Love game
di
Metrox
genere
dominazione
- Vorrei che tu sorridessi -
dicevo, mentre le strizzavo i capezzoli.
Ma lei si scusava sussurrando che non poteva sorridere perchè sentiva male, la mia stretta era troppo forte.
Lei ormai conosceva le parole che io volevo sentire e le sapeva dosare molto bene, anche durante quella breve ma acuta sofferenza. Il suo volto assumeva la sua tipica espressione dolorante, stringeva i denti, potevo notare le sua mascella irrigidirsi mentre le labbra tremavano un poco.
Allora lasciavo la mia presa, l'abbracciavo e le accarezzavo la schiena, le baciavo il collo e ripetevo
- Vorrei che tu sorridessi -
proprio nell'orecchio, e poi soffiavo leggermente dentro il padiglione. Quel leggero sibilo la faceva rabbrividire, poi uno scatto improvviso della testa, lo stesso che usava per scostare via i capelli dalla fronte.
Percorrevo i suoi fianchi con dolcezza e lei premeva le mani sulla mia nuca. Poi portava il mio viso sul suo, cercando la mia bocca, baciandomi e leccandomi le guance, il mento, e ancora le labbra.
Mi staccavo, la fissavo negli occhi finchè non vi leggevo chiaro il suo assenso.
- Vorrei che tu sorridessi -
le dicevo. Lei di nuovo rilasciava inerti lungo il corpo le braccia delicate, alzava il mento e si offriva a me totalmente. Io ero colui che riceveva, eravamo concavo e convesso, giorno e notte, bianco e nero, maschio e femmina, in un incastro perverso fatto di sfida e desiderio.
Allora riprendevo a stringere tra le dita i suoi capezzoli, scuri, turgidi. Li ruotavo tra il pollice e l'indice, li tiravo con piccoli strattoni alternati, e rivedevo la sua bocca tremare. Lei sbarrava gli occhi e, fissandomi, iniziava a gemere. Poco e piano, a cadenze regolari, qualche volta emettendo aria gonfiando le gote.
- Vorrei che tu sorridessi -
Lei non rispondeva, scuoteva appena il capo ed io capivo che era un no, che non poteva, non ancora, ed io aumentavo la stretta, molto lentamente, a lungo, fino a quando non la vedevo racchiudersi nelle spalle, incurvando la schiena, allargando le mani ma senza toccarmi, sussurrando in modo sconnesso ti prego ti prego ti prego.
Sapevo quando smettere.
Si prendeva i seni tra le mani e li palpava, li coccolava con cura, ed io, dietro di lei, spostavo i suoi capelli per morderle la nuca, posavo le labbra sulle sue spalle, godevo del contatto caldo col suo corpo.
Sfioravo con delicatezza le ascelle quando sollevava le braccia per trattenere in su i capelli e poi percorrevo la pelle in punta di dita, seguendo le strade più lunghe e tortuose, fino a raggiungere ancora il turgore dei capezzoli.
Riprendevo il gioco solo quando sentivo che era pronta.
- Vorrei che tu sorridessi -
dicevo mentre stringeva denti e pugni. Io fissavo le sue labbra in attesa della trasformazione, l'impercettibile segno agli angoli della bocca che dava inizio al sorriso.
E poi - finalmente - il crollo della soglia, l'effetto dirompente del contrasto tra il dolore nei suoi occhi e il distendersi delle labbra, il nostro traguardo raggiunto mentre m'incantavo a guardare il suo volto sorridente ed incurante che io stringessi sempre un poco di più.
dicevo, mentre le strizzavo i capezzoli.
Ma lei si scusava sussurrando che non poteva sorridere perchè sentiva male, la mia stretta era troppo forte.
Lei ormai conosceva le parole che io volevo sentire e le sapeva dosare molto bene, anche durante quella breve ma acuta sofferenza. Il suo volto assumeva la sua tipica espressione dolorante, stringeva i denti, potevo notare le sua mascella irrigidirsi mentre le labbra tremavano un poco.
Allora lasciavo la mia presa, l'abbracciavo e le accarezzavo la schiena, le baciavo il collo e ripetevo
- Vorrei che tu sorridessi -
proprio nell'orecchio, e poi soffiavo leggermente dentro il padiglione. Quel leggero sibilo la faceva rabbrividire, poi uno scatto improvviso della testa, lo stesso che usava per scostare via i capelli dalla fronte.
Percorrevo i suoi fianchi con dolcezza e lei premeva le mani sulla mia nuca. Poi portava il mio viso sul suo, cercando la mia bocca, baciandomi e leccandomi le guance, il mento, e ancora le labbra.
Mi staccavo, la fissavo negli occhi finchè non vi leggevo chiaro il suo assenso.
- Vorrei che tu sorridessi -
le dicevo. Lei di nuovo rilasciava inerti lungo il corpo le braccia delicate, alzava il mento e si offriva a me totalmente. Io ero colui che riceveva, eravamo concavo e convesso, giorno e notte, bianco e nero, maschio e femmina, in un incastro perverso fatto di sfida e desiderio.
Allora riprendevo a stringere tra le dita i suoi capezzoli, scuri, turgidi. Li ruotavo tra il pollice e l'indice, li tiravo con piccoli strattoni alternati, e rivedevo la sua bocca tremare. Lei sbarrava gli occhi e, fissandomi, iniziava a gemere. Poco e piano, a cadenze regolari, qualche volta emettendo aria gonfiando le gote.
- Vorrei che tu sorridessi -
Lei non rispondeva, scuoteva appena il capo ed io capivo che era un no, che non poteva, non ancora, ed io aumentavo la stretta, molto lentamente, a lungo, fino a quando non la vedevo racchiudersi nelle spalle, incurvando la schiena, allargando le mani ma senza toccarmi, sussurrando in modo sconnesso ti prego ti prego ti prego.
Sapevo quando smettere.
Si prendeva i seni tra le mani e li palpava, li coccolava con cura, ed io, dietro di lei, spostavo i suoi capelli per morderle la nuca, posavo le labbra sulle sue spalle, godevo del contatto caldo col suo corpo.
Sfioravo con delicatezza le ascelle quando sollevava le braccia per trattenere in su i capelli e poi percorrevo la pelle in punta di dita, seguendo le strade più lunghe e tortuose, fino a raggiungere ancora il turgore dei capezzoli.
Riprendevo il gioco solo quando sentivo che era pronta.
- Vorrei che tu sorridessi -
dicevo mentre stringeva denti e pugni. Io fissavo le sue labbra in attesa della trasformazione, l'impercettibile segno agli angoli della bocca che dava inizio al sorriso.
E poi - finalmente - il crollo della soglia, l'effetto dirompente del contrasto tra il dolore nei suoi occhi e il distendersi delle labbra, il nostro traguardo raggiunto mentre m'incantavo a guardare il suo volto sorridente ed incurante che io stringessi sempre un poco di più.
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