Alcol e sigarette - 2

di
genere
etero

Quando torno di sopra ovviamente Filippo, il biondino, è lì di nuovo al suo posto insieme al suo amico. Il modo in cui mi guarda dice tutto e sinceramente un po’ mi indispettisce il fatto che Massimo gli abbia spiattellato ogni cosa. Invece di fare la faccia incazzata, però, la mia reazione è quella di scoppiare in una risata mentre prendo posto sullo sgabello al bancone. E’ conclamato: sono ubriaca. Il contatto con il sedile mi ricorda che sotto non ho più nulla. Ci deve essere qualcosa che mi porta a fidarmi di questi due e che mi spinge a lasciar cadere ogni barriera. Perché è noto che l’alcol mi fa di questi scherzi, ma è anche vero che di solito un po’ di pudore cerco di conservarlo. E invece no, niente.

E non è nemmeno che voglio recitare la parte della fatalona o della gran troia. O di tutte e due le cose insieme. Ma nemmeno per niente. Mi sento come se fossi in compagnia di due coetanei con i quali, per dire, siamo andati in giro a far suonare i citofoni per scherzo. Il sesso, il pompino appena fatto a Massimo, c’entra fino a un certo punto. O meglio, c’entra, ma almeno per me non è l’ingrediente centrale della serata.

- Davvero...? – mi chiede Filippo guardandomi allibito, circospetto, a bassa voce.

- Be’ mettiamola così – rispondo dopo essermi quasi piegata in due dal ridere, più che altro per la faccia che continua ad avere – il mojito non è l’unica cosa che ho nello stomaco.

- E io? – fa Filippo guardandomi e fingendo di mettere il broncio.

- Eeeh... – sospiro – tu vai a fumare, lo sanno tutti che il fumo fa male...

Altre risate sceme da parte mia e di Massimo, mentre il biondino continua a squadrarmi a lungo.

- Senti – mi dice a bassa voce e avvicinandosi – mi fa un po’ schifo perché non è la mia e sono anche un po’ invidioso, ma hai della roba bianca tra i capelli.

Mi ci passo le dita diventando improvvisamente seria ed esclamando “oh cazzo” finché non sento l’appiccicume e mi ripulisco chiedendogli con lo sguardo se adesso lo sporco sia sparito. Invece di succhiarmele, però, stavolta le dita le asciugo su un tovagliolino di carta.

- Beh, sai come si dice – fa il tatuato – uno schizzo tra i capelli è un apostrofo bianco tra le parole “ti scopo”...

Torna la sghignazzata alcolica e torna la faccia ostentatamente imbronciata del biondino. Tendo la mano verso il suo braccio nel gesto tipico del “dai non te la prendere” e quando lo tocco mi sembra di toccare un sasso. “Cazzo, che bicipite”, penso. Non gli dico nulla, stavolta, ma quel contatto mi lascia dentro una strana sensazione.

Per qualche minuto non facciamo altro che dire cazzate e riderci sopra. Poi Massimo ha una buona idea: se ci mettiamo seduti a un tavolo e ordiniamo qualcosa stiamo più comodi e possiamo continuare a bere. Ovviamente, mi dice ancora una volta “offriamo noi”. E ci mancherebbe altro. E non solo perché ti ho appena succhiato il cazzo. D’accordo, sarei abbastanza ubriaca per dirgli anche questo, ma non lo dico.

Ci sediamo a un tavolo libero. La cameriera lesbica arriva e ci dice che quello è prenotato ma che ce ne procura subito un altro. Continua a guardarmi e a sorridermi. Mi sa che ha mangiato la foglia, da come mi osserva. Ma ancora una volta mi chiedo se sia davvero così o, semplicemente, se mi piaccia pensarlo.

Mangiamo, beviamo ancora. Vino, stavolta. Cazzeggiamo. Facciamo battute sempre più spinte. Non particolarmente volgari, ma è ovvio che la protagonista sono io. E in fin dei conti non mi dà nemmeno fastidio. Ci confidiamo a turno, come se chissà perché fosse un obbligo, le nostre iniziazioni sessuali e i due rimangono molto stupiti nell’apprendere che, fino a qualche mese fa, ero vergine. “Un crimine contro l’umanità”, sentenzia Filippo. Mi guardo bene però dal parlare del mio lungo apprendistato orale.

Il fischio finale lo dà Massimo. E lo posso anche capire. Io e il biondino tutto sommato non facciamo un cazzo nella vita, ma lui lavora e la mattina si alza presto. Gli chiedo ridendo se ha bisogno di un passaggio a casa e lui, ridendo a sua volta come uno scemo peggio di me, mi chiede se davvero sia così matta da pensare che accetterebbe un passaggio da una nelle mie condizioni. E comunque ha la macchina e abita a un chilometro da lì.

Paghiamo, usciamo, ci salutiamo con il tatuato. Mi dice senza nessuno scrupolo che gli è piaciuto farsi fare un pompino da me, che non gliene hanno mai fatto uno migliore e se qualche volta si può ripetere. Mi piego sulle gambe e sto al gioco, gli dico “ma come sarebbe a dire ‘qualche volta’? non sono mica una puttana”. Loro fanno un ironico “noooooo” all’unisono e finiamo quasi a ridere abbracciati per terra. Sembriamo tre ubriachi che danno spettacolo su un marciapiede, che è esattamente ciò che siamo. Non ho la minima idea se li rivedrò, ma stasera mi sono proprio divertita.

Filippo insiste per accompagnarmi alla macchina. Anche se è proprio dietro l’angolo e anche se a lui basterebbe attraversare la strada per rientrare a casa. Mi chiedo come farò a guidare in queste condizioni, mi chiedo come farò a mettere la macchina in garage. Mentre camminiamo affiancati mi cinge per la vita. Non lo fa in modo particolarmente violento, ma sembra che mi spezzi, che si voglia impossessare del mio corpo inglobandolo nel suo. Per la seconda volta nella serata, e stavolta in modo molto più diretto, avverto la dura solidità della sua muscolatura. “Cazzo – penso – ecco quello che mi mancava”.

Naturalmente so che la sua è solo una scusa per salire in macchina con me. In effetti non metto nemmeno in moto che lui ricomincia a lamentarsi, per scherzo, che stasera il suo amico ha ricevuto un pompino e lui no, che è tutta colpa mia. E’ esplicito, ma allo stesso tempo autoironico e mi diverte. E poiché sono ubriaca mi diverte anche più del dovuto. Mi dice che non posso lasciarlo così e mentre lo dice si avvicina al mio viso, io rido e lo lascio avvicinare. La conseguenza più logica è che finiamo a limonare come due quindicenni arrapati e che molto presto, mentre le nostre lingue si intrecciano, mi mette una mano su una tetta e l’altra su una coscia. Non è che la mano sulla coscia possa salire poi più di tanto, ma quella sulla tetta si dà da fare eccome, vista la reazione dei miei capezzoli. Se togliesse la mano e se non fosse così buio credo proprio che si vedrebbero spuntare da sotto il vestitino e il top.

- Dai, bionda, fa’ un pompino anche a me... – mi sussurra quando ci prendiamo un po’ di respiro. Non è nemmeno una richiesta, la sua, è un’esortazione. Accompagnata da una carezza sulla faccia.

- E come cazzo faccio? – gli domando ridendo e indicando il largo blocco che divide il sedile del passeggero da quello del guidatore.

- Dai, andiamo dietro – insiste.

Ma no, ma no. A parte il fatto che ho una forte inibizione a fare sesso nella macchina di mio padre (proprio perché si tratta di mio padre, immagino), di fare un altro pompino non mi va molto in questo momento.

Per meglio dire, la voglia me la farei pure venire. Mi basterebbe toccargli le braccia e il petto per qualche altro secondo, per farmela venire. Ma ho visto il lampo negli occhi di Serena quando se n’è andata e quando Filippo le ha detto che sarebbe uscito con lei a fumarsi una sigaretta. E io è vero che sono una puttanella, mai negato, mi conoscete. Tuttavia ho un codice, ce l’ho sempre avuto, fin da quando facevo solo pompini. Non si passa davanti alle amiche. Non l’ho mai fatto, né con Trilli né con Stefania. Anzi, una volta per Stefania feci anche di più. C’era un ragazzo a scuola, Marcello, che piaceva a tutte perché era impossibile che non piacesse. Piaceva anche a me anche se non mi si era mai filata molto. Stefania invece ne era proprio cotta, ragion per cui avevo accuratamente evitato fino a quel momento di farmi avanti. Un giorno lui la portò al mare e se la sbatté in macchina nella pineta di Ostia (Stefania ha sempre avuto una passione per le chiavate in macchina) salvo poi mollarla nemmeno ventiquattro ore dopo. Un vero idiota, Stefania è bellissima e in gamba, intelligente, sveglia. Chi se la piglia dovrebbe baciare la terra su cui cammina. Lui però poteva pigliarsi praticamente qualunque ragazza volesse. Chiaramente gira che ti rigira ci provò anche con me. La fica non gliel’avrei mai data, visto che a quel tempo ero vergine e aspettavo “il ragazzo giusto”, ma un pompino sicuramente gliel’avrei fatto molto volentieri. Mi toccò invece mandarlo affanculo, per lealtà. Non me ne sono mai pentita.

E adesso in un certo senso la scelta si ripropone. Certo, Serena non è Stefania, la conosco da poco, in fondo. Però mi piace e voglio farle questo regalo, anche se so che è un regalo che resterà solo nella mia testa.

Tuttavia non crediate che non mi costi. Filippo è davanti a me, arrapato come me, mi vuole. Lo guardo in silenzio e con un sorrisino ironico stampato sul volto. E’ proprio bello, mi è simpatico, non è un maleducato arrogante che si crede stocazzo, è ironico e a forza di baciarmi e toccarmi mi ha davvero scaldata. Scaldata proprio in quel senso, intendo. Qualche cosa di lui la desidero anche io, magari piccola, un pezzetto, un assaggino.

- Sai, una volta ho letto un racconto erotico... – gli dico.

- Leggi racconti erotici? – mi fa con un tono molto interessato.

- Sì. Dicevo: ho letto un racconto in cui la protagonista sta con un tipo, che è anche il suo capo al lavoro ma questo c’entra fino a un certo punto, e lui si accende una sigaretta dopo avere bagnato il filtro nella fica di lei... Anzi, se non ricordo male lei è talmente bagnata che la prima sigaretta che le infila dentro poi deve buttarla, per quanto è bagnata... Un personaggio magnifico, da cui prendere ispirazione, l’interstellar delle troie...

Quando finisco di ridere c’è una pausa lunghissima. Occhi negli occhi. I secondi passano lenti, ma proprio lenti. Non so dire quanti ma non conta. Mi sento al tempo stesso orgogliosamente e insopportabilmente zoccola.

- Va bene – dice lui tirando fuori il pacchetto dalla tasca e continuando a guardarmi dritto negli occhi – scosta le mutandine...

- Pensi che ce le abbia? – rispondo ridendo un’altra volta e tirandomi un po’ su la gonna del vestito di maglia.

Mi guarda. Cioè, voglio dire, mi guardava anche prima, ma mi guardava negli occhi. Adesso invece mi guarda tra le gambe. Non so che effetto faccia a lui, ma io mi sento decisamente una fontana.

- Non vorrai fumare in macchina – sussurro.

- No d’accordo, scendiamo.

Esco e faccio il giro dell’auto, mi appoggio allo sportello anteriore, dalla parte del marciapiede. E’ abbastanza buio e comunque non passa nessuno. Apro le gambe, ancora quella sensazione di prima: quella cioè di essere incommensurabilmente puttana. Lui appoggia il filtro della sigaretta sul mio sesso per cercarne l’entrata, avverto il fastidio della carta, il solletico. Poi il filtro che mi penetra di qualche millimetro e immediatamente dopo un dito che mi esplora nella mia intimità, che ci fruga dentro facendomi girare la testa, gemere, piegare le ginocchia.

- Porco – esalo quando riapro gli occhi e lo vedo con la sigaretta in bocca e l’accendino che ha già creato la sua fiammella – porco... dovevi mettere solo la sigaretta...

- Mi sono sbagliato, ti ha dato fastidio?

- Sei un po’ un cafone...

- Perché?

- Perché sì. Non si offre?

- Scusami – dice prendendo il pacchetto – non sapevo che fumassi, ne vuoi una?

Naturalmente non ha capito un cazzo. Non può capire un cazzo.

Gli afferro la mano e gli faccio tendere il dito che mi ha appena violata, lo porto alla bocca e lo succhio.

- Sì, ne voglio una – rispondo – ma per dopo...

- Dopo quando?

- Dopo.

- Ti piace il tuo sapore? – mi chiede mostrandomi il dito che ho succhiato.

- Sì.

- Ti piace più quando lo lecchi da un cazzo, vero?

Sdeng! Come fa a saperlo? Sarebbe da dire colpita e affondata, sarebbe da urlargli “sono tua, che cazzo aspetti?”. Ma non voglio.

- Te l’ho detto prima, sei un po’ cafone – sussurro con la voce rotta, ho un groppo alla gola per il desiderio. Per non parlare del groppo che ho giù in basso.

I nostri volti sono vicini quanto basta per permettergli di fumare, la sua mano mi afferra il sedere e lo tira a sé, portando a contatto i nostri corpi. Sento chiaramente il suo pacco gonfio. Sbuffo fuori la mia foia, come per allontanarla da me. E’ il momento di dire basta.

- Non sono cafone – sussurra – sei tu che sei un po’...

Scuoto la testa e non rispondo per qualche secondo, guardo in basso. Poi improvvisamente mi viene da ridere per l’ennesima volta. La sua mano è scivolata sotto la maglia e accarezza il sedere nudo.

- Non è vero? – mi domanda con un tono quasi sornione.

- Ti ha detto male con Serena? – chiedo dopo qualche secondo ancora di silenzio - non ti ha dato il numero?

- Sì che me lo ha dato – risponde piano – esci spesso senza mutandine?

- Ce l’avevo – ridacchio – me le sono tolte mentre ero di sotto con l’amico tuo... Scusa ma non ti basta il numero di Serena? Non ti piace?

- Certo che mi piace – risponde stringendomi una chiappa e facendomi quasi rabbrividire – ma lei non c’è, ora... ci sei tu... e secondo me sei anche più disponibile...

- E’ un modo per dire che sono più troia?

- Se vuoi...

- E tu che ne sai?

- Una mia impressione... dai, lo so che hai voglia, si vede...

- No, non è vero – mento.

Sì, mento. Perché è chiaro che in questo momento vorrei che mi facesse tutto, che vorrei essere la sua puttana di una sera.

Riesco però a divincolarmi, abbastanza bruscamente. Mi costa uno sforzo enorme perché sotto mi sento squagliata, ma devo farlo. Lo guardo cercando di fare la faccia dura, decisa.

Quel movimento per sfuggire dalla sua presa e questo sguardo sono il mio regalo a Serena, alla nostra amicizia.

- Ho detto no. Devo andare, dammi il tuo accendino.

Come faccia a tornare a casa in queste condizioni non lo so. Ubriaca e piena all’inverosimile di voglia di sesso. Nelle orecchie ho ancora le ultime proteste di Filippo, i suoi “ma perché”, “resta”, i suoi “lo vuoi anche tu”.

Mi perdo, per colpa di un senso unico e guido con una cautela indescrivibile concentrandomi su ogni metro di strada. Arrivo in una piazza conosciuta e da lì prendo la strada di casa, ma non ricordo nemmeno come ci arrivo. La memoria è come se si riaccendesse solo quando mi rendo conto di guardare la retrocamera sul display per parcheggiare nel posto più in fondo e più difficile del garage. Cazzo, papà, che buco che ti sei fatto dare per questa macchina così grossa!

Scendo e mi appoggio allo sportello dove prima, quando stavo con Filippo, mi ero appoggiata. Sono completamente sudata, sola. Il cancello automatico si è richiuso da un pezzo. Ansimo, un po’ per l’eccitazione un po’ per lo sforzo del parcheggio.

Prendo l’accendino e la sigaretta che mi sono fatta dare dal biondino, la osservo per un po’. Poi apro le gambe e me la infilo nella fregna. Brividi, il ricordo del suo dito che mi frulla dentro.

La porto alla bocca per accenderla e il mio odore quasi mi stende. La prima tirata ha un sapore stranissimo. Mentre aspiro ripenso a lui, al suo modo di parlare, al suo sorriso assassino, alla sua stretta e al suo corpo duro. Ah Serena, Serena, spero proprio che tu possa godertelo...

La mano libera mi scompare tra le cosce, tocco il clitoride gonfio, già pronto. Inumidisco un dito con i miei succhi e ce lo passo sopra delicatamente. Il piacere mi avvolge, ma mi sgrilletto per poco. In realtà ho voglia di essere penetrata, presa, di sentirmi alla mercé di un maschio.

Mi metto un dito dentro ma non mi basta. Per questo, contrariamente a quanto faccio di solito, me ne metto subito dentro un altro. Perché ho il bisogno di essere allargata e riempita da un cazzo, dal suo cazzo.

Aspiro un'altra boccata e mentre sbuffo via il fumo me le spingo nella vagina con decisione, non mi importa di farmi male. Adesso mi importa solo di immaginarmi sua. Mi rivedo nella scena di poco fa, appoggiata alla macchina in quella vietta buia poco lontana dal locale e poco lontana da casa sua. Raffiguro me stessa che lo implora “fammi essere la tua puttana”. Afferrata, messa a pecora sul sedile posteriore con il vestito alzato e la fica esposta a lui che invece è in piedi sul marciapiede. Infilzata bruscamente e sbattuta così come mi sto sbattendo da sola con le dita. Con la sua voce che mi arriva da dietro e mi dà della troia e mi deride: “Lo vedi quanta fame avevi di cazzo?”. E i miei “sì, sì, dammelo più forte”.

Più forte, dammelo più forte, fammelo sentire fino in pancia. Non mi sono mai sditalinata così forte.

Lascio cadere la sigaretta e mi massacro un seno. Il piacere che fino a pochi secondi fa mi sembrava così lontano adesso è qui. Non me l’aspettavo così veloce, ma lo sento arrivare. Anzi nemmeno, è già arrivato. E’ una scossa violenta, un attimo di buio, un rantolo.


FINE
scritto il
2019-10-15
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