La Schiava (by J.C.)
di
Joe Cabot
genere
sadomaso
La sensazione più lucida che conservava, dopo che tutte le penetrazioni erano finite, era di vuoto. Quando i suoi padroni si sfilavano da lei, dopo averla usata lasciandogli il viso e le cosce lorde di sperma, lei sperava, per quanto sfinita dai loro assalti, che altri volessero subito servirsi della sua fica, del suo culo, della sua bocca, dell’intero suo corpo. Perché lei, anche dopo aver preso dentro di sé i cazzi di tre o anche più uomini, non aspettava che di essere ancora voluta, di essere di nuovo piegata.
La schiava aveva capito da tempo quale era il vero piacere, e la parola “libertà” che altri adoravano, per lei era senza senso, un’astrazione, una questione per persone frustrate, in lotta con la propria natura e capaci di chiamare questa lotta “libertà”.
Da Violet, con le altre ragazze, si mostrava sul bancone strusciandosi contro il palo ancora caldo della ragazza che aveva fatto altrettanto prima di lei. Sentiva su di sé gli occhi di quegli uomini, occhi che passavano da una all’altra in cerca di sé stessi, in cerca del proprio piacere. Una volta era riuscita a venire strusciandosi contro il palo, mentre un cliente la fissava. Era nuovo del giro ma non c’erano bisogno di presentazioni con lei, perché la schiava sapeva riconoscere i dettagli. Quell'uomo era vecchio e ciccione, uno schifo che aveva tanto potere, in denaro o politica non fa differenza, ma tanto potere che non gliene fregava proprio un cazzo del resto. Da uno così si sarebbe fatta fare qualunque cosa. Quell'uomo, che poteva avere chiunque, se ne era rimasto proprio lì, a guardarla mentre lei strusciava le tette e la fica contro il palo di ferro lucente che scendeva dal soffitto. Pensava di succhiarglielo mentre gli mostrava la lingua, di farsi chiavare mentre spingeva il culo in avanti fino a schiacciarsi il grilletto sul palo. Più tardi avrebbe pagato profumatamente per averla e questo pensiero l'aveva fatta venire. Ma a lei importava poco dei soldi.
Essere scelta, l’essere scelta. Quando i clienti passavano da una all’altra tastando seni e culi come al supermercato. Quando poi tra dieci schiave esposte sul massiccio bancone, qualcuno indicava lei, proprio lei.... Allora arrivava il Boia, il buttafuori chiamato così per il cappuccio di pelle nera che portava. Il Boia si faceva largo tra le ragazze che non erano state scelte menando fendenti con il suo frustino, poi prendeva la prescelta per il collare e la indicava all’uomo sollevandole il mento con il manico del frustino. Quello faceva un cenno con la testa, e da quel momento lo sconosciuto era il suo Padrone.
Le schiave esposte sul bancone erano legate da una sottile catena ai ganci posti sopra il palo o sul basso soffitto. Il Boia prendeva dalla propria cintura un mazzo di chiavi, apriva il lucchetto del collare della schiava e vi fissava un guinzaglio. Poi le ammanettava le mani dietro la schiena, e così preparata la conduceva lungo il bancone fino alla scala da cui si scendeva. Quindi consegnava il guinzaglio al padrone.
Alcune ragazze accettavano quel lavoro ponendo delle condizioni. Non essere frustate oltre una certa misura, o non essere prese da più uomini o cose legate alle feci, ma lei, la schiava, non avrebbe mai posto condizioni.
Capitava che nelle salette privèe il Padrone si portasse dietro la sua amante. La schiava non aveva alcuna tendenza lesbica (né altre tendenze in verità) ma queste signore che magari si coprivano gli occhi con maschere veneziane, che eccitavano i mariti vestendosi di cuoio e frustandola: oh com’erano stupide! Credevano in tal modo di legare a sé i propri uomini, ma intanto erano lei, la schiava, che pagavano per avere, e solo sulla schiava sapevano essere sinceri. Certo c’erano anche le donne veramente dominatrici, e queste erano per lei padroni e basta, odoravano di potenza come gli uomini, e godeva a soddisfarle come avrebbero fatto con qualsiasi altro padrone.
I padroni, solo lei li prendeva davvero. Odiava i corteggiatori, quelli che ti stuzzicano il clitoride per farti bagnare, così poi sperano di scoparti e se hanno coraggio ti chiedono pure un pompino per favore. Quanta falsità in tutto ciò, quanta viltà. Con lei no, dietro le tute di cuoio, le calze a rete sfondate, le catene ed i cazzi di gomma, lei e solo lei conosceva la verità. Le patetiche mogliettine cui il maritino sogna di fare il culo, le fidanzatine che se la tirano e non sanno che il loro principe azzurro gode a succhiare un vibratore appena uscito dal suo culo sfondato. Queste donne non avranno mai un uomo: solo cazzate, moralismo e romanticherie.
Nella saletta il padrone forse le avrebbe slegato le mani, forse l’avrebbe violentata così com’era, o prestata ai suoi amici per poi venirle in gola. Le frustate non la spaventavano, né essere sodomizzata, e sperava di avere sempre cazzi da succhiare, da mungere, da infilarsi. Era triste solo quando, dopo che aveva inghiottito tutto lo sperma del padrone, mentre ancora stava china fra le sue ginocchia a succhiare da brava schiava il suo cazzo ormai flaccido, sentiva che, ormai soddisfatto, il padrone le sfuggiva via.
La schiava aveva capito da tempo quale era il vero piacere, e la parola “libertà” che altri adoravano, per lei era senza senso, un’astrazione, una questione per persone frustrate, in lotta con la propria natura e capaci di chiamare questa lotta “libertà”.
Da Violet, con le altre ragazze, si mostrava sul bancone strusciandosi contro il palo ancora caldo della ragazza che aveva fatto altrettanto prima di lei. Sentiva su di sé gli occhi di quegli uomini, occhi che passavano da una all’altra in cerca di sé stessi, in cerca del proprio piacere. Una volta era riuscita a venire strusciandosi contro il palo, mentre un cliente la fissava. Era nuovo del giro ma non c’erano bisogno di presentazioni con lei, perché la schiava sapeva riconoscere i dettagli. Quell'uomo era vecchio e ciccione, uno schifo che aveva tanto potere, in denaro o politica non fa differenza, ma tanto potere che non gliene fregava proprio un cazzo del resto. Da uno così si sarebbe fatta fare qualunque cosa. Quell'uomo, che poteva avere chiunque, se ne era rimasto proprio lì, a guardarla mentre lei strusciava le tette e la fica contro il palo di ferro lucente che scendeva dal soffitto. Pensava di succhiarglielo mentre gli mostrava la lingua, di farsi chiavare mentre spingeva il culo in avanti fino a schiacciarsi il grilletto sul palo. Più tardi avrebbe pagato profumatamente per averla e questo pensiero l'aveva fatta venire. Ma a lei importava poco dei soldi.
Essere scelta, l’essere scelta. Quando i clienti passavano da una all’altra tastando seni e culi come al supermercato. Quando poi tra dieci schiave esposte sul massiccio bancone, qualcuno indicava lei, proprio lei.... Allora arrivava il Boia, il buttafuori chiamato così per il cappuccio di pelle nera che portava. Il Boia si faceva largo tra le ragazze che non erano state scelte menando fendenti con il suo frustino, poi prendeva la prescelta per il collare e la indicava all’uomo sollevandole il mento con il manico del frustino. Quello faceva un cenno con la testa, e da quel momento lo sconosciuto era il suo Padrone.
Le schiave esposte sul bancone erano legate da una sottile catena ai ganci posti sopra il palo o sul basso soffitto. Il Boia prendeva dalla propria cintura un mazzo di chiavi, apriva il lucchetto del collare della schiava e vi fissava un guinzaglio. Poi le ammanettava le mani dietro la schiena, e così preparata la conduceva lungo il bancone fino alla scala da cui si scendeva. Quindi consegnava il guinzaglio al padrone.
Alcune ragazze accettavano quel lavoro ponendo delle condizioni. Non essere frustate oltre una certa misura, o non essere prese da più uomini o cose legate alle feci, ma lei, la schiava, non avrebbe mai posto condizioni.
Capitava che nelle salette privèe il Padrone si portasse dietro la sua amante. La schiava non aveva alcuna tendenza lesbica (né altre tendenze in verità) ma queste signore che magari si coprivano gli occhi con maschere veneziane, che eccitavano i mariti vestendosi di cuoio e frustandola: oh com’erano stupide! Credevano in tal modo di legare a sé i propri uomini, ma intanto erano lei, la schiava, che pagavano per avere, e solo sulla schiava sapevano essere sinceri. Certo c’erano anche le donne veramente dominatrici, e queste erano per lei padroni e basta, odoravano di potenza come gli uomini, e godeva a soddisfarle come avrebbero fatto con qualsiasi altro padrone.
I padroni, solo lei li prendeva davvero. Odiava i corteggiatori, quelli che ti stuzzicano il clitoride per farti bagnare, così poi sperano di scoparti e se hanno coraggio ti chiedono pure un pompino per favore. Quanta falsità in tutto ciò, quanta viltà. Con lei no, dietro le tute di cuoio, le calze a rete sfondate, le catene ed i cazzi di gomma, lei e solo lei conosceva la verità. Le patetiche mogliettine cui il maritino sogna di fare il culo, le fidanzatine che se la tirano e non sanno che il loro principe azzurro gode a succhiare un vibratore appena uscito dal suo culo sfondato. Queste donne non avranno mai un uomo: solo cazzate, moralismo e romanticherie.
Nella saletta il padrone forse le avrebbe slegato le mani, forse l’avrebbe violentata così com’era, o prestata ai suoi amici per poi venirle in gola. Le frustate non la spaventavano, né essere sodomizzata, e sperava di avere sempre cazzi da succhiare, da mungere, da infilarsi. Era triste solo quando, dopo che aveva inghiottito tutto lo sperma del padrone, mentre ancora stava china fra le sue ginocchia a succhiare da brava schiava il suo cazzo ormai flaccido, sentiva che, ormai soddisfatto, il padrone le sfuggiva via.
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