Fidanzate - Ciao, cono Annalisa
di
Browserfast
genere
etero
Ciao, sono Annalisa. Permettete che mi presenti. Tanto per cominciare, scusate il tono formale dell’incipit. Soprattutto da una che cominciò il suo primo racconto scrivendo “ciao, sono Annalisa e faccio pompini”. Oddio, non che quello non fosse azzeccato, anzi. Era azzeccatissimo. Invece stavolta mi è presa così, che ci volete fare. Il fatto è che qualche settimana fa ero in macchina con il mio papà e a un certo punto ha fatto partire una canzone che cominciava proprio così: “Please allow me to introduce myself”, vi prego lasciate che mi presenti.
Aveva proprio voglia di sentire quella, il mio papà. C’è stato pure un bel po’ a smanettare sul touchscreen della macchina, tanto che a momenti tampona uno. Anzi, credo proprio che lo avrebbe tamponato se non gli avessi urlato, irrigidendomi e puntando i piedi, “cazzo pa’, frena!”. Lui ha proprio inchiodato, altro che frenato, si è sentito lo skreeeek delle gomme sull’asfalto. Poi, come se niente fosse, si è voltato verso di me e mi ha fatto “ma ste parole, Topolina?”.
E sì, ok, un po’ me ne vergogno, ma lui continua ancora a chiamarmi Topolina, come quando avevo quattro anni. Che cazzo vi devo dire, sono la piccola di casa. Per lui, poi, non ne parliamo proprio. Da quando mia sorella Martina ha fatto l’esame professionale ed è entrata in uno studio di avvocati sono ancora più cucciolina. Come se fossi tornata ad essere la ragazzina con la coda che lui accompagnava ogni martedì e ogni venerdì a lezione di tennis. O quella per cui lui chiedeva al fornaio una striscetta di pizza bianca e il formaio me la regalava. Tanto brava a scuola e poi tanto brava all’università, facoltà di matematica. L’eterea biondina sempre nella parte alta dei percentili per l’altezza e sempre in basso, fino a sfiorare i livelli di guardia, per quanto riguarda il peso.
Il fatto che mi sia sfuggita la parola “cazzo” lo ha, nonostante la situazione emergenziale, un po’ colpito. Sapete, in famiglia non ne diciamo quasi mai di parolacce. Non che sia un bacchettone, eh? E non è nemmeno scemo. Voglio dire, immagino che lo dia per scontato che io, nel mio ambiente e tra le mie amiche, non sia esattamente come sono a casa. Ma allo stesso tempo credo che sia convinto che i miei comportamenti, diciamo così, “sociali” non si discostino troppo da quelli cui lo ho abituato. Che poi sono quelli di una brava ragazza di buona famiglia borghese – mamma e papà sono medici – che almeno fino alle medie è andata a scuola dalle suore. Vabbè...
Ma comunque, tutto questo non c’entra una mazza con quello che vi volevo dire. Lo so, lo so, il mio modo di scrivere è un po’ divagante, ma che posso farci? Mi viene così. Due o tre lettori mi hanno anche detto “eh, ma in questo modo si perde il filo del discorso”. E d’accordo, cercate di non perderlo. O se lo perdete, ritrovatelo.
Il problema semmai è che a volte, come in questo momento, non mi ricordo nemmeno io cosa cazzo stavo dicendo... Ah, sì. Vi stavo parlando di quella canzone che ascoltava mio padre. Un po’ tipo festival del Pleistocene ma fica, però. No, dico davvero. Un sacco di ritmo e anche ossessiva come piace a me, wooo-wooo. Dicevo delle parole, del testo, “lasciate che mi presenti”. Mentre la ascoltavo pensavo che in effetti è proprio un bel modo di cominciare una canzone, soprattutto se è una canzone che parla in prima persona. Ci sono anche un sacco di romanzi che cominciano così, con una presentazione. Tipo, che ne so, “chiamatemi Ismaele”. No, ok, non è che mi voglia mettere a parlare di balene bianche, o azzurre, o nere. E’ solo per dirvi che, insomma, senza fare paragoni, anche io vorrei un minimo presentarmi prima di andare avanti con le mie storie su ER.
Sì, va bene, già lo sento qualcuno che dice, e chissà perché mi immagino che lo dica in romano, “ahò, ma hai già pubblicato ottocentoquaranta racconti qui sopra e te voi pure presentà? Tanto l’avemo già capito che sei ‘na...”. Ecco, fermatevi qua, non lo dite, non sta bene. Mica perché mi offendo, sia chiaro. Cioè, dipende. Dipende, come sempre, dalle situazioni.
Per farvi un esempio: se un ragazzo dopo avermi limonata per mezzora in disco mi porta nei bagni e mi dice “succhiami il cazzo, troia”, beh, che vi devo dire, ci sta. Anzi, mi piace proprio, mi eccita. Non dico che lo pretendo ma in un certo senso me l’aspetto. O meglio, un po’ ci conto pure. Penso di meritarmelo. Nel senso buono, voglio dire.
Se però lo stesso tipo, che cazzo ne so, mi incontrasse per strada e mi dicesse “ciao troia, ma non c’era una palestra da queste parti?”. Beh, mi sa che è molto probabile che si becchi una ginocchiata sui coglioni. Anche a freddo. In momento come questi sono abbastanza gelida, ma allo stesso tempo impulsiva. Non ci credete? Chiedetelo a quel coglione che mi aveva fatto un video mentre gli facevo un pompino e che si è ritrovato il Galaxy nuovo nuovo dentro la vasca del pesce rosso. Oppure a quell’altro stronzo omofobo che non riusciva a tollerare che io e la mia amica Serena facessimo ciù-ciù dentro la Rinascente e che si è visto stampare la punta delle mie Doc Martens proprio sulla cresta della tibia. Poi scappo, eh? E che cazzo, sì che scappo. Un po’ perché sono vigliacca e un po’ perché mica pretenderete che un’alicetta gambalunga come me si metta a fare a botte con uno che pesa il doppio di lei. Però intanto il danno te l’ho fatto, caro il mio testa di cazzo. Dio santo, sento ancora il “pluff” di quel telefono nell’acqua e il “thud” di quella tibia. Cazzo, girl power, altroché. We’re taking over.
Vabbè, nemmeno questo c’entra un cazzo con la presentazione, scusatemi. Ma adesso vengo al punto, prometto. Ah no, solo una cosa per chi mi legge e magari scrive anche racconti. Guardate che “c’entra” è voce del verbo “entrare” più una particella avverbiale. Invece “centra” è voce del verbo “centrare”. Ma dove l’avete imparato l’italiano, sulle istruzioni degli ovetti Kinder? E che cazzo, dai...
Ok, ok, torno alla questione principale. Mettiamo che qualcuno di voi lettori mi domandasse: dolce fanciulla, per quale motivo avverti la necessità impellente di presentarti ai lettori dopo avere pubblicato sì tanti racconti su questo sito? Non ritieni di averci già dato sufficienti elementi di conoscenza sulla tua aggraziata persona?
Va bene, se la mettete così vi rispondo. Anche se il dubbio che mi stiate prendendo per il culo rimane. I motivi sono comunque essenzialmente due.
Il primo è che sì, è vero, ho pubblicato un sacco di roba su ER, non tutta quella che ho scritto ma parecchia sì, non lo posso negare. Poiché ho anche scasinato un po’ l’ordine di pubblicazione vorrei precisare un po’ di cose.
Il prossimo racconto si chiama “Fidanzate” ed è la continuazione di un racconto a puntate intitolato “Questa sera mi chiamo Giulia”. In realtà quasi tutti i miei racconti sono a puntate. E sono pure belli lunghi. L’unico one shot è “Pioggia”, che poi è il primo che ho pubblicato qui su ER. Il primo tra quelli che ho scritto si intitola invece “Diversamente vergine” e anche quello l’ho postato su ER. Non c’è un motivo preciso per il quale ho pubblicato prima della roba che avevo scritto dopo e viceversa. Mi piacerebbe dirvi che l’ho fatto per rendervi le cose più complicate ma purtroppo non è vero nemmeno questo. Diciamo che è andata così.
Il secondo motivo per cui voglio presentarmi è di ordine più filosofico, oserei dire ermeneutico. Vedete, c’è questo spazio web che ER mette a disposizione sul proprio server, no? Io ho scritto il titolo, ho selezionato il genere (metterò sempre “etero”) e inserito il testo del racconto. Ho messo il nome dell’autore e l’email che non verrà pubblicata. Ho persino cliccato sui quadrati con le strisce pedonali e accettato i termini di utilizzo. Bene, a sto punto questo spazio è mio e ci scrivo il cazzo che mi pare e nell’ordine che mi pare, anche in modo un po’ incasinato se voglio. D’accordo? Del resto, non è colpa mia se non state attenti.
Quindi ari-ciao, sono Annalisa, permettete che mi presenti. No, d’accordo, non vi racconterò di nuovo le cose che ho già scritto e che ho già pubblicato qui. Sì, magari mi ripeterò qualche volta, ma solo quando sarà necessario. Perché in definitiva quello che mi interessa davvero non è che voi ci capiate qualcosa, quello che mi interessa è parlarvi della prossima storia.
Il racconto che sta per arrivare mi vede, inopinatamente direi, fidanzata. Una novità assoluta, per quanto mi riguarda, perché io non sono mai stata davvero fidanzata. Ok, l’ultimo anno delle medie e i primi due del ginnasio usavo chiamare “fidanzati” quei ragazzini come me con i quali facevo le mie prime esperienze. All’inizio goffe e, ripensandoci, tenerissime. Ma credo che tutti sappiamo, più o meno, quanto siano importanti. Potenziali “fidanzati”, però, non erano mica solo loro, erano anche quei compagni con i quali parlavo dieci minuti seduti su un muretto del giardino della scuola.
Solo dopo il ginnasio, però, capii che di essere fidanzata con qualcuno non avevo alcuna voglia. E lo capii un giorno che mi capitò di limonare e di fare una sega nei bagni della palestra a un ragazzo di nome Lucio, che mi disse qualcosa tipo “ci mettiamo insieme?”. Rispondere di sì mi parve anche abbastanza ovvio, visto che mi piaceva. Solo che la sera stessa feci un pompino a un altro che mi piaceva più o meno allo stesso modo, Alfredo. Intendiamoci, non era proprio la prima volta che succhiavo un ragazzo, ma non ero certo quella macchina da pompini che sarei diventata all’ultimo anno di liceo. Solo che questo Alfredo mi piaceva come Lucio, e in più mi aveva pagato il cinema e mi stava riportando a casa in motorino, salvo deviare e arrestarsi nella vietta che costeggia il parco, quella poco illuminata e con la rete rotta, dalla quale si poteva entrare in villa anche dopo il tramonto. Di fronte alla sua stessa domanda – “ci mettiamo insieme” o “facciamo coppia”, adesso non ricordo benissimo – dissi a me stessa che così non poteva funzionare, non è che nello stesso giorno ci si può fidanzare con due tipi diversi. Ad Alfredo non risposi immediatamente, forse ero ancora impegnata a deglutire il suo sperma. Ma credo proprio che il mio primo “no, dai, restiamo amici” lo pronunciai allora. Del resto, non ho mai tenuto particolarmente a presentarmi come una ragazza fidanzato-munita.
Vedete, non è che sia anaffettiva. Però, se penso a come passare il mio tempo davvero bene, se penso alle persone ideali con cui uscire una sera o andare in vacanza, se penso all’innocenza del divertimento o anche dello svacco, io penso alle mie amiche. A Stefania, a Trilli, a Serena. Certo non ad un ragazzo, tantomeno a un fidanzato. Non sono tanto una tipa da “amore mio”, promesse, paroline zuccherose. Né tantomeno da storie esclusive, gelose, possessive. Di quelle che lui ti dice tu sei la mia ragazza e fai il cazzo che ti dico io, le considero un orrore.
Da qualunque parte la vediate, insomma, avrete ben capito che non sono tanto una tipa da fidanzati.
Purtroppo però mi piace il cazzo.
E questo obiettivamente è un problema, se non si esce fuori dai soliti schemi. Non sarà mica un caso che l’unico che mi abbia davvero fatto sentire qualcosa (no, siamo giusti, molto più di qualcosa) non è mai stato il classico fidanzato e mi sia resa conto che il nostro era amore solo dopo che abbiamo scazzato in modo furibondo e non ci siamo più visti.
Si chiama Tommy. La nostra storia la potete trovare in “Diversamente vergine” e nei capitoli degli altri racconti successivi.
L’ultima volta l’ho sentito proprio a capodanno, durante quella festa in cui è ambientato “Questa sera mi chiamo Giulia”. Mi ha chiamata per farmi gli auguri. Lo aveva fatto anche il 15 dicembre. Che cazzo sarà successo mai il 15 dicembre, vi chiederete. Beh, era un anno che lui.... cioè, quello è il giorno in cui, un anno prima... sì, insomma, la prima volta. Con lui, con Tommy. Con il quale di “prime volte” ce ne sono state parecchie, non è il caso di metterci qui a enumerarle. Se proprio devo dirne una, con lui ho fatto per la prima volta sesso in un luogo pubblico, in una strada buia, dentro una nicchia in una notte fredda e nebbiosa di Bologna. Sì, d’accordo, pompini all’aria aperta ne avevo fatti tanti, ma sto proprio parlando di quello. Di essere messa faccia al muro e obliterata come un biglietto dell’autobus, con tanto di collant strappati che, boh, sul momento non ci feci nemmeno troppo caso ma che a ripensarci dopo mi è sembrata proprio una cosa da maiala. Cazzo, dovreste provare, sorelle. Lì sì che una si sente davvero “presa”, “posseduta”, altro che farselo mettere nel culo. Cosa che tra l’altro Tommy fece, e anche in questo caso fu una “prima volta”, proprio la notte del nostro ultimo, furioso e definitivo litigio. La scopata della rabbia, mai provata? Tra l’altro non ho mai capito se, appunto, lo fece per rabbia o perché gliel’avevo promesso che prima o poi... Ma conta poco, alla fine. E non è questo il ricordo che voglio avere di lui. Lui era uno che, quando ci frequentavamo, mi bastava sentire che era intorno, nemmeno avevo bisogno di parlarci. Tutto diventava speciale. E invece, le ultime due volte che l’ho sentito per telefono... Boh, forse è proprio vero che lontano dagli occhi lontano dal cuore, non lo so. Però è triste. Mi viene la tristezza ogni volta che ci penso. E per fortuna non ci penso troppo spesso.
CONTINUA
Aveva proprio voglia di sentire quella, il mio papà. C’è stato pure un bel po’ a smanettare sul touchscreen della macchina, tanto che a momenti tampona uno. Anzi, credo proprio che lo avrebbe tamponato se non gli avessi urlato, irrigidendomi e puntando i piedi, “cazzo pa’, frena!”. Lui ha proprio inchiodato, altro che frenato, si è sentito lo skreeeek delle gomme sull’asfalto. Poi, come se niente fosse, si è voltato verso di me e mi ha fatto “ma ste parole, Topolina?”.
E sì, ok, un po’ me ne vergogno, ma lui continua ancora a chiamarmi Topolina, come quando avevo quattro anni. Che cazzo vi devo dire, sono la piccola di casa. Per lui, poi, non ne parliamo proprio. Da quando mia sorella Martina ha fatto l’esame professionale ed è entrata in uno studio di avvocati sono ancora più cucciolina. Come se fossi tornata ad essere la ragazzina con la coda che lui accompagnava ogni martedì e ogni venerdì a lezione di tennis. O quella per cui lui chiedeva al fornaio una striscetta di pizza bianca e il formaio me la regalava. Tanto brava a scuola e poi tanto brava all’università, facoltà di matematica. L’eterea biondina sempre nella parte alta dei percentili per l’altezza e sempre in basso, fino a sfiorare i livelli di guardia, per quanto riguarda il peso.
Il fatto che mi sia sfuggita la parola “cazzo” lo ha, nonostante la situazione emergenziale, un po’ colpito. Sapete, in famiglia non ne diciamo quasi mai di parolacce. Non che sia un bacchettone, eh? E non è nemmeno scemo. Voglio dire, immagino che lo dia per scontato che io, nel mio ambiente e tra le mie amiche, non sia esattamente come sono a casa. Ma allo stesso tempo credo che sia convinto che i miei comportamenti, diciamo così, “sociali” non si discostino troppo da quelli cui lo ho abituato. Che poi sono quelli di una brava ragazza di buona famiglia borghese – mamma e papà sono medici – che almeno fino alle medie è andata a scuola dalle suore. Vabbè...
Ma comunque, tutto questo non c’entra una mazza con quello che vi volevo dire. Lo so, lo so, il mio modo di scrivere è un po’ divagante, ma che posso farci? Mi viene così. Due o tre lettori mi hanno anche detto “eh, ma in questo modo si perde il filo del discorso”. E d’accordo, cercate di non perderlo. O se lo perdete, ritrovatelo.
Il problema semmai è che a volte, come in questo momento, non mi ricordo nemmeno io cosa cazzo stavo dicendo... Ah, sì. Vi stavo parlando di quella canzone che ascoltava mio padre. Un po’ tipo festival del Pleistocene ma fica, però. No, dico davvero. Un sacco di ritmo e anche ossessiva come piace a me, wooo-wooo. Dicevo delle parole, del testo, “lasciate che mi presenti”. Mentre la ascoltavo pensavo che in effetti è proprio un bel modo di cominciare una canzone, soprattutto se è una canzone che parla in prima persona. Ci sono anche un sacco di romanzi che cominciano così, con una presentazione. Tipo, che ne so, “chiamatemi Ismaele”. No, ok, non è che mi voglia mettere a parlare di balene bianche, o azzurre, o nere. E’ solo per dirvi che, insomma, senza fare paragoni, anche io vorrei un minimo presentarmi prima di andare avanti con le mie storie su ER.
Sì, va bene, già lo sento qualcuno che dice, e chissà perché mi immagino che lo dica in romano, “ahò, ma hai già pubblicato ottocentoquaranta racconti qui sopra e te voi pure presentà? Tanto l’avemo già capito che sei ‘na...”. Ecco, fermatevi qua, non lo dite, non sta bene. Mica perché mi offendo, sia chiaro. Cioè, dipende. Dipende, come sempre, dalle situazioni.
Per farvi un esempio: se un ragazzo dopo avermi limonata per mezzora in disco mi porta nei bagni e mi dice “succhiami il cazzo, troia”, beh, che vi devo dire, ci sta. Anzi, mi piace proprio, mi eccita. Non dico che lo pretendo ma in un certo senso me l’aspetto. O meglio, un po’ ci conto pure. Penso di meritarmelo. Nel senso buono, voglio dire.
Se però lo stesso tipo, che cazzo ne so, mi incontrasse per strada e mi dicesse “ciao troia, ma non c’era una palestra da queste parti?”. Beh, mi sa che è molto probabile che si becchi una ginocchiata sui coglioni. Anche a freddo. In momento come questi sono abbastanza gelida, ma allo stesso tempo impulsiva. Non ci credete? Chiedetelo a quel coglione che mi aveva fatto un video mentre gli facevo un pompino e che si è ritrovato il Galaxy nuovo nuovo dentro la vasca del pesce rosso. Oppure a quell’altro stronzo omofobo che non riusciva a tollerare che io e la mia amica Serena facessimo ciù-ciù dentro la Rinascente e che si è visto stampare la punta delle mie Doc Martens proprio sulla cresta della tibia. Poi scappo, eh? E che cazzo, sì che scappo. Un po’ perché sono vigliacca e un po’ perché mica pretenderete che un’alicetta gambalunga come me si metta a fare a botte con uno che pesa il doppio di lei. Però intanto il danno te l’ho fatto, caro il mio testa di cazzo. Dio santo, sento ancora il “pluff” di quel telefono nell’acqua e il “thud” di quella tibia. Cazzo, girl power, altroché. We’re taking over.
Vabbè, nemmeno questo c’entra un cazzo con la presentazione, scusatemi. Ma adesso vengo al punto, prometto. Ah no, solo una cosa per chi mi legge e magari scrive anche racconti. Guardate che “c’entra” è voce del verbo “entrare” più una particella avverbiale. Invece “centra” è voce del verbo “centrare”. Ma dove l’avete imparato l’italiano, sulle istruzioni degli ovetti Kinder? E che cazzo, dai...
Ok, ok, torno alla questione principale. Mettiamo che qualcuno di voi lettori mi domandasse: dolce fanciulla, per quale motivo avverti la necessità impellente di presentarti ai lettori dopo avere pubblicato sì tanti racconti su questo sito? Non ritieni di averci già dato sufficienti elementi di conoscenza sulla tua aggraziata persona?
Va bene, se la mettete così vi rispondo. Anche se il dubbio che mi stiate prendendo per il culo rimane. I motivi sono comunque essenzialmente due.
Il primo è che sì, è vero, ho pubblicato un sacco di roba su ER, non tutta quella che ho scritto ma parecchia sì, non lo posso negare. Poiché ho anche scasinato un po’ l’ordine di pubblicazione vorrei precisare un po’ di cose.
Il prossimo racconto si chiama “Fidanzate” ed è la continuazione di un racconto a puntate intitolato “Questa sera mi chiamo Giulia”. In realtà quasi tutti i miei racconti sono a puntate. E sono pure belli lunghi. L’unico one shot è “Pioggia”, che poi è il primo che ho pubblicato qui su ER. Il primo tra quelli che ho scritto si intitola invece “Diversamente vergine” e anche quello l’ho postato su ER. Non c’è un motivo preciso per il quale ho pubblicato prima della roba che avevo scritto dopo e viceversa. Mi piacerebbe dirvi che l’ho fatto per rendervi le cose più complicate ma purtroppo non è vero nemmeno questo. Diciamo che è andata così.
Il secondo motivo per cui voglio presentarmi è di ordine più filosofico, oserei dire ermeneutico. Vedete, c’è questo spazio web che ER mette a disposizione sul proprio server, no? Io ho scritto il titolo, ho selezionato il genere (metterò sempre “etero”) e inserito il testo del racconto. Ho messo il nome dell’autore e l’email che non verrà pubblicata. Ho persino cliccato sui quadrati con le strisce pedonali e accettato i termini di utilizzo. Bene, a sto punto questo spazio è mio e ci scrivo il cazzo che mi pare e nell’ordine che mi pare, anche in modo un po’ incasinato se voglio. D’accordo? Del resto, non è colpa mia se non state attenti.
Quindi ari-ciao, sono Annalisa, permettete che mi presenti. No, d’accordo, non vi racconterò di nuovo le cose che ho già scritto e che ho già pubblicato qui. Sì, magari mi ripeterò qualche volta, ma solo quando sarà necessario. Perché in definitiva quello che mi interessa davvero non è che voi ci capiate qualcosa, quello che mi interessa è parlarvi della prossima storia.
Il racconto che sta per arrivare mi vede, inopinatamente direi, fidanzata. Una novità assoluta, per quanto mi riguarda, perché io non sono mai stata davvero fidanzata. Ok, l’ultimo anno delle medie e i primi due del ginnasio usavo chiamare “fidanzati” quei ragazzini come me con i quali facevo le mie prime esperienze. All’inizio goffe e, ripensandoci, tenerissime. Ma credo che tutti sappiamo, più o meno, quanto siano importanti. Potenziali “fidanzati”, però, non erano mica solo loro, erano anche quei compagni con i quali parlavo dieci minuti seduti su un muretto del giardino della scuola.
Solo dopo il ginnasio, però, capii che di essere fidanzata con qualcuno non avevo alcuna voglia. E lo capii un giorno che mi capitò di limonare e di fare una sega nei bagni della palestra a un ragazzo di nome Lucio, che mi disse qualcosa tipo “ci mettiamo insieme?”. Rispondere di sì mi parve anche abbastanza ovvio, visto che mi piaceva. Solo che la sera stessa feci un pompino a un altro che mi piaceva più o meno allo stesso modo, Alfredo. Intendiamoci, non era proprio la prima volta che succhiavo un ragazzo, ma non ero certo quella macchina da pompini che sarei diventata all’ultimo anno di liceo. Solo che questo Alfredo mi piaceva come Lucio, e in più mi aveva pagato il cinema e mi stava riportando a casa in motorino, salvo deviare e arrestarsi nella vietta che costeggia il parco, quella poco illuminata e con la rete rotta, dalla quale si poteva entrare in villa anche dopo il tramonto. Di fronte alla sua stessa domanda – “ci mettiamo insieme” o “facciamo coppia”, adesso non ricordo benissimo – dissi a me stessa che così non poteva funzionare, non è che nello stesso giorno ci si può fidanzare con due tipi diversi. Ad Alfredo non risposi immediatamente, forse ero ancora impegnata a deglutire il suo sperma. Ma credo proprio che il mio primo “no, dai, restiamo amici” lo pronunciai allora. Del resto, non ho mai tenuto particolarmente a presentarmi come una ragazza fidanzato-munita.
Vedete, non è che sia anaffettiva. Però, se penso a come passare il mio tempo davvero bene, se penso alle persone ideali con cui uscire una sera o andare in vacanza, se penso all’innocenza del divertimento o anche dello svacco, io penso alle mie amiche. A Stefania, a Trilli, a Serena. Certo non ad un ragazzo, tantomeno a un fidanzato. Non sono tanto una tipa da “amore mio”, promesse, paroline zuccherose. Né tantomeno da storie esclusive, gelose, possessive. Di quelle che lui ti dice tu sei la mia ragazza e fai il cazzo che ti dico io, le considero un orrore.
Da qualunque parte la vediate, insomma, avrete ben capito che non sono tanto una tipa da fidanzati.
Purtroppo però mi piace il cazzo.
E questo obiettivamente è un problema, se non si esce fuori dai soliti schemi. Non sarà mica un caso che l’unico che mi abbia davvero fatto sentire qualcosa (no, siamo giusti, molto più di qualcosa) non è mai stato il classico fidanzato e mi sia resa conto che il nostro era amore solo dopo che abbiamo scazzato in modo furibondo e non ci siamo più visti.
Si chiama Tommy. La nostra storia la potete trovare in “Diversamente vergine” e nei capitoli degli altri racconti successivi.
L’ultima volta l’ho sentito proprio a capodanno, durante quella festa in cui è ambientato “Questa sera mi chiamo Giulia”. Mi ha chiamata per farmi gli auguri. Lo aveva fatto anche il 15 dicembre. Che cazzo sarà successo mai il 15 dicembre, vi chiederete. Beh, era un anno che lui.... cioè, quello è il giorno in cui, un anno prima... sì, insomma, la prima volta. Con lui, con Tommy. Con il quale di “prime volte” ce ne sono state parecchie, non è il caso di metterci qui a enumerarle. Se proprio devo dirne una, con lui ho fatto per la prima volta sesso in un luogo pubblico, in una strada buia, dentro una nicchia in una notte fredda e nebbiosa di Bologna. Sì, d’accordo, pompini all’aria aperta ne avevo fatti tanti, ma sto proprio parlando di quello. Di essere messa faccia al muro e obliterata come un biglietto dell’autobus, con tanto di collant strappati che, boh, sul momento non ci feci nemmeno troppo caso ma che a ripensarci dopo mi è sembrata proprio una cosa da maiala. Cazzo, dovreste provare, sorelle. Lì sì che una si sente davvero “presa”, “posseduta”, altro che farselo mettere nel culo. Cosa che tra l’altro Tommy fece, e anche in questo caso fu una “prima volta”, proprio la notte del nostro ultimo, furioso e definitivo litigio. La scopata della rabbia, mai provata? Tra l’altro non ho mai capito se, appunto, lo fece per rabbia o perché gliel’avevo promesso che prima o poi... Ma conta poco, alla fine. E non è questo il ricordo che voglio avere di lui. Lui era uno che, quando ci frequentavamo, mi bastava sentire che era intorno, nemmeno avevo bisogno di parlarci. Tutto diventava speciale. E invece, le ultime due volte che l’ho sentito per telefono... Boh, forse è proprio vero che lontano dagli occhi lontano dal cuore, non lo so. Però è triste. Mi viene la tristezza ogni volta che ci penso. E per fortuna non ci penso troppo spesso.
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