L'amante dell'Orsa

di
genere
pulp

Era l'America, il paese delle strade che tagliano in due il deserto, il paese delle stazioni di servizio dove ogni tanto irrompe qualcuno e fa una strage, il paese dove un poliziotto zelante ti ferma per eccesso di velocità e ti conduce davanti a un giudice che ti impone di scegliere se dichiararti colpevole, anche se non lo sei, e pagare una multa di centinaia di dollari, o dichiararti innocente e restare in galera in attesa del processo, salvo pagare una cauzione superiore alla multa.
Entrai nel bar e il padrone mi squadrò da capo a piedi. Ordinai un caffè e chiesi a che ora sarebbe passato l'autobus per Yuba City. Mi rispose che era già passato da mezz'ora e che per quel giorno non ne sarebbero venuti altri. La televisione accesa dava le solite notizie sullo scontro tra presidente e opposizione su qualche legge importante, sul ritrovamento dell'ennesimo cadavere di una donna assassinata e orribilmente mutilata, sui risultati dell'NBA. Mentre sorseggiavo lo schifosissimo caffè che mi avevano propinato, vidi nello specchio dietro il bancone una signora seduta a un tavolino che mi fissava. Stava mangiando un'enorme fetta di torta che andava a rimpinguare un corpo già imponente. Era la tipica donna americana di mezza età, sovrappeso e mal vestita, divorziata o vedova di qualche povero cristo che aveva lavorato dodici ore al giorno per trent'anni, accumulando soldi che poi erano finiti quasi tutti alla moglie in virtù dell'inevitabile infarto che lo aveva tolto di mezzo o di una separazione che gli era costata anche le scarpe.
Finii di bere quella brodaglia e uscii dal locale. Rimasi a guardarmi attorno e mi accorsi che la donna era uscita dietro di me.
"Io vado a Yuba City", mi disse, "posso darti un passaggio, se vuoi."
Volevo. Prendemmo posto sulla sua auto bianca, un mezzo catorcio, e ci avviammo.
"E' meglio non viaggiare soli con quel maniaco in giro", disse, cercando di iniziare una conversazione che non incoraggiai molto. Mi guardò a lungo e mi chiese quanti anni avessi. Me ne diedi un paio in più e non so se la convinsi.
"Siamo scappati di casa, eh? Problemi con papà e mamma? Io non ho avuto figli, non so se mi dispiace ma se ne hai il minimo che puoi fare è crescerli bene. I tuoi non ti hanno cresciuto bene?"
"Benissimo, non mi è mai mancato nulla."
"Allora qual'è il problema?"
"Infatti, non c'è nessun problema."
Non si lasciò scoraggiare. Mi raccontò che aveva fatto l'insegnante di storia antica ma poi, dopo la morte del marito, aveva mollato tutto per proseguire i suoi studi solo per diletto. Facile, pensai, quando ti ritrovi un mucchio di soldi da spendere senza averli guadagnati. Stava scrivendo un libro sul mito di Callisto. Lo conoscevo? Ammisi la mia ignoranza.
Callisto, mi spiegò, era una ninfa ancella di Artemide, la dea cacciatrice e vergine, e per questo anche le sue ninfe erano tenute alla castità. Callisto era bellissima e Zeus si innamorò di lei; il padre degli dei per sedurla decise di assumere le sembianze della stessa Artemide. La povera Callisto, vergine e ingenua, non sospettò nulla e accolse docile gli approcci di quella che credeva la sua padrona. Come fece Zeus a possederla, senza svelare la sua natura di maschio? Fatto sta che dopo qualche tempo Artemide, insieme a Callisto e al suo seguito, decise, dopo una battuta di caccia di riposarsi facendo un bagno presso una fonte. Callisto, oramai incinta, sulle prime esitò a spogliarsi per non svelare la perdita della verginità. Sfilatale la veste, la dea scoprì il tradimento e sfogò la sua ira trasformandola in un'orsa ma secondo un'altra versione fu lo stesso Zeus a trasformarla per sottrarla alla vendetta della gelosissima Era. Una terza versione vuole che Era riuscì a convincere Artemide ad uccidere la ninfa con una freccia. Dopo la morte Zeus trasformò Callisto nella costellazione dell'Orsa Maggiore. Un'altra versione della morte della ninfa coinvolge il figlio Arcade, nato dall'unione con Zeus. Questo, oramai quindicenne, s'imbatté nel corso di una battuta di caccia nell'orsa e, proprio quando stava per ucciderla, intervenne il padre degli dei, trasformando madre e figlio nelle costellazioni dell'Orsa Maggiore e dell'Orsa Minore. Era, ancora adirata, ottenne dal dio Oceano che le nuove costellazioni non potessero mai tramontare.
"Il mio libro", spiegò, "ha come tema principale il fatto che quello di Callisto è uno dei rari miti greci che presenti un rapporto sessuale fra due donne. E' probabile che all'origine del mito vi sia un antichissimo rito sessuale d'iniziazione indo-europeo che aveva lo scopo di trasmettere la fertilità da una donna adulta a una bambina, facendo "morire" misticamente la bambina, dopo un periodo dedicato all'insegnamento della caccia, e facendola rinascere come ragazza ormai in età fertile consacrata alla divinità. Il mito originale parte dunque da un rito d'iniziazione, nel corso del quale la vergine bambina si ritira in un luogo selvaggio, adatto alla caccia, in compagnia di altre aspiranti (le ninfe del mito) e riceve un'iniziazione sessuale da parte di Artemide (cioè, nella realtà, da parte di un'adulta già iniziata che impersona la dea). In questo rito sessuale l'adulta/Artemide rende feconda, vale a dire adulta la bambina/Callisto: nella versione del mito che ci è arrivata la feconda addirittura personalmente! La fecondità si trasmette in questo modo da donna a donna e di generazione in generazione. Alla fine di questo rito sessuale la bambina non solo non può più rimanere fra le ninfe/bambine, ma addirittura non esiste più: è morta in quanto bambina; si è trasformata in un'Orsa, nella "Bellissima" (kallisté in greco), cioè in Artemide. Ti annoio ?"
Risposi di no. Tanto valeva darle corda.
"Io ho assistito a uno di questi riti, in chiave moderna, si intende. Nel college dove insegnavo c'era un'associazione femminile chiamata Congrega dell'Orsa, ispirata al mito di Callisto. Le ragazze del primo anno erano sottoposte a un rito d'iniziazione da parte di quelle dell'ultimo anno, ognuna di loro veniva condotta in un separè dove sottostava per alcuni minuti alla volontà della ragazza più grande. Cosa avvenisse davvero in quei camerini lo sapevano solo le dirette interessate."
Si stava facendo buio. Volevo che ci fermassimo a mangiare qualcosa? Volevo.
Decisi di essere più socievole. Non ricordo bene che storia inventai, non so se mi credette e nemmeno mi importava. Avevo capito fin dall'inizio, mentre mi guardava nel bar, cosa voleva da me. Finito il pasto mi pose una mano sulle mie e mi chiese se volevo andare in un motel. Volevo. Ci arrivammo dopo pochi minuti.
Era l'America, il paese delle grandi distanze intervallate dai motel che aspettano gli stanchi automobilisti, quei motel resi famosi dal cinema e dai romanzi, da Norman Bates che spiava le sue clienti mentre si spogliavano e le accoltellava sotto la doccia e da Humbert Humbert che in squallide stanze sfogava la sua passione per quella scemetta della figliastra. Alla reception la sentii che diceva di essere mia madre.
Entrammo nella stanza, lei accese una lampada che mandava una luce fioca. Sentii le sue mani su di me, il suo fiato sul collo. Mi accarezzò fra le gambe, poi mi trasse a sé e mi infilò la lingua in bocca. Volle spogliarmi lei, pezzo per pezzo, alla fine rimase quasi in estatica ammirazione del mio corpo nudo. Quando mai le si sarebbe ripresentata l'occasione di godere di un corpo così? La mia docilità aumentava la sua voglia. Si spogliò anche lei e vidi il suo corpo disgustoso da cinquantenne grassa, in cui solo i seni erano rimasti sodi e giovanili. I capezzoli le si erano induriti, segno evidente dell'eccitazione che provava, e prese una mia mano per farsi stimolare la vagina dove un mostruoso clitoride, quasi un piccolo pene, sembrava agitarsi. Vinsi il senso di schifo che provavo e la masturbai, come lei voleva. Intanto continuava a baciarmi e quella sua viscida lingua in bocca mi provocava quasi il vomito. La dovetti sentire su tutto il mio corpo, volle persino penetrarmi dietro con quell'appendice salivosa che mi lasciava scie bagnate. Pensai che ci sarebbero volute dieci docce per togliermi lo sporco di quella bava ma la lasciavo fare, che credesse pure di avere trovato il giocattolo ideale. Alla fine mi imprigionò, le mie gambe fra le sue, e cominciò a gemere e io avrei voluto che fossero gemiti di sofferenza. Si lamentava sempre di più, i movimenti spasmodici, i lamenti trasformati in rantoli. Ricordai, e questo aumentò il mio schifo, che si era spacciata per mia madre e mi chiesi se quella finzione contribuisse ad aumentare il suo piacere. Un ultimo orrendo rantolo, mentre gli occhi erano chiusi, le labbra ritratte, il volto contratto in una smorfia, e poi un fiotto inesauribile di orgasmo uscì da lei, bagnò il suo enorme clitoride, si riversò su di me. Non mi fu risparmiato un ultimo disgustoso sviluppo: dopo l'orgasmo si era lasciata ricadere sul letto ma dal corpo ora rilasciato uscì un fragoroso peto che rimbombò come un colpo di pistola. Mi divincolai, corsi in bagno e per dieci minuti restai sotto l'acqua calda per purificarmi. Sapevo che non avrei sopportato un nuovo rapporto con quell'orsa e mi preparai a darle un colpo in testa se mi avesse messo di nuovo le mani addosso. Non ce ne fu bisogno perché la trovai addormentata e russante. Per fortuna nella stanza c'era un divano e vi trascorsi la notte.
Il mattino seguente mi chiese se volevo andare a stare con lei, abitava in una cittadina non lontana da Yuba City. Volevo. Desiderava tenermi con lei per sempre, ora che mi aveva trovato non intendeva perdermi. Povera troia!
Era ancora molto presto quando partimmo dal motel. Era una bella giornata di sole, lei era felice e mi accarezzava le gambe mentre guidava. Era l'America dove tra una casa e l'altra ci sono miglia di distanza, dove puoi guidare per mezz'ora e incrociare forse un paio di auto. Passammo vicino a un bellissimo prato, un posto isolato, sembrava che al mondo, dopo una catastrofe atomica non ci fossimo che noi. Le chiesi se voleva fare l'amore lì, in quel posto sperduto, senza che nessuno ci vedesse. Voleva, ah, se lo voleva. Scendemmo dall'auto e lei era felice come una bambina, già si abbassava i pantaloni e le mutande e mi chiedeva di baciarla lì. Le risposi che preferivo cominciare a baciarla dietro, come aveva fatto lei con me il giorno prima e allora si voltò, si chinò, mi porse il suo enorme culo. Stringevo in mano la chiave inglese che avevo visto fin dall'inizio sul sedile posteriore, ignorai l'offerta anale e la colpii con tutta la forza sulla testa. Sentii un rumore di ossa spezzate e continuai a colpire, non so quante volte, forse sette, otto. Mentre la colpivo le spiegavo, ma non credo capisse molto di quello che dicevo, che il mito di Callisto può avere una conclusione diversa, che la ninfa può ribellarsi all'abbraccio della dea, che forse non era Zeus a fingersi Artemide per sverginarla ma forse era Artemide stessa che fingeva di essere Zeus per sedurre la sua preferita. E il rito di iniziazione poteva anche concludersi con la fanciulla che uccideva la donna-orsa. Era ormai morta ma continuai a colpirla per sfigurarle il viso, poi con un temperino le tagliai il mostruoso clitoride e lo lanciai lontano, ridendo. Trascinai il corpo in un fossato, non fu facile visto che pesava molto. Nell'auto c'era un kit di pronto soccorso e vi trovai una boccetta di alcool, gliene gettai il contenuto sui vestiti, accesi un ramoscello con il suo accendino e diedi fuoco al cadavere. Presi l'auto e guidai per quasi tutto il giorno. La lasciai nel parcheggio di un supermercato dove non vidi telecamere. Portai via la borsa della donna e tutti i suoi documenti ed effetti personali. Via via buttai tutto nei bidoni della spazzatura, distrussi le sue carte di credito, mi presi solo i contanti, circa cinquecento dollari, e me ne andai a dormire in un buco qualsiasi.
La mattina dopo entrai in un bar e ordinai la colazione. Il ragazzo al banco era carino e gli sorrisi, cosa che gli garbò molto perché mi regalò una fetta di dolce. La tivù dava la notizia del ritrovamento di un altro cadavere di donna orrendamente sfigurata e mutilata. Doveva essere la ragazza della California che mi aveva dato un passaggio la settimana prima, una stupida che mi aveva riempito la testa di discorsi sul riscaldamento globale, l'inquinamento del pianeta e il cibo vegano. Uscii dal bar salutando il ragazzo, sapendo che purtroppo non potevo trattenermi da quelle parti per rivederlo.
Non sapevo cosa fare o dove andare.
Avevo tutta l'America a disposizione.

scritto il
2018-01-28
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