Un metro 10 - Siete due deficienti

di
genere
etero

Vabbè, vaffanculo. I capelli li lavo dopo. Mi asciugo in modo molto veloce e copro il letto perché quella macchia sul lenzuolo è proprio una vergogna. Mi metto davvero le prime cose che trovo. Mutandine banalissime, reggitette non coordinato, maglione, jeans. E qui faccio la prima cazzata, perché appena scendo in strada con i fantasmini e le Stan Smith mi si ghiacciano le caviglie. Infilo i Ray-Ban per nascondere la devastazione delle mie occhiaie, visto che non ho avuto nemmeno il tempo di darmi quel po’ di trucco cui ricorro in questi casi. Chiamo Serena, è occupata. Poiché non ci sono bus in vista inizio a farmi i miei sette-ottocento metri a passo veloce verso la fermata del tram. Gli ultimi cento metri proprio di corsa perché vedo il tram in lontananza. Mentre salgo penso che non ho dato la doppia mandata alla serratura e che stasera mia madre mi si incula senza se e senza ma. Richiamo Serena, squilla libero. Appena sveglia mi sarei fatta montare da un’intera squadra di basket, riserve comprese, ma adesso sono abbastanza incazzata. Con quel pezzo di merda di Ernesto, ovviamente, ma anche con lei, con la pensionata obesa che mi impedisce di timbrare il biglietto e con l’autista del tram che va a passo di lumaca. Sostanzialmente, sono una biondina incazzata con il mondo e che guarda male tutti, solo che gli altri non se ne accorgono poiché ho gli occhiali da sole.

Mi risponde con il suo tipico e squillante “amore!”, che a volte mi infastidisce. Ora, per esempio.

– Ciao, com’è sta storia? – le domando sapendo che dovrò stare attenta a come parlo, vista la gente che affolla il tram.

– Ehi, ma stai scopando? – chiede.

– Uh?

– Sei tutta affannata…

– Ho corso per prendere il tram, scema. Allora, com’è sta storia?

– Beh…

– Voglio dire, io sono stata sostanzialmente pisciata con uno “stasera no, meglio domani, lo dico per te” e tu invece… bum… subito. Cioè, strano, no?

– Non saprei…

– Cioè, cosa è successo?

– Ma amore, evidentemente ho argomenti migliori dei tuoi. Almeno per lui…

– No, dai… – dico dopo l’attimo di pausa necessario a capire la sua allusione e vincere la sorpresa.

– Eh… – sospira lei.

– E dove siete finiti? Con me non andava bene nessun posto….

– Ahahahahah… sai, noi di architettura abbiamo delle location particolari…

– Non ci posso credere…

– Eddai, lo sai che non mi dispiace in quel modo! Comunque, peccato, ma ormai Ernesto per te è bruciato. Questo lo sai, sì?

– Eh? Perché? – protesto.

– E daje, Annalì, mica possiamo sempre smezzare, no? Se una se lo fa, per l’altra è bruciato…

– Comunque non credo proprio che a sto punto ci andrei – le rispondo scendendo dal tram – eeeh, Sere, ora te lo posso dire: lo sai cosa sei, vero?

– Una troiaaaaaa? – squittisce lei facendomi il verso – E daje, è il gioco! Se non eravamo due troie sto gioco non lo facevamo, no?

Ha ragione, anche se mi secca riconoscerlo. E infatti non glielo dico. Chiudo la telefonata chiedendole dove cazzo stia e lei risponde che no, niente, oggi non ha lezione e che sta cercando un bancomat. Prima di chiudere mi fa “Annalì, 55 a 19”.

Arrivo in aula con un minuto di anticipo. Il prof è già lì. Proprio non riesco a capacitarmi di come abbia sognato di darla a questo ciccione che ci arringa. Sì, ok, volendo me ne capaciterei, lo so che l’inconscio mischia le carte, però dai… sogno un cazzo, un incubo piuttosto. Tra l’altro, come al solito fa lo stronzo, domandandomi ad alta voce se, per caso, signorina, la luce sia troppo forte. Mi invento su due piedi una stronzata fulminante, di quelle che ti fanno pentire di avere fatto lo spiritoso, che ti fanno sentire una merda. Gli dico che, mi scusi prof, ma ho una malattia agli occhi che di tanto in tanto mi provoca una violenta fotofobia, però non volevo perdere la sua lezione. Lui borbotta non so cosa perché, da vero testa di cazzo qual è, non vuole concedermi il punto, ma si vede che ha accusato il colpo. La ragazza seduta accanto mi guarda stranita, io le sussurro “non è vero un cazzo” e lei fatica a rimanere seria. Però, poiché in effetti con gli occhiali scuri non vedo nulla, le chiedo se dopo può mandarmi gli appunti via WhatsApp.

Per il resto, nulla da segnalare. Cioè no, che cretina, che cacchio dico. Mentre il prof sta concionando di cose di cui oggi, sinceramente, non capisco nulla, arriva una chiamata di quell’altro stronzo di Ernesto. Per fortuna ho l’iPhone silenziato. Stronco la chiamata e gli scrivo “dopo, ho lezione”. Mi beo a pensare che si illuda che ci sarà un “dopo” cui seguirà un altro “dopo”. Il massimo sarebbe che mentre se lo pregusta gli venga duro, ma chiaramente non posso saperlo. Né posso provocarlo su WhatsApp perché il Pergolesi, dopo l’exploit della povera ragazza cecata, mi tiene d’occhio. Mi sa che alla fine non l’ha bevuta. Chissà che penserebbe se sapesse che stamattina mi sono svegliata mentre sognavo che stava per sodomizzarmi… Vabbè, speriamo non lo faccia all’esame. Ma magari all’esame il culo glielo spacco io.

Esco dalla facoltà e mi metto a bighellonare. Fra tre ore ho di nuovo lezione e non so se tornare a casa o no. Vorrei limitare l’avanti e indietro con gli autobus. Ogni mercoledì lo stesso dilemma. Ma, proprio mentre decido di tornare a casa e imbocco il vialetto, ecco Stefania. Oddio, “ecco Stefania” mica tanto, visto che è a una cinquantina di metri e io le corro dietro urlando “Steeefiiy Steeefiiy” come una matta. La raggiungo e le chiedo cosa faccia da queste parti, visto che economia e commercio sta proprio fuori dalla città universitaria. Risponde che ha accompagnato Simone, il suo ragazzo, e ora se ne sta tornando a casa. Ci infiliamo in un bar e lei mi dice, per prima cosa, “chiamiamo Trilli che mi sa che è da queste parti pure lei”. Per seconda cosa mi chiede perché cazzo abbia su gli occhiali da sole visto che la giornata, insomma, non è proprio luminosa. Abbasso i Ray-Ban per lasciare che si renda conto da sola e lei fa una smorfia che dice “complimenti!”. Ordiniamo club sandwich e coca e intanto ci spariamo due selfie da postare su Instagram. Lei è uno spettacolo, con i suoi capelli biondi che cadono su un poncho verde di cachemire e la gonna tartan. Io con il giaccone nero, i capelli a coda e gli occhiali scuri ho più l’aria di una tossica. Nel secondo scatto, dove arriccio le labbra a culo di gallina, anche un po’ da troia.

Mi squilla il telefono, è Ernesto. Rispondo ma non gli lascio nemmeno il tempo di parlare: “Fammi capire una cosa, prima mi dici adesso no, facciamo domani che sarà bellissimo, in un motel sarebbe squallido, non te lo meriteresti e tutte queste stronzate qui… poi porti la mia amica a valle Giulia e le rompi il culo? E il giorno dopo mi telefoni pure? Ma me stai a pijà per il culo? Pensavi non me l’avrebbe detto? E scusa se per una volta tanto uso la parola culo, eh? Ma vedi proprio di andare a fare in culo!”. Detto ciò, chiudo la chiamata davanti a una Stefania che definire perplessa è poco.

– Ma chi è? Chi è che ha portato a valle Giulia a…? – domanda.

Le rispondo “uno stronzo” poi, prima di poter rispondere alla domanda “chi s’è bombato a valle Giulia?”, il telefono risquilla. E’ sempre lui. Stronco la chiamata e blocco il suo numero. E infine rispondo: “Serena”.

– Lo sai che ti ho flesciata mentre parlavi? – replica lei quasi sghignazzando – ora mi racconti tutto o ci faccio una Insta…

Le faccio una smorfia poi le racconto tutto, ma proprio tutto. Compresa la gara che io e Serena stiamo facendo. La sua risposta è, come al solito, benevola:

– Siete due deficienti… No, cazzo, dai, non ridere, siete due deficienti… Ma come cazzo si fa ad avere un’idea come questa?

Protesto chiedendole “ma perché?” e preparandomi a una linea di difesa oscillante tra il “che c’è di male?” e il “non ti mettere proprio tu a fare la moralista”, quando arriva Trilli. E’ Stefania stessa a raccontarle tutto quello che le ho appena raccontato io, introducendo la prolusione con un “ma lo sai che fanno ste due cretine?” e chiudendola con “si può essere più sceme?”. Trilli per la verità ride al nome del gioco – un metro di cazzo – ma più che altro si lamenta per non essere stata coinvolta. E qui non si capisce bene se scherzi o dica sul serio. Soprattutto dopo che le rispondo “perché se giocavi te non c’era gara”. E’ quello che io e Stefy definiamo “il terzo mistero di Trilli”, ovvero la più bruttina del gruppo che cucca in ogni occasione e cambia fidanzati come le mutande. Anche se, a detta di Stefania, non è che sempre finisca con una scopata. Anzi, secondo lei il più delle volte si limita a limonate più o meno pesanti “o al massimo qualche pompino”.

Resta il fatto che sia io che Trilli non riusciamo a smuovere Stefania. Che però, nemmeno non la conoscessi, non è che sia diventata improvvisamente bigotta. Ha solo voglia di raccontarci qualcosa. “Non contesto il fatto che non ci si possa fare una scopata ogni tanto”, dice a voce pure un po’ troppo alta, “è il concetto della gara che è ridicolo… io pure l’altra sera sono uscita con un mio compagno di corso e me lo sono scopato, ma non è che mi metto in testa di raggiungere un metro di cazzo, e dai…”. “Scommetto in macchina…”, suggerisce Trilli. Sia io che lei conosciamo la passione di Stefania per il sesso sui sedili posteriori. “Cazzo, ragazze, è passato a prendermi con un suv Toyota, si sta stracomodi…”, ammicca lei soddisfatta. A nessuna di noi tre viene da compatire le corna del povero Simone. Lei sostiene che lo ama e che l’ha sempre scopata in modo ben più che soddisfacente, ok. Però sta di fatto che, da quando stanno insieme, sono stata testimone diretta di almeno tre tradimenti, più altri due raccontati da lei stessa. Escluso questo, intendo.

Le dico “vabbè, fammi conoscere sto scopatore in Toyota, basta che c’ha un bell’attrezzo che sto perdendo”. Trilli ride e ride anche Stefania. Che però mi risponde che manco per il cazzo. Primo, perché sì, obiettivamente, il ragazzo non è messo male e lei ha una mezza idea di farci un altro giretto. Secondo, perché è comunque ideologicamente contraria al nostro giochetto. Guardo Trilli scuotendo la testa e facendole “nun ce se crede”, lei mi dà ragione ma aggiunge che deve scappare e grazie per il chinotto. Ci pensate voi, vero?

Anche Stefania si alza dicendo “devo sgommare”. Insisto, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, chiedendole di darmi una mano per la sfida con Serena e se non conosce qualcuno, possibilmente sveglio e carino, da presentarmi. Lei mi manda bonariamente affanculo e mi saluta sorprendendomi con un bacio a stampo sulle labbra. Sbaffandomi anche un po’ di rossetto. Mi riprendo dopo un paio di secondi e mi avvicino a lei con la faccia. Insinuo una mano sotto il poncho e le strizzo una tetta, visto che ce le ha strizzabili anche sotto il golf e il reggiseno. Mi abbasso i Ray-Ban e le sussurro “guarda che la prossima volta ti ci infilo la lingua, in quella bocca, anche qui davanti a tutti, così vediamo come ti regoli”. Per eludere l’argomento prende ancora una volta in giro le mie occhiaie e sorridendo mi dice “ammazza, Annalì, e non hai nemmeno scopato…”. Sorrido a mia volta e le rispondo che, comunque, tre pompini in una sera non sono una cattiva media. Ne conviene, io le do l’ultimo bacetto e mi allontano per prima lasciandole il conto da pagare e pensando che, prima o poi, sta tensione lesbica tra me e Stefy la dovremo risolvere.

Mentre aspetto di entrare a lezione arriva il ding del WhatsApp associato al contatto di Serena. L’anteprima dice “foto” e io dentro di me dico “oh cazzo”. Forse non solo dentro di me, perché Pierluigi, un mio compagno di corso, alza gli occhi e mi guarda interrogativo. Non me lo filo, come del resto non mi sono mai filata i suoi tentativi di approccio. Mi alzo e cerco un angolo più riparato, poiché già immagino che razza di foto sia. Ancora non ci posso credere che sia così puttana. Il messaggio in realtà contiene tre foto. Con una certa impazienza, anche perché tra un po’ la lezione comincia, attendo che si carichino. Nella prima c’è Serena con un cazzo in bocca, direi anche bello largo. Ha le guance incavate e gli occhi che puntano in alto come se qualcuno le avesse appena detto “ehi, guarda su”. Nella seconda è a pecora su un letto, davanti allo specchio di un armadio di fattura mediocre. Testa sollevata, tirata per i capelli, obbligata a guardarsi. Cioè, guardarsi sì ma vedersi non so, perché gli occhi sembrano sbarrati, la bocca aperta come se cercasse aria. La faccia di quello che la sta fottendo è coperta dal flash ma il resto promette bene, anche se coperto da un po’ troppi peli per i miei gusti. Nella terza, finalmente, il primo piano del cazzo con la relativa misura, e qui capisco che deve proprio essersi divertita: 19 centimetri belli dritti e belli pieni.

Poi il messaggio vero e proprio, più lungo del solito: “Guardia giurata, incontrato al bancomat, sposato, ci ho fatto la scema per mezz’ora”. Subito dopo cinque faccine che piangono dal troppo ridere. Segue un’altra frase: “M’ha detto io tra un po’ smonto e mi moje attacca al supermercato. Se voi te posso dà ‘na botta, c’avemo quattro ore”. Altre faccine. “Me ne ha date due e la seconda senza preservativo, mi è venuto in faccia. Il tutto in un’ora. C’è pure un video, lo vuoi vedere?”.

Metto il telefono in borsa imprecando, stavolta silenziosamente, “ma guarda te sta zoccola”. Non le rispondo ma dico a me stessa “allora vuoi la guerra…”. Passo l’intera ora di lezione senza riuscire a concentrarmi. Il bisogno di sesso della notte precedente è come se mi fosse risalito di prepotenza, e tutto insieme. Ho le mutandine bagnate, ho voglia di correre a casa e masturbarmi, come dopo quattro giorni di ciclo.

E poiché in certe situazioni spesso tendiamo a comportarci in modo irrazionale, io faccio qualcosa di irrazionale. No, non mi struscio addosso a qualcuno o cose del genere, che cazzo andate a pensare? Anzi, ho il terrore che qualcuno mi sfiori, tenti un approccio, anche solo un sorriso. Perché mi sento vulnerabile come raramente sono stata. Quello che faccio, invece, è lasciar passare la mia fermata, proseguire. Scendere a quella vicino al multisala dove sono stata con Giampaolo. Ma non è il multisala che mi interessa. Mi interessa il portone dall’altra parte della strada. Il portone di Sven.

Mi presento così, all’improvviso. Non avrei potuto sopportare di ascoltare un suo “no” al telefono. Mi attacco al citofono pensando che l’unica cosa al mondo di cui mi freghi in questo momento è che sia in casa. Il portone scatta senza che lui nemmeno chieda chi è. Quando lo vedo cerco di sorridere disinvolta ma, nonostante la sua espressione stupefatta, capisco benissimo che sarà un’impresa anche solo domandargli di farsi misurare quella specie di randello che ha tra le gambe, tanto mi mette in soggezione. Mi chiede cosa cazzo ci faccio lì e io gli rispondo che, appunto, passavo di lì. Seee, vabbè. Sopra la poltrona dell’ingresso c’è un borsone sportivo e il suo giaccone appoggiato sopra. Mi dice che sta uscendo per andare a giocare a “calcito”, secondo la sua pronuncia. Anche qui, dopo un paio di volte che cerco di fargli pronunciare correttamente “calcetto”, si rompe le palle e mi fa “ok, soccer”. Avanzo verso di lui e gli appoggio le mani sul petto rivolgendogli un lamentoso “oh, come on…” che sa più di delusione che altro. So benissimo che solo una cosa può distogliere la mente di un uomo dalla fica, il calcio. Ripete che deve andare, gli rispondo “ti aspetto qui” ma invece no, cazzo, dopo va a cena con gli amici.

E’ come se il mondo mi crollasse addosso. Non so che espressione mi si disegni sul viso. Forse gli faccio pena, forse ho lo sguardo così arrapato che gli faccio sangue, vai a sapere. Sta di fatto che, esattamente come qualche giorno fa nello scantinato del pub-paninoteca qui accanto, mi poggia una mano sulla testa. Fa anche lui “oh, come on…” ma con un tono completamente diverso dal mio e io, non saprei nemmeno dire come, mi ritrovo in ginocchio con il suo grosso cazzo spadellato davanti al viso. Anzi, più che grosso è enorme, e non è nemmeno perfettamente in tiro.

Immagine, odore, sapore. Tutto come in un vortice. Perdo la testa e mi ritrovo a spompinarlo quasi con furia, mentre lui biascica alternando “come on” e “slut”. In pochi secondi ricomincio a bagnarmi in modo indecente. Solo che, magari proprio perché ha fretta, dopo un po’ mi prende per la nuca cercando di accelerare ancora di più il ritmo e di ficcarmelo quanto più possibile in fondo alla gola. E lui lo sa bene che è possibile, l’altra volta è entrato tutto.

Va bene, va bene. Scopami la testa, soffocami, svuotati. Fammi capire che opinione hai di me. Non ce n’è bisogno, lo so da sola. Ma tu fammelo capire lo stesso.

Che poi è, precisamente, quello che succede, visto che lui rantolando “slut” mi scarica in bocca un paio di fiotti di quantità industriale, se lo rimette dentro senza nemmeno darmi modo di ripulirlo, infila il giaccone e se ne va. Solo dopo che la porta si è richiusa e io sono ancora lì, in ginocchio sul suo parquet e con un rivolo di sperma che scende da un lato della bocca, mi rendo conto che a differenza dell’altro giorno non mi ha nemmeno dato un bacio. Mi sento usata, ma in fondo questo mi piace. Al tempo stesso però mi sento sconfitta, e questo mi fa incazzare.

Così non mi resta che ritornare al piano A, ossia andare a casa a masturbarmi. Sperando che nel frattempo il sapore dello sperma di Sven non svanisca del tutto dal mio palato. Porto fuori per strada la mia testa che gira e le mie occhiaie, afferro il telefono e scrivo a Serena: “Ok, mandami quel cazzo di video”.

Torno a casa, ma prima passo da Momo, il kebabbaro egiziano che da quando ho tredici anni mi chiede ogni volta come-stai-bella-signorina-Annalisa. Gli dico “Momo, mi serve un po’ di roba, buona”. Mi domanda se voglio pizza o kebab e gli rispondo, visto che nella rosticceria non c’è anima viva, “Momo, non hai capito un cazzo, voglio un paio di canne”. E’ la prima volta che faccio una cosa del genere. In assoluto, intendo, figuriamoci sotto casa e con un tipo che conoscono anche i miei. Evidentemente sono davvero fuori giri, nella mia testolina. Lui all’inizio fa finta di non capire, poi nega. Gli faccio “non rompere il cazzo Momo, lo so io e lo sanno tutti i miei amici”. Per la verità credo che lo sappiano benissimo anche la polizia e i carabinieri, ma questo non glielo dico. Aggiungo solo “per favore, fammele tu che io non so rollare”. Si presenta cinque minuti dopo ma, poiché intanto è entrato qualcuno, ficca le canne dentro una busta con due supplì. Mi dice “ecco bella-signorina-Annalisa, puoi pagare domani”. Ringrazio e giro i tacchi.

Entro a casa. E’ vuota, ma qualcuno ha dato la doppia mandata. Spero sia stata Martina, altrimenti stasera mi romperanno di sicuro le palle. Sticazzi. Vado in bagno e apro l’acqua della vasca. Controllo il telefono, il video di Serena è arrivato, lo scarico. Mentre il download avanza e l’acqua riempie la vasca mi spoglio, mi tolgo tutto. Occhiaie a parte, che comunque stanno già sparendo, mi piaccio. Sì, d’accordo, sono magra come un grissino, ma sono una bella figa, ho un culo da favola, che cazzo succede a tutti? Possibile che vada bene solo per i pompini? Mi volto e ammiro il mio sedere, il segno della cinghiata di Lapo c’è ancora, anche se molto meno marcato. Già, Lapo. Ma non doveva farsi sentire? Non dovevamo vederci domani? Chissà che cazzo aspetta.

Mi controllo il pube, c’è una zona in cui sotto le dita sento un accenno di ricrescita, l’estetista non è stata molto attenta. Prendo un po’ di acqua calda, sapone, e ci passo sopra il rasoio. Quando lo poso, l’occhio mi cade sulla spazzola per i capelli. Questa estate, una notte dopo che avevamo scopato, Serena mi ha confidato che prima che ci conoscessimo, dopo la rottura con il suo ex, usava il manico della sua spazzola per consolarsi. Non l’ho mai fatto, non mi è nemmeno mai passato per l’anticamera del cervello. Eppure è levigata e ha le forme arrotondate. Fosse di legno sarebbe perfetta, ma non si può avere tutto. Mi accendo la prima canna e passo il manico della spazzola sotto l’acqua. Forse se ci mettessi un po’ di sapone, penso, potrei anche infilarmela nel culo. Questo sì che sarebbe un omaggio a Serena. Potrei addirittura farci io un video, stavolta, e mandarglielo. Insapono il manico e lo guardo, valuto la situazione, lascio perdere e lo rimetto sulla mensola.

Il video intanto è pronto per la visione. Getto il filtro della canna nel water e accendo l’altra, mi sta già salendo forte. Un’altra cosa che mi sta salendo forte è il calore. Sì, proprio quello lì. Entro nella schiuma della vasca facendo attenzione a non bagnare né l’iPhone né la canna, nemmeno ci faccio caso ma tengo le gambe spalancate il più possibile. Sul display si vede un uomo di spalle che si avvicina a un letto dove sopra è stesa una ragazza. Si vede a malapena una sua gamba e una tetta. Mi bastano per riconoscere Serena. Lui è veramente un orso, cazzo, ha i peli anche sulle natiche. Si sente la sua voce che fa “nun me di’ che te sei già stancata”, seguita dal tipico risolino della mia amica. Le sale sopra, le mette la testa sul petto e, a giudicare dal grido che lancia lei, le morde il seno. Un attimo dopo si aggiusta meglio e inizia a scoparla.

Ha una calata romana davvero forte, greve. E’ molto volgare. La chiama mignotta ogni dieci secondi. Se la fotte in ogni modo. Da sopra, da sotto, da dietro e di lato. Decide tutto lui e cambia molto spesso posizione, un po’ troppo spesso per i miei gusti. Ma mi eccita da morire, soprattutto quando glielo mette davanti al viso senza tanti complimenti e la insulta per un minuto buono perché non riesce a prendergli tutto il cazzo in bocca come si deve. Quando si stacca, Serena sembra in preda a un attacco d’asma. Vorrei essere trattata io così. Qui, ora, un vero uomo. Uno che ti sbatte per ore e ti usa fregandosene completamente di te e del tuo piacere. Tanto, il piacere, è matematico che con uno così prima o poi arriva. Allargo le gambe sempre di più, per quanto i bordi della vasca me lo consentono. Mi sento gonfia, ansimante e piena di contrazioni. Serena ha il primo orgasmo mentre gli è impalata sopra e ha iniziato già da un po’ a essere anche lei sboccata e oscena, a magnificare il suo cazzo e a implorarlo di sfondarla. Vedo il suo sedere e la sua schiena. Si irrigidisce e lancia il suo gemito più forte degli altri, quello che assomiglia a un piagnucolio, che conosco benissimo. Lui la scopa sempre più forte abbrancato alle sue chiappe. Io penso che il minimo che possa succedere è che le infili un dito nel culo, se non che la sodomizzi addirittura, visto l’interesse che dimostra per il suo sedere. E invece non succede. Succede però che le dà uno schiaffo così forte sul culo che lei urla e si inarca, facendo scattare la testa all’indietro con i capelli che vanno un po’ dove vogliono loro.

Mi scappa un “Cristo!” e getto nell’acqua ciò che rimane della canna. Subito dopo mi infilo un dito nella fica puntando i piedi sul bordo della vasca. Mi sento un fascio di nervi, ho voglia di uscire dall’acqua, prendere la spazzola e, vaffanculo, fare la prova di com’è fottersi da sola con un manico. Solo l’impossibilità di staccare gli occhi dal display me lo impedisce. No, anzi, anche un’altra cosa me lo impedisce. E non è la prima volta che mi capita. Il ricordo del consiglio che mi diede quell’olandesina che ho conosciuto a Londra quest’estate: toccati ma senza arrivare fino in fondo, resta in tensione. E poi mettiti in caccia. Non so perché ma eseguo, come se fosse lì a darmi un ordine, anche se è maledettamente difficile. Ma proprio tanto difficile, cazzo, perché quella che vedo sul telefono è una delle cose più eccitanti cui abbia mai assistito. Probabilmente perché quella ragazza che viene chiavata in modo così selvaggio la conosco, è una mia amica, ci ho scopato. Lui la mette a quattrozampe e la prende da dietro, ci ripensa, la fa girare un paio di volte per metterle la faccia di fronte all’obiettivo. Serena sembra sballottata come una bambola di pezza, non oppone resistenza né credo voglia farlo. L’uomo bofonchia qualcosa che non capisco ma che deve essere una cosa tipo “ti piace il mio cazzo” e “sei proprio una mignotta”, perché lei – a metà tra lo strillo e il pianto – gli ripete “sì, sì, mi piace tanto il tuo cazzo” e “sono una mignotta, sono una mignotta”. Lui borbotta ancora qualche cosa e lei fa appena in tempo a strillare – stavolta sì, strillare e basta – “no! non venirmi dentro” prima che gli occhi le diventino a mezz’asta e il suo bel viso si trasfiguri in un nuovo orgasmo. Ma è chiaro che anche lui è al limite: senza nemmeno lasciare che si riprenda, la afferra per i capelli e la tira su per metterla in ginocchio, facendola urlare. Lui invece è in piedi, sul letto e, per la prima volta, posso constatare che ciò che avevo visto nella foto corrisponde alla realtà, ovvero che ha un cazzo veramente notevole. Si sega e in poco tempo le spruzza in faccia rantolando un “prendi puttana!” che sa troppo di video porno da quattro soldi. Devo sforzarmi per non venire al solo pensiero di leccarle via lo sperma dal viso, posare l’iPhone, uscire dalla vasca, mettermi l’accappatoio, far sparire le tracce delle canne e aprire la finestra. Sembra facile, ma fatelo voi con la testa che vi gira e le gambe molli.

Quando mia madre torna a casa sono già in pigiama. Già dall’ingresso inizia a rimproverarmi di non avere chiuso la casa quando sono uscita stamattina, ma quando mi vede così si blocca e mi domanda se sto male. Le rispondo che sono solo tanto stanca perché oggi all’università ho fatto quattro ore di lezione più due di laboratorio. In fondo lei che cazzo ne sa. Poiché però è una mamma, e deve rompere il cazzo, mi dice che forse potevo evitare di tornare alle tre la notte precedente. Attacco la lagna del “ma così studio e basta e non mi posso mai nemmeno divertire con le mie amiche” e lei, sempre perché è una mamma, prende una coperta e mi fa stendere sul divano e appoggiare la testa sulle sue gambe e sulle sue carezze.

Ceno lì, sul divano, mentre i miei parlottano a tavola con mia sorella e io nemmeno ascolto cosa dicono. Mi attacco al telefono e trasferisco un po’ di file indecenti nella mia cartella protetta. Mando due messaggi a Serena. Nel primo c’è scritto “ehi, zoccola”. Nel secondo “spero che mister ‘te do ‘na botta’ ti abbia fatto passare il calore per almeno due mesi”. Quando sento il ding penso che sia la sua risposta, invece è Lapo: “Domani mattina a casa mia, ok?”. Il WhatsApp di Serena arriva solo un attimo dopo, limitato ad un laconico “74 a 19”. Più le solite faccine che piangono dal ridere, naturalmente. La ignoro, ma rispondo a Lapo: “Fatti mezzo chilo di zabaione, macho man. Domani uno di noi due non esce vivo”.


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scritto il
2019-07-13
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