetrazione mi tira fuori, a volte si bagna delle mie lacrime. Subisce senza protestare gli schiaffi della mia mano aperta o chiusa a pugno, ogni tanto si vendica segnandomi le gambe con i suoi spigoli. Ascolta come un confessore richieste oscene e insulti, non si stupisce dei gemiti che emetto se vengo percossa sulle natiche, né delle urla belluine. Sa tutto dei miei "sì" e dei miei "no", sa tenere per sé suppliche e rivelazioni segretissime. Vede il seme maschile sporcarmi il sedere, la schiena, la chioma, apprezza la mia lingua che lo lava se ad essere sporcato è lui.
Il tavolo è l'alcova dove recupero il respiro aspettando di ritornare al mondo, la rianimazione dentro la quale spero di sentire lo sperma colare sul mio interno coscia, è il segretario che tiene la mia agenda e mi ricorda che, dopo, a me piace ripulire il cazzo con la bocca. È coccola ed è consolazione, custodisce i miei giudizi o condivide i suoi con me: questo è stato così così, questo è stato proprio bravo, questo è stato proprio stronzo; comunque sia, tu sei sempre la solita troia, non cambiare mai.
Grazie, sei sempre troppo buono.
Ma davvero voi sul tavolo ci mangiate, ci studiate, lavorate... e basta?
Il tavolo è una ragazza che ti sorride e che appoggiandoti le mani sul petto ti ci fa distendere, che si accoscia tra le tue gambe aperte e penzoloni.
Oppure un ragazzo che fa la stessa cosa - solo che la spinta è più energica - ma che molto più volentieri rimane in piedi e ti possiede. Oppure, anche più volentieri, anziché distenderti ti ci piega sopra. A meno che non ti volti – e io non sono una che si volta spesso – tu non vedi nulla di lui. Lui invece vede di te la sola cosa che in quel momento gli interessa. Sguardi e baci appassionati ci sono stati prima, forse, ma quella danza è finita: adesso sei sua, lo sai, lo vuoi.
È il mio modo preferito di usare un tavolo, e di questo parlerò. Non è “doggystyle”, è “a novanta”, non fate confusione. È uno dei miei fetish, è una cosa che fa parte del mio immaginario più lurido. Questione di imprinting, credo. Quante volte avevo scopato fino a quel momento? Quattro? Cinque? Di sicuro, l’ultima, da non più di mezzora. Sciacquata e appena rivestita, pronta per il bacetto dell’arrivederci. E invece no, la bocca dice “aspetta un attimo”, la mano dice “stai un po' giù”. Non ho mai saputo se l’abbia fatto per istinto o per internet, ma la prima volta avvertii un senso, come dire, di non-partecipazione. Sostanzialmente, dovevo starmene buona, subire e aspettare che concludesse. Certo, ci sono attese peggiori, ma di sicuro provai qualcosa di molto vicino alla delusione. Non ricordo se protestai. Tuttavia in maniera un po' confusa - com'è giusto che sia, agli esordi - per la prima volta oltre alla carne del maschio percepii anche il dominio del maschio. Una cosa che nemmeno nei pompini più concitati avevo sentito. La mano che spingeva la mia testa poteva essere molto rude, è vero, ma tranne rarissime eccezioni il pompino io l'ho sempre vissuto così: ti ho fatto vedere cosa so fare e chi comanda, adesso sfogati pure.
Quella volta invece ero stata soggiogata from the very start, e mi piacque. Non subito, ok, ma con il passare dei giorni diventò un'ossessione masturbatoria. Avere il mio ragazzo alle mie spalle che disponeva di me: l'idea mi mandava fuori come un balcone e il primo orgasmo provocato dagli affondi di un cazzo lo ebbi - non per caso, credo - a un paio di metri da quel tavolo. Alla pecorina sul divano. In seguito, il fatto di avere qualcuno alle spalle che non fosse più il mio ex diventò, da questo punto di vista, inessenziale: non disdegno gli altri, ma quello è il modo in cui mi piace di più.
Il tavolo però ha qualcosa di diverso, proprio perché non è stato pensato per quello. Noto o ignoto che sia, il tavolo assorbe la mia passività, mi riconosce. Riconosce le mie mutandine alle caviglie o il perizoma che non ho messo, la gonna sollevata, i pantaloni afflosciati sul pavimento. Mi dice “non pensare più a niente”, mi dice “goditela”, mi dice “zoccola”.
Mi conosce, conosce i miei pensieri di quel momento: speriamo che ce l’abbia duro, speriamo che ci sappia fare, madonna quanto sono puttana. Sono stata la puttana di tanti, così. Ma anche adesso che la puttana la faccio per uno solo non è che cambi poi molto, vi assicuro. Il tavolo è sempre quello, l’attesa è sempre quella, il tempo si dilata e si scioglie dentro la tua voglia: ti supplico, fa’ qualcosa, sbrigati.
Il tavolo è il Bianconiglio. Quanto io sono Alice a chiappe nude, tanto lui è il mio alter ego che dice ciò che penso: “Presto, ho fretta, è già tardi”. Perché il punto è esattamente questo: puoi essere stata ribaltata sul lavandino di un cesso o sul cofano ancora caldo di una macchina, ma non è proprio la stessa cosa. Quelle sono scelte quasi obbligate, nel caso del tavolo no. Nella maggior parte dei casi, il tipo che è con te potrebbe portarti dovunque, dal letto al divano, al tappeto. Invece ti piega sul tavolo e ti si fa. È una cosa che comunica “urgenza”, che dice “ti voglio subito”, che dice “non posso aspettare” o, in altri momenti, “non c’è tanto tempo ma devo fotterti/devo essere fottuta”. E soprattutto ti dice che chi è con te vuole farlo con una certa foga, che non c'è spazio per baci, coccole, smancerie e preliminari: tu stai colando e a lui scoppia il cazzo e vuole solo infilarlo dentro di te senza tanti riguardi. È una cosa che oltre alla vagina mi manda in pappa il cervello. Non ci posso fare nulla, è praticamente sempre stato così. Il rispetto lo esigo quando sono in posizione eretta, semmai. Lì sopra sono stata e sono un buco, un’occasione da cogliere, un desiderio da sventrare. È semplicemente fantastico.
Il tavolo è la tentazione bagnata, è il pensiero che ti coglie ogni tanto, anche quando sei sola. L'oggetto delle tue voglie è variabile, il pensiero sempre lo stesso: “chissà come sarebbe se mi inchiodasse lì sopra”. Il fatto stesso di immaginarmi piegata in quel modo è capace di farmi venire la voglia di cambiare la parte inferiore del mio intimo, se non togliermela proprio.
Il tavolo ondeggia nel mio campo visivo, con me e sotto di me. Il tavolo è appiglio trovato o fallito, la sua durezza fa da contrappunto alla durezza che sento dentro, è appoggio per le mie mani. Mi dice "tanto tornerai" quando vengo tirata su per i capelli, accoglie quegli stessi capelli sparsi su di lui quando mi abbandono. Comprime le mie tette se una mano mi schiaccia giù, accarezza la mia guancia, si bagna della bava che mi cola dalla bocca durante la lagna che la penetrazione mi tira fuori, a volte si bagna delle mie lacrime. Subisce senza protestare gli schiaffi della mia mano aperta o chiusa a pugno, ogni tanto si vendica segnandomi le gambe con i suoi spigoli. Ascolta come un confessore richieste oscene e insulti, non si stupisce dei gemiti che emetto se vengo percossa sulle natiche, né delle urla belluine. Sa tutto dei miei "sì" e dei miei "no", sa tenere per sé suppliche e rivelazioni segretissime. Vede il seme maschile sporcarmi il sedere, la schiena, la chioma, apprezza la mia lingua che lo lava se ad essere sporcato è lui.
Il tavolo è l'alcova dove recupero il respiro aspettando di ritornare al mondo, la rianimazione dentro la quale spero di sentire lo sperma colare sul mio interno coscia, è il segretario che tiene la mia agenda e mi ricorda che, dopo, a me piace ripulire il cazzo con la bocca. È coccola ed è consolazione, custodisce i miei giudizi o condivide i suoi con me: questo è stato così così, questo è stato proprio bravo, questo è stato proprio stronzo; comunque sia, tu sei sempre la solita troia, non cambiare mai.
Grazie, sei sempre troppo buono.
Ma davvero voi sul tavolo ci mangiate, ci studiate, lavorate... e basta?
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