Un metro 6 - Un grosso errore

di
genere
etero

Non dovevo farlo, è stato un errore. Dovevo filare a casa. Perché una birra piccola ne tira un’altra media. A stomaco vuoto. E non sarebbe nemmeno tutto sto disastro, perché io l’alcol lo reggo abbastanza. Al massimo sarei tornata a casa un po’ più allegra.

Invece adesso, sedendomi, mi è crollata addosso tutta la stanchezza della notte passata con Lapo e Serena (e della mattina) e del pomeriggio in giro con Giampaolo. Per non parlare della scopata fatta nella toilette del cinema. E poi casa mia non è così vicina. Sarà un chilometro e mezzo o due e con una bella salita. A piedi. Sì, a piedi, perché è fuori discussione che prenda l’autobus. Lo prendo il meno possibile gli altri giorni, figuriamoci la domenica sera.

Mi aggiusto la coda dei capelli e inizio a riflettere sul fatto che questa storia della sfida con Serena è una stronzata. Voglio dire, farsi scopare da uno come Giampaolo proprio non esiste. Ieri sera, alla festa a casa di Lapo, un pompino gliel’avrei fatto con mucho gusto. Ora che l’ho conosciuto... mah, non so. Probabilmente non mi sarei nemmeno lasciata baciare. Figo ma non troppo, stronzo ma non troppo, bastardo ma non troppo. Sii almeno una cosa intera, cazzo. Per non parlare di quei dieci centimetri. Aggiunti ai nove di Lapo (gli altri nove sono di Serena) sto a diciannove. E mi sembra di avere pagato un prezzo già troppo alto.

Tanto più che essermi negata, quasi per principio direi, un qualsiasi coinvolgimento mentale - e avere avuto un coinvolgimento fisico davvero minimo - ha reso questa cosa qui l’esperienza più simile alla prostituzione che abbia mai vissuto. Senza soldi di mezzo, peraltro, che magari quello sì che mi sarebbe piaciuto.

Non ho nemmeno voglia di portare fino in fondo quel po’ di sensazioni che essere presa nel bagno di quel multisala mi ha dato. Per essere chiare: non ho nessuna voglia di masturbarmi e sfogarmi. Ho solo voglia di un bagno caldo.

In modo del tutto contraddittorio con queste riflessioni, mando a Serena un WhatsApp con la foto del cazzo di Giampaolo, con tanto di indicazione della misura. A stretto giro mi arrivano tre messaggi di risposta che recitano:
a) “sei una gran puttana”;
b) “te ne approfitti perché sono fuori uso”;
c) “dieci centimetri??????” seguito da una ventina di faccine che piangono dal ridere.

Mentre li leggo una voce mi fa sobbalzare: “Qui sola?”. Me lo ritrovo davanti, l’avevo già notato quando aveva fatto il suo ingresso nel pub-panineria. Obiettivamente un figo della madonna. Alto, con una tuta blu della Erre-A e un borsone sportivo sulla spalla. Capelli scuri, un filo di barba e lineamenti eleganti ma molto ben definiti. Un figo della madonna, ve lo ripeto. Sulla trentina, potrebbero essere anche di più ma portati benissimo.

Tuttavia non mi aveva attratta per quello. No, davvero. Mi aveva attratta perché nonostante il freddo girava in tuta così, senza cappotto. L’ho visto avvicinarsi al bancone dove sono seduta a compulsare il telefono e chiedere qualcosa alla donna che aveva servito me. Una cinese, giapponese, cazzo ne so io. Comunque asiatica. E’ evidente che si conoscono, così come è evidente che lui le piaccia e anche parecchio. Non tanto per il sorriso smagliante che lei gli ha rivolto, che quella potrebbe essere pura cortesia orientale. Direi per certi movimenti facciali e del corpo. Certe cose si percepiscono.

Detto questo, solo ora che mi rivolge la parola mi rendo conto che lo sto guardando da cinque minuti, anche se sto pensando ai cazzi miei. Non do molto peso alla cosa, né a lui. Però mi domando se non abbia qualcosa di magnetico.

E’ chiaramente straniero. E non lo capisco solo da come fatica con l’italiano. E’ proprio qualcosa di somatico. Il suo “qui sola?” mi ha scossa e dentro di me penso “cazzo, che voce”. La cameriera asiatica adesso sorride molto meno.

Non mi pare di avergli risposto di sì, o forse l’ho fatto anche io con gli occhi, con il corpo, boh. Sta di fatto che si siede accanto a me con un bicchiere di quello che sembra essere un energy drink, anche se a me pare proprio che non ne abbia bisogno, visto che sprizza energia da tutti i pori.

Mi chiede se parlo inglese e io gli rispondo ancora una volta di sì, in italiano però. Mi sento un po’ rallentata, come se mi fossi appena svegliata. La birra, mi dico. Non sono ubriaca, eh? Solo un po’ frastornata.

Si chiama Sven, è olandese, funzionario all’ambasciata. Gli dico che la scorsa estate a Londra ho conosciuto una ragazza olandese, bellissima e simpatica. Che, detta così, meriterebbe uno “sticazzi” di intensità, diciamo, media, lo ammetto. Come se a me dicessero “ho conosciuto un italiano”. Chiaro, se gli rivelassi anche che quella ragazza mi fece inzuppare le mutandine e fatto venire voglia di consegnarmi a lei completamente nuda nel bel mezzo del parco di Greenwich dicendole “disponi di me”, capirebbe meglio perché me la ricordo e perché glielo racconto. Ma, con quella frase buttata lì così, in realtà faccio solo la figura della cretina, me lo dico da sola.

Mi dice che è strano vedere una ragazza italiana seduta a bere senza compagnia a un bancone. Gli rispondo che non vedo perché mai, cosa ci trovi di strano e, mentre gli racconto che sono solo un po’ incazzata perché il film che ero andata a vedere si è rivelato una stronzata e che sono uscita prima della fine, mi rendo conto che effettivamente sì, deve avere qualcosa di magnetico negli occhi e nella voce. E mi rendo conto anche che ha addosso un odore molto forte. Sudore. Non è sgradevole, diciamo che si ferma un po’ prima di diventare sgradevole, ma è così intenso che mi invade le narici.

Vi sembrerà sicuramente un’idiozia, ma per spiegarvi come mi sento non mi viene niente di meglio che farvi questo esempio: è come se il jack che tiene collegato il mio cervello improvvisamente si mettesse a funzionare a singhiozzo. Rispondo come in trance alle sue domande che non sono nulla di che. Sono una studentessa di matematica. No, non abito molto lontano. Sì, la birra mi piace ma non disdegno qualcosa di più forte ogni tanto, solo che ieri sera sono stata a una festa e ho un po’ esagerato. Sì, mi sono divertita alla festa, ma no, nulla di speciale, siamo sotto Natale, si gioca, si ride, e soprattutto si mangia troppo.

Poi evidentemente il jack riprende a funzionare e gli domando da dove arrivi. Mi risponde che viene dalla palestra e gli chiedo dove cazzo l’abbia trovata una palestra aperta la domenica pomeriggio. Risponde che ne frequenta una che, se è per questo, sta aperta sette giorni su sette e ventiquattrore su ventiquattro e io lo interrompo dicendogli che sì, ho capito qual è. E indicando il borsone gli chiedo anche se si siano rotte le docce, cercando di fare la spiritosa nemmeno tanto indiscreta.

“Non mi andava di farla lì”, è la sua risposta. E il jack del mio cervello va ancora una volta in tilt. Torno ad essere una specie di robot. Non è che mi sia instupidita, eh? Intendiamoci. Però mi accorgo, senza poterci fare un granché, che comincio ad accavallare e disaccavallare le gambe, a muovermi sul trespolo arricciandomi una ciocca di capelli con un dito, a rispondere “ma davvero?” oppure “ma dai?” almeno una volta ogni trenta secondi quando mi parla di lui. Racconta che è in Italia da un anno e che prima di lavorare per il ministero degli esteri era un giocatore professionista di pallavolo, ma che la sua carriera si è interrotta troppo presto a causa di un ginocchio saltato. E che ha fatto anche il personal trainer, anzi volendo lo rifarebbe ancora nei ritagli di tempo ma che è difficile conciliarlo con il lavoro di ambasciata. Dopo di che io cerco di immaginare sotto quella tuta un fisico da David di Michelangelo, ripensando alla prima volta che ho visto quella statua, che probabilmente mi ha provocato il primo turbamento sessuale della mia vita, o almeno il primo che io ricordi. Non tanto per il cazzo in bella mostra, eh? Non siate idioti, ero una bambina. Più che altro per quell’idea di potenza che emanava dal marmo.

Vuole sapere se vado spesso al cinema da sola e se ho il fidanzato. Gli dico che no, non tanto spesso. E che comunque il ragazzo non ce l’ho. Fa le sue domande e registra le mie risposte come se ci dovesse compilare un questionario. E’ una assenza così totale di partecipazione apparente che quasi mi intimidisce. Ok, togliamo il “quasi”.

“Mi piace come vesti”, mi fa all’improvviso, anche in questo caso senza un minimo di emozione né intenzione di compiacermi. Neutro. “Dici?”, replico io senza sapere organizzare una risposta migliore. Guardo il mio cardigan e la mia gonna blu, le parigine bordeaux, come se le vedessi per la prima volta e come se all’improvviso l’unica cosa che conti sia sottopormi al suo giudizio e pregare che questo giudizio sia positivo. “Sì sei molto carina”, afferma con lo stesso tono poggiandomi una mano sul ginocchio, un paio di polpastrelli finiscono oltre le calze, sulla pelle della mia coscia nuda. Ho una specie di scossa che non ha nulla a che vedere con l’eccitazione sessuale. Probabilmente nelle sue intenzioni questo contatto è già una avance, ma per me no. E’ qualcosa che rende, per così dire, evidente anche al tatto il tipo di rapporto che si è creato tra noi in così breve tempo. Potrebbe toccarmi il ginocchio come dirmi di andargli a comprare le sigarette a quattro chilometri da qui, oppure farsi consegnare un orecchino. Non sarei in grado di avanzare obiezioni.

Così come non obietto nulla quando mi dice di accompagnarlo fuori a fumare. Non è che me lo chiede, me lo dice, stop. Lo guardo prendere la sigaretta dal pacchetto, non me la offre né io ho il coraggio di farmela offrire. Mentre fuma mi passa la mano lungo tutto il fianco, mi dice che sono molto magra e “slender”, parola che nel mio vocabolario manca ma immagino significhi una cosa tipo longilinea. Dice anche che non sembro italiana. Sorrido guardando un po’ per aria e un po’ per terra, arricciandomi la ciocca e ripetendo per l’ennesima volta “dici?”. A un certo punto non so se il brivido che mi percorre sia colpa della sua mano o del freddo, visto che ho lasciato il piumino sul trespolo al bancone.

Mi afferra il mento tra le dita. Le sue mani mi sembrano enormi, lui mi sembra enorme. Mi bacia e non è un bacio rapace, mi sfiora. Reagisco muovendo impercettibilmente le labbra. La stessa carezza che prima era sul fianco si sposta su una tetta. Sono addossata al muro, chiunque può vederci, ma a lui non sembra interessare. Quanto a me, beh, a me nemmeno. Non capisco nulla, non ho reazioni. Ho solo un brivido quando con le unghie sfiora la scollatura del cardigan, la pelle nuda.

Rientriamo sono un po’ intirizzita. Ho i capezzoli appuntiti ma è per il freddo. Non arriviamo nemmeno ai nostri posti che mi ferma e, con la stessa voce profonda e lo stesso tono privo di emozioni che non lo ha mai abbandonato, mi dice “vai alle toilette, sono di sotto”. Rispondo “sì?” e lui fa cenno di sì con la testa. Eseguo, come un automa. Se mentre scendo le scale mi domandaste cosa stia facendo vi risponderei “sto scendendo le scale”, senza aggiungere altro. Non vi saprei nemmeno dire perché lo faccio.

Lo attendo in piedi e braccia lungo i fianchi nel bagno delle femmine, tanto la porta è spalancata e mi vedrà. E’ come se tutto intorno a me fosse ovattato. Lui scende tranquillo, lo sento dai suoi passi. In verità non c’è da stare molto tranquilli, perché i bagni sono piccoli e il locale di sopra è pieno e c’è sempre il rischio che qualcuno possa scendere.

Dopo avere chiuso la porta ripete la stessa sequenza di prima. Mento tra le mani, bacio leggero, carezza sul seno. Appena un po’ più forte. Ora il suo odore lo sento fortissimo. Quella stessa mano me la impone sulla testa e nemmeno spinge, sono io che mi inginocchio da sola davanti a lui, senza riuscire a staccare nemmeno per un istante i miei occhi dai suoi. Lo guardo dal basso in alto, attendendo il suo ordine. Oppure un suo gesto, quel gesto, che per me equivarrebbe a un ordine. Ora sì che la sento la scossa, la contrazione, la vagina che si bagna. Sono definitivamente fuori controllo e pronta a fare tutto ciò che vuole. Ma il punto non è questo. Non si tratta di ciò che voglio o che non voglio io. Il punto è che non posso oppormi a ciò che vuole lui. Anzi, che dico: il punto è che anche se non volessi non sarei capace di rispondere di no.

Lui tuttavia non dice niente. Ci osserviamo per qualche secondo in silenzio, poi mi fa “alzati, andiamo da me, abito qui accanto”.

Mi lascia il passo e mi dice “vai”. Ancora una contrazione, il desiderio che sale. Mentre gli sfilo davanti mi dà uno schiaffetto sul sedere che mi ricorda che il dolore per le sculacciate di Lapo e per quella sua ultima cinghiata non si è ancora lenito.

L’unica cosa che ci sarebbe da chiedergli è “ma se abiti qui accanto perché mi hai fatta andare di sotto?”. Ma per tutto il tempo in cui paga, usciamo dal locale e imbocchiamo il suo portone non riesco a dire una parola. L’androne è al buio, c’è un neon che è partito e che rilascia una fiochissima luce arancione. Mi spinge contro il muro e mi bacia ancora una volta, stavolta con l’arroganza del cacciatore che ha braccato il capriolo. Non so perché lo faccia proprio lì e non mi porti subito in casa, probabilmente è per farmi capire un’altra volta chi comanda. Come se ce ne fosse bisogno. Finalmente porta la mano sotto la gonna e si accorge che non ho le mutandine. Sorride, più che altro ha una specie di ghigno. “Eri a caccia di cazzo.. l’hai trovato”. Dice proprio così, “on the hunt for cock” e il fatto che usi un’espressione che uso anche io quando troieggio con le mie amiche è probabilmente la cosa che mi fa volare fuori di testa più di tutte. Ansimo pesantemente, ma quando mi spinge un dito dentro uggiolo come una cagnolina. Gli ansimo davanti con i palmi delle mani appoggiati al muro, gli ansimo in bocca quando me la invade con la lingua. Ansimo ancora quando mi abbassa il piumino e il cardigan lasciandomi le spalle nude, quando tira fuori una tettina dal bra e si china a succhiare l’erezione indecorosa del capezzolo.

E’ pazzesco, non riesco a capire perché lo faccia proprio qui, dove chiunque potrebbe coglierci in flagrante semplicemente aprendo il portone o sbucando dall’ascensore. Ma non posso fare nulla. Ansimo e basta con il suo dito che mi rovista nella vagina e la sua bocca che fa di me quel che le pare. E per molti secondi il mio respiro è l’unico rumore che si sente nel silenzio assoluto dell’androne. Quando accanto a quel rumore si affianca quello dello sciacquettio del suo dito dentro di me mi rendo conto con terrore che tra non molto non potrò che venirgli nella mano strillando come una pazza, ma anche su questo non posso farci nulla.

E’ probabilmente ciò che vuole Sven, farmi venire così. Poi però capita qualcosa che gli fa cambiare idea. O almeno credo. Accade infatti che lui mi domandi qualcosa che, tradotto, suona più o meno “Com’è che hai detto che ti chiami?” e io rispondo a fatica e balbettando “Sle... tje....”. Come mi chiamava Debbie, l’olandesina che ho conosciuto a Londra. Sletje, puttanella. Chissà da quale curva della memoria mi è spuntata fuori.

Sulla sua faccia compare un altro ghigno, ancora più accentuato del primo. Immediatamente dopo mi afferra per un braccio e mi spinge dinanzi a sé, a salire quasi di corsa i tre scalini che danno sulla porta a vetri intermedia.

Come sempre, quando vengo forzata a fare qualcosa in condizioni di particolare eccitazione sessuale, ridacchio rumorosamente. Lo so che viene il più delle volte scambiato per un risolino da troietta accondiscendente, ma non è così. E’ un semplice riflesso nervoso. Tuttavia, dopo avere ascoltato quel risolino, lo so per esperienza ormai, tutti o quasi si sentono autorizzati a usarmi come meglio credono. Sven mi dà un’altra forte pacca sul sedere che mi fa molto più male di quella precedente e mi spinge in avanti con la mano che mi pressa sulle chiappe. Per tutto il lungo corridoio che conduce al suo appartamento non faccio altro che sperare che rimetta il dito nella mia fica ormai impazzita, ma non avviene. Il mio desiderio si avvera soltanto quando siamo davanti alla porta e lui armeggia per cercare le chiavi. Piegata leggermente in avanti con le mani appoggiate sul legno mi ritrovo fottuta dal suo dito mentre ascolto la sua voce che sussurra “you’re such a slut”, sei così troia. Scrollo la testa facendo segno di sì, non ce la faccio a parlare.

In casa il buio è totale. Sento il piumino che scivola giù e le sue mani che finiscono di sbottonarmi il cardigan. L’altra coppa del reggiseno viene abbassata lasciando nuda anche l’altra mammella. Ripete il gesto del sottoscala, l’imposizione leggera della sua mano sui miei capelli. E come nel sottoscala, scendo in ginocchio davanti a lui. La luce si accende, mi esplode dentro gli occhi costringendomi a chiuderli per un po’. Quando li riapro lui si è calato i pantaloni della tuta. Indossa dei pantaloncini a tutta coscia attillatissimi, simili a quelli che indosso io per correre o in palestra. Solo che io sul davanti non ho quel bozzo enorme. Accarezzo con il palmo la sagoma dell’asta che risale su, molto più lunga della mia mano e non ancora marmorea. Non ci posso credere, afferro l’elastico dei tight e li abbasso miagolando immediatamente dopo un “oddio!”. Non mi aspettavo una bestia del genere.

E’ un cazzo imponente, uno dei più grandi che abbia mai visto. Sotto un addome che sembra (sì, avevo ragione) quello del David di Michelangelo, coperto da una cascata di riccioli castani che arrivano ai coglioni. Ha delle vene scure, gonfie, in rilievo, ci sbrocco dietro. Sono squagliata, sto colando. Non è un modo di dire, sento proprio il succo che scivola sulle cosce. Lo guardo e mi dico che saranno 22-23 centimetri, a occhio, ma grosso da morire. Davvero un sogno. Siamo più o meno ai livelli di Edoardo. Forse un po’ sotto ma vi assicuro che per me è già abbastanza. In un lampo di lucidità, o di follia, decidete voi, penso che nella sfida con Serena questo rappresenta un vantaggio micidiale. Subito dopo però do un forte respiro e quasi svengo. Il sudore mischiato all’odore di maschio è talmente intenso che è difficile da sostenere. Ora sì che è quasi sgradevole, ma non posso resistergli lo stesso.

Come non posso resistere al suo corpo. Afferro le sue natiche e sono di marmo, i muscoli delle sue cosce sono di marmo, persino i suoi polpacci. E anche il suo cazzo è diventato infine di marmo. Dritto, massiccio, tracotante. Lo succhio, uno dei migliori pompini della mia vita. Voglio farlo impazzire a furia di bacetti, leccate e piccoli risucchi prima di affondarmelo dentro e farmi svellere le mandibole. Sono arrivata con la punta del naso a toccare il pube del Capo, posso farcela anche con lui. Grondo sulla sua sbarra tutta la saliva che riesco a produrre. Oltre che per renderla più scivolosa, lo faccio proprio per fargli vedere quanto sono puttana. Voglio che lo sappia, che me lo dica. Che goda della mia troiaggine oltre che della mia bocca.

So perfettamente quello che sta per succedere quando mi mette la mano sulla nuca e inizia a dare il suo ritmo. Conosco quell’istinto di piantarmelo in gola senza rispetto, di togliermi l’aria senza pietà, fino a scaricarsi i coglioni. Ma lui non conosce il mio istinto di essere usata, di respirare quando posso, di dominare i conati. Le mie amiche dicono che spesso hanno bisogno di fermarsi per riprendere fiato. Io invece più soffoco e più mi voglio soffocare. Godo dei miei rumori strozzati, dei gorgoglii osceni, delle lacrime che mi rigano il volto e del dolore che si aggrappa alle mascelle. Quella deficiente della mia fica si contrae e piange dalla voglia. Ancora non sa cosa la aspetta. Verrà il suo turno, ma in questo momento non cambierei per nulla al mondo il piacere di questo pompino, delle sue mani che mi prendono le tempie e mi tirano a sé, degli scatti dei suoi muscoli e del suo ansimare cattivo. Dei suoi spruzzi di cui perdo il conto e del suo seme caldo che mi scivola in gola.

E non cambierei con niente al mondo nemmeno la lotta che faccio quando mi afferra per la coda dei capelli cercando di tirarmi via. Sì, lo so che la mia lingua e le mie labbra ti toccano là dove il piacere ti fa quasi male, adesso. Ma io voglio spremere fino all’ultima goccia di sperma, voglio leccare, lucidare, omaggiare. Un bastone del comando come questo deve essere specchiato, caro Sven. Lo capisco molto più io di quanto non lo capisca tu.

Mi lascio andare all’indietro, sedere e gomiti poggiati per terra, la lingua che lecca lo sperma intorno alle labbra. Il cardigan aperto e le tette che spuntano dal reggiseno abbassato. La gonna risalita e le cosce spalancate che mostrano la mia vagina che pulsa e luccica di umori. Tutto di me, ma soprattutto i miei occhi, credo, gli dicono prendimi, possiedimi qui sul pavimento dell’ingresso, fottimi, uccidimi. Non penso a niente, ho smesso di pensare da quando mi ha baciata per la prima volta. O addirittura da quando mi ha rivolto la parola per la prima volta.

Ma lui mi ignora, si spoglia lentamente davanti a me, ancora ansimante. E non si sta spogliando per me, lo percepisco nettamente. Mi dice “vado a fare la doccia, sai fare un vodka martini?”. Scuoto la testa, non sono nemmeno sorpresa. Mi dice che è facile, di cercare i dosaggi su internet e che i liquori sono in frigo e i bicchieri nel mobile accanto. “Puoi farcela persino tu”, commenta sarcastico, “se vuoi fattene uno”.

Lo osservo dirigersi verso il bagno mentre mi alzo. Mi ricompongo e corro in cucina cercando la ricetta sul telefono e aprendo il frigo. Per qualche assurdo motivo considero vitale terminare la preparazione prima che lui esca dal bagno. Afferro le bottiglie mentre di là l’acqua comincia a scrosciare, poso i bicchieri sul tavolo. Prima di cominciare a versare le dosi mi attacco alla bottiglia della vodka e mando giù un bel sorso. E’ gelata, va giù da dio. Credo che prima o poi chiederò a un ragazzo di prepararmi un cocktail sperma e vodka, la miscela dei due sapori mi fa impazzire.

Quando torna avvolto nel suo accappatoio lo attendo nel salone, in piedi, con i due bicchieri nelle mani. Si avvicina e, come quando eravamo davanti al pub-paninoteca, mi sfiora le labbra con le sue. Sente l’odore dell’alcol e mi irride dicendomi che il suo sperma deve avermi fatto bene, visto che non mi brucia più lo stomaco. Mi sbottona un’altra volta il cardigan e mi rimprovera perché non mi aveva detto di coprirmi. Mi giustifico dicendo che avevo freddo ma lui mi zittisce dicendo che a casa sua non fa freddo. Ha ragione. Mi tira giù ancora una volta il reggiseno esponendo le tettine, le accarezza. Il mio respiro si fa ancora più grosso di quanto non fosse in precedenza. Esattamente come quando eravamo nel sottoscala di quel locale, non riesco a distogliere gli occhi dai suoi. Senza senso e senza preavviso mette la mano sotto la gonna e torna a infilarmi un dito nella fregna. E’ sempre un lago, entra senza difficoltà. Non può sapere che l’unica vera difficoltà incontrata nel preparare i cocktail era l’eccitazione che mi provocava immaginare il suo corpo nudo sotto la doccia, il suo cazzo smisurato penzolargli tra le sue gambe.

Cerco di dominare lo spasmo, il sobbalzo che il suo dito mi provoca. Ho la folle e irragionevole paura che il liquore possa cadere e che lui me ne attribuisca la colpa. Toglie il dito dalla fica, ne intinge un altro nel bicchiere e li offre entrambi alla mia bocca. Li succhio come poco fa gli ho succhiato il cazzo.

Prende un bicchiere e si va a sedere sul divano. Mi osserva a lungo. Io pure, un po’ tremo. Mi dice “drink”, mando giù tutto d’un fiato. Lo stomaco brucia e mi sento avvampare. Quando apre l’accappatoio e mi dice “kom hier” entro in iperventilazione. Quando aggiunge “sletje” mi si piegano le gambe. Mentre mi avvicino guardo il suo fisico atletico e il suo cazzo monumentale ancora a riposo. Mi inginocchio ancora una volta e continuo a guardarlo. Le vene in rilievo mi fanno impressione, mi sembrano minacciose. Chino la testa, sa tutto di pulito ora. Lo prendo in bocca e inizio a succhiare mentre sorseggia il suo drink.

Non mi avvento come prima, lo faccio con devozione.

So cosa mi aspetta.

Avverto il potere, ma anche la paura. Il piacere ma anche l’incredulità di sentirmelo gonfiare sempre di più in bocca.

Mi mette un dito sotto il mento e mi fa sollevare leggermente la testa. Capisco e mi rimetto in piedi, mi alzo la gonna, gli salgo sopra. Sven impugna la sua bestia e me la dirige tra le gambe. E’ lucidissima, ora. Trattengo il respiro, ma quando mi sfiora piagnucolo.

Strillo come una disperata, invece, mentre la cappella mi allarga le labbra. Troppo brusco. Mi afferra per le anche e mi fa calare giù molto lentamente. E il mio strillo si trasforma in un lento piagnisteo che si interrompe solo quando si ferma anche lui. Sarà entrato solo per metà e mi sento incommensurabilmente piena, rigonfia. Mi ricorda la prima volta che mi ha scopata Edoardo, che tremavo e mi dicevo che non era possibile. E non potevo nemmeno emettere un suono.

Guardo Sven e immagino che negli occhi si legga la mia richiesta di pietà. Lui aspetta che il mio respiro si regolarizzi un po’ e riprende a farmi scendere. Mi allarga, mi allarga a dismisura, lo sento alla bocca dello stomaco. Ma va meglio. Se ne accorge e mi chiede se lo voglio. “D’you want it?”. “So much”, piagnucolo disperata. Mi tira giù con un colpo secco per l’ultima corsa. Sento l’urto, resto senza fiato, per un po’ non vedo più nulla. Un altro colpo secco e non ho ancora fiato. Alla terza botta di cazzo lancio il mio secondo strillo. Non so nemmeno io per cosa.

Poi, cosa volete che vi dica? A un certo punto hai la tentazione di tirarti indietro, o per lo meno vorresti poter decidere. E invece ti ritrovi ribaltata a pecora con la gonna tirata su e il sedere scoperto, alla mercé di qualcuno che in definitiva nemmeno conosci. Ti senti impotente, e per un attimo speri che duri pochissimo ma al tempo stesso ti senti così troia che speri duri un'eternità. Perché sai che in fondo l’hai cercato, e se l’hai cercato è chiaro che vuoi sentirti usata. Però quando sei davvero usata, è un altro discorso.

Se connettessi il cervello, adesso, mi verrebbe quasi da piangere. Ma poi sento i colpi in profondità, questo cazzo pazzesco che mi apre, e godo persino quando sbatte e mi fa male. Gli dico "more!". Gli strillo "harder!". Lui nemmeno mi ascolta, ne sono certa, perché pensa solo a svuotare il suo piacere dentro di me, puttanella rimorchiata dentro un pub-paninoteca. Una puttana che non deve nemmeno pagare. Questo è ciò che sono per lui.

Per me invece lui è solo uno a cui vorrei chiedere sommessamente: "Fai di me quello che vuoi". Ma non glielo chiedo così, glielo urlo. Parole magari sconnesse, nella mia lingua. Ma lui capisce lo stesso e mi sventra. Oltrepassata una certa soglia, che non so bene quale sia perché è da un pezzo che non sono più lucida, comincio a venire a raffica. Spruzzo, persino. E non mi viene più “quasi” da piangere, piango proprio, ma sono lacrime di piacere. Avete mai pianto dal piacere? Perché ha un cazzo enorme, e cazzo se lo sa usare. Assesta dei colpi profondi e li intervalla con momenti in cui si ferma. E poi improvvisamente riprende a spingere, ma stavolta lo fa come un forsennato mentre io faccio davvero fatica a respirare.

Mi chiede “chi te l'ha fatto questo segno?” e io gli rispondo “il mio ragazzo”. Lui mi fa “non dire bugie, hai detto che non ce l’hai il ragazzo e poi una troia come te al massimo ha qualcuno che se la scopa”. Mi prende per la coda dei capelli e io strillo ancora e mi inarco e ringrazio Iddio di essermi fatta la coda oggi. E mi viene quasi da ridere come un’isterica a pensare che me l’ero fatta proprio sperando questo ma pensando a quell’imbecille di Giampaolo. Ma lui una risposta la vuole e mentre dà un colpo più profondo di tutti gli altri che mi fa urlare ancora mi dice “ehi troia, dico a te... è vero?”. E a me non rimane che dirgli “sì, è vero”. Non si accontenta e mi fotte con sempre più rabbia e io non capisco davvero cosa vuole sentirsi dire e gli strillo “sì è vero, sì è vero” a voce sempre più alta.

Mi chiede “chi è stato?” e io gli dico una verità che non è una verità. Gli dico “uno che mi ha scopata” e lui vuole sapere quando. In realtà lo sa, si vede, ma lui vuole la mia capitolazione, la mia vergogna. Vuole sentirsi dire “ieri!”, vuole sentirsi gemere “stanotte!”. Vuole che glielo confessi, che glielo dica che ha ragione, che ci ha visto giusto sin da subito: on the hunt for cock, a caccia di cazzi. Non mi basta mai.

Poi si scarica ancora dentro di me e anche questa volta sembra non finire mai di farlo. E pure quando finisce continua a spingere, come se non volesse perdere la sua potenza. E di queste ultime botte di cazzo che mi assesta io ringrazio ogni singolo colpo. Perché so che sta finire ma non voglio che finisca.

Poi nulla, non è particolarmente delicato né affettuoso, ma non è nemmeno stronzo. Però mi caccia, non mi fa nemmeno andare al bagno a darmi una lavata. E Dio sa se ho bisogno se non altro di rinfrescarmi. Mi dice che aspetta degli amici e che non vuole che mi trovino lì. Lo imploro di darmi il suo numero già preparata a ricevere un no, oppure una risata, oppure un numero fasullo. Lui invece si fa dare il mio numero e mi chiama per memorizzarlo. Sorride con la faccia di uno che si ritrova davanti una ragazzina che ha perso la testa. Dopo un paio di volte che gli faccio lo spelling di Annalisa, che lui pervicacemente trasforma in Anneliese, si rompe il cazzo e digita quattro impulsi sul telefono, poi gira lo schermo e me lo mostra: Slut. “It’s ok?”. Rido rispondendo “it’s ok”, ma avverto un crampo alla fica. Però devo andare lo stesso, e anche alla svelta.

Esco per strada e davanti a me vedo le luci del multisala dove mi sono fatta scopare da Giampaolo. Alla mia sinistra invece il locale dove mi ha rimorchiata Sven. Il suo seme mi cola dalla fica ancora aperta lungo tutta la coscia e tra poco arriverà alle mie belle parigine.

Mi ritrovo a fantasticare che mi abbia mandata via per parlare di me con gli amici, per dire loro che ha fatto capire a una ragazzina a caccia di cazzo come va il mondo. Oppure magari mi ha raccontato una cazzata e aspetta un’altra con cui aveva un appuntamento, per scoparsi anche lei.

E mi fanno eccitare anche queste due possibilità, so perfettamente che quando ci ripenserò dovrò mettere le mutandine in lavatrice, perché mi bagnerò scandalosamente.

Quasi automaticamente mi avvio verso casa, superando l’angolo del cinema. Solo quando ho già fatto un centinaio di metri di salita mi accorgo che, cazzo, come una deficiente, ho dimenticato di misurarglielo.


CONTINUA

scritto il
2019-07-06
5 K
visite
1
voti
valutazione
8
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Un metro 5 - Partenza ad handicap

racconto sucessivo

Un metro 7 - Ninety’s bitch
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.