Fidanzate - La luccicanza
di
Browserfast
genere
etero
– La perfezione… – sussurra.
Il complimento mi piace, mi fa stare bene. Anche se ci sono abituata, non è mai abbastanza. Quello che mi fa stare anche meglio è la sua mano che scivola leggera sulle mie natiche e mi dona brividi e pelle d’oca. Vorrei che si facesse più audace e che scivolasse più in basso, a sentire come sono ridotta. Da almeno un paio d’ore.
Dalle sue mani ho ricevuto solo carezze, dalla sua bocca solo baci, anche se furiosi. Ma va tutto bene, è davvero tutto ok. Se adesso, per esempio, sto ansimando, è perché alla fine ci ho dovuto pensare da sola. Ma è stato tutto fantastico lo stesso. In lei mi sono rivista nella mia prima, timorosa, volta con quella stronza di Viola. In lei ho rivisto l’incertezza di Serena la prima volta con me. In lei ho scoperto un fondo di fragilità e tenerezza, che non sospettavo minimamente, quando mi ha detto “ti dispiace se non ti faccio nulla? non so come fare, non l’ho mai fatto”.
Per la verità, quando ci siamo alzate dal tavolino di quel bar mi sentivo un po’ prigioniera del suo essere così decisa. Ho subìto persino il suo modo di pagare il conto (“lascia, faccio io”), quei trenta euro gettati ostentatamente lì, accanto al mio bicchiere di birra non ancora scolata, che erano oggettivamente un’esagerazione. E ho anche subìto, mentre camminavamo sotto le luci ancora natalizie di viale Parioli, la sua curiosità irriverente, quasi irridente: “Ma tu te bagni sempre così?”. “Sì, da sempre, all’inizio mi vergognavo tantissimo”.
E mi sono vergognata anche in quel momento, mi sono vergognata di essermi sollevata la gonna e di avere aperto le cosce di fronte a lei per farle vedere che luccicavo. Mi sono vergognata anche se avrei dovuto essere orgogliosa, in fondo. Perché quella bravata me l’ero costruita nella stanza più perversa della mia mente, me l’ero immaginata. E alla fine l’avevo realizzata. E forse, anche se non potevo esserne certa in quel momento, l’avevo sedotta. Cos’altro poteva significare il suo invito a fumarsi a casa sua i cannoni che le aveva dato Gange? Sappiamo bene entrambe l’effetto che ci fa quella roba.
Solo su una cosa sono riuscita a impormi, per così dire. Quando le ho chiesto ragione di una cosa che non mi tornava. Di quei suoi modi da coatta, di quel suo modo così pesantemente romanesco di parlare, che contrastava, strideva, con l’immagine della ragazzina sballata sì, ma delicata e quasi innocente, che avevo conosciuto alla festa di Capodanno. “Sono due maschere, volendo ne ho di più, mi diverto a usarle”, mi ha risposto. E prima ancora che potessi riprendermi dalla sorpresa ha aggiunto: “E poi, fare la grezzona me veniva più semplice nel caso avessi deciso de mannatte affanculo”.
Quando entriamo in casa, dopo avere camminato per un chilometro buono, mi ha già raccontato che ha iniziato il liceo allo Chateaubriand ma che poi ha cambiato, perché i suoi non erano soddisfatti, e che adesso va a un istituto privato a piazza di Spagna, è all’ultimo anno. E che le estati le passa all’estero. Io le dico che sono al secondo di università e quasi non ci crede, pensava che fossi più piccola di lei. Rispondo che è un errore che fanno in molti e che non ci posso fare nulla se non, al limite, disegnarmi delle rughe sul contorno occhi. Mi chiede pure “ma come cazzo ti va di fare matematica”, che è un’altra domanda che mi sento fare spesso. “A matematica ci sono i ragazzi con i cazzi più grossi”, e almeno le strappo una risata. Piuttosto, sono io che sono curiosa di sapere dove cazzo abbia conosciuto uno come Gange. A una festa, naturalmente, dove nessuno ha mai capito come ci si sia intrufolato. E che lui sì che è più piccolo, ha diciassette anni. E quando lo ha conosciuto ne aveva pure uno di meno e già spacciava.
– Mi ha fatto provare sta roba – dice battendo sul taschino dove tiene i due cannoni – e mi ha detto che potevo farmi viva quando volevo, se avessi avuto intenzione di riprovarla. Naturalmente lo sapevo benissimo che puntava a scoparmi, e naturalmente l’ho fatto venire a casa mia e me lo sono scopato. La storia è nata così, ma te l’ho detto, ste bombe c’entrano fino a un certo punto. Ti arrapano da matti, ma la verità è che lui mi è piaciuto sin da subito.
– Anche a me ha fatto la stessa proposta.
– Non ne dubito. Magari ti si vuole solo scopare, o magari vuole fare di te la sua “fregna cristiana” al posto mio. Chi lo sa…
Riconosco quella gelosia. E’ la stessa che c’era nella sua voce alla festa di Capodanno, quando mi chiese che intenzioni avessi con Gange. Nessuna, se c’è uno che proprio non mi attizza è Gange, puoi stare tranquilla. Non glielo dico proprio così per non urtare la sua suscettibilità, ma il senso è quello.
La casa è immersa nell’oscurità. Dalla strada non filtra nessuna luce. Forse è perché le finestre sono lontane, o forse è perché siamo all’attico. Non ho modo di scoprirlo, perché all’ingresso c’è una scala di legno che Roberta mi invita a salire. “La stanza mia è di sopra”. In realtà è qualcosa a metà tra un superattico e una mansardina. Dietro una porta chiusa a chiave c’è un piccolo soggiorno con tanto di sedie, scrivania, computer e divano. Poi un bagnetto. E infine un’altra porta chiusa con un cartello appiccicato sopra: “Do not disturb/ne pas déranger STO SCOPANDO”, con i simboli che si usano per i cartelli dei men at work all’estero, solo che questo raffigura un maschio che si sta fottendo una ragazza messa a pecora. Rido e le domando “e questo?”. Se l’è fatto fare in un negozio della zona che conosco bene anche io, rinomato per vendere a caro prezzo cose assolutamente inutili ma allo stesso tempo assolutamente indispensabili.
Nella stanza campeggia un letto a due piazze e un comodino, stop. C’è una cameretta accanto che deve fare da armadio, dove butta il giubbino dopo averne tirato fuori una delle due canne. Dalla borsa prende telefono e accendino, si siede sul letto e dà fuoco alla carta, fa una lunga tirata. Il suo viso si trasfigura immediatamente, chiude gli occhi, si rilassa in ogni muscolo, trema un po’. Quando si riprende dà un’altra tirata più piccola e me la passa. E’ davvero enorme e penso che Gange non abbia badato a spese. Roberta butta fuori il fumo e mi guarda: “Ti spogli per favore?”. Con una mano mi porto il cannone alle labbra e con l’altra cerco la zip del vestito dietro la schiena. Mentre aspiro penso tra me e me che le ho obbedito come un automa, poi la botta. Forse anche più forte di quelle che ho provato a Capodanno. Vacillo, mi gira la testa. Dopo una quindicina di secondi mi sento più stabile, ma indescrivibilmente più leggera. Lascio scivolare giù il vestito e anche io, come lei in precedenza, do un’altra tirata. Quando riapro gli occhi mi sembra di avere cambiato pianeta, lei è davanti a me che mi riprende con il telefono. Le sorrido un “che cazzo fai?”, senza avere la forza di oppormi come di regola farei, non mi piace essere ripresa. “Faccio un’insta-story, la chiamerò ‘La troia e la fionda’ ahahahahah…”. “No, dai…”, le sorrido. Al tempo stesso il fatto che per la prima volta mi abbia chiamata “troia” mi provoca una contrazione. Mi rendo conto che al cospetto dell’obiettivo sono con il vestito alle caviglie, gli stivaletti, le autoreggenti e il reggiseno. E la fica all’aria, che mi sta tornando un lago. Do un’altra tirata e le ripasso il cannone. “No, ti prego…”, le faccio senza molta convinzione dopo avere espirato il fumo. Mi risponde ridendo “scherzavo, non ti preoccupare”, ma anche se non mi avesse rassicurata, me ne rendo conto perfettamente, avrei continuato lo stesso a spogliarmi.
Appoggio la schiena nuda sulla testiera morbida del letto, apro le gambe. Roberta mi consegna il telefono dicendo “guardati” e ricomincia a fumare. Mi guardo. E sarà perché lo sento dentro, ma mi sembra che tutta l’immagine di me che subisco l’effetto devastante di quell’erba esprima una sola cosa: voglia, irrefrenabile e immediata, di sesso.
Come dicevo, però, il cannone è enorme. Ci mettiamo molto tempo a finirlo. Le dico “lo cancelli, per favore, non mi piace”, poi senza nemmeno restituirle il telefono prima mando il video nel cestino e poi nell’iperspazio. Ho la voce già impastata, rido come una scema. Lei mi domanda se non mi sono mai ripresa mentre scopavo. Non le rispondo e le chiedo invece dove cazzo prenda Gange questa roba e cosa ci sia dentro di speciale. Non si sa, non lo dice, non gliel’ha mai detto. Ha rinunciato a chiederglielo. Me lo passa per l’ultimo paio di tirate e si china a guardarmi tra le cosce. “Lo sai che è vero che luccichi?”, dice. Il tono della sua voce mi conferma che è bella partita pure lei.
Do l’ultima, lunga, aspirata e lascio cadere la cicca nel posacenere. Trattengo il respiro mentre i brividi mi squassano. Un po’ meno di prima, ma mi squassano. Non mi rendo nemmeno conto di come riesca a mettermi seduta e le afferri la nuca, la tiri verso di me e la baci, espirandole in bocca il mio fumo. Porto una mano sotto il suo maglione e trovo una tetta libera, soda e gonfia, con il capezzolo già indurito. Stavolta lo sguardo di Roberta ha perso ogni sicurezza, è stravolto. Butta fuori il fumo e miagola “non ero mai stata baciata da una ragazza”. Mi avvento verso di lei come una furia e la bacio di nuovo, le spingo tutta le lingua in bocca. Mi distacco e la guardo negli occhi: “Ti spogli da sola o ti piace la violenza?”.
– La perfezione – sussurra Roberta un’ora dopo – la perfezione…
Le rispondo un po’ ridacchiando e un po’ miagolando come una gatta che anche il suo non è male. E lo posso proprio dire. Perché io quel sedere l’ho leccato, morso, baciato, profanato. Non mi aspettavo che mi accogliesse così, che mi stringesse palpitando così. Ancora meno mi aspettavo che, subito dopo averglielo sfilato, me lo succhiasse quel “ditino meraviglioso”, come l’ha chiamato lei. Sì certo, quel ditino meraviglioso gliel’avevo frullato per bene nella vagina, mentre con la lingua le frullavo il grilletto. Sì certo, magari dopo avere strillato come una gallina strangolata non si rendeva nemmeno conto di quello che faceva. Fragoroso, il suo secondo orgasmo. Il primo non era stato così, era stato più come un lungo brivido. Ma del resto, dopo i primi cinque minuti di furia assoluta, tutta la prima scopata era stata come un lungo brivido. Tutto era stato come se, ad ogni bacio, leccata, risucchio, lei fosse lì lì per chiedermi “cosa stai facendo?”. Ma la seconda volta l’ho presa con cattiveria, come ogni tanto faccio con Serena (e Serena con me). L’ho presa, l’ho fatta mia. E lei si è lasciata prendere Il suo stupore, forse la sua paura, la prima volta che le ho passato la lingua lungo tutta la fica, me li ricorderò. Ma ricorderò anche il piccolo e iper-curato triangolino sul pube. E ricorderò come la prima volta invocasse quasi frignando “Giulia”, e come la seconda mi abbia invece ringhiato “puttana”.
“Indimenticabile”, le sospiro mentre lei sembra quasi scusarsi per essere stata solo passiva. Le dico di non pensarci e che, se proprio vuole fare qualcosa per me, può stendersi sulla mia schiena. Lo fa e immediatamente sento la spinta dei suoi seni sul mio dorso. E’ una cosa che mi fa impazzire, a Serena lo chiedo sempre di schiacciarmi così. Roberta forse ha le tette un po’ più grandi. E’ un po’ come Stefania, anche se non è così bella come Stefania. E’ molto carina, ma non bella come la mia amica. Mi domando se avrei mai il coraggio di prendere Stefania come ho preso lei.
E, mentre ci sto pensando, ecco quello che non mi aspetto. Cioè, non che non mi aspetti di sentirmi sussurrare qualcosa nell’orecchio, quello ci sta in un momento come questo. Non mi aspetto proprio quello che ha da dirmi. E che me lo dica con questo tono così immorale.
– Giulia, non sono mai stata così… non hai… non hai voglia di un uomo adesso? Ti scongiuro dimmi di sì…
Allargo le braccia e subito dopo sento le sue mani che me le accarezzano, leggere. Ho un brivido, la pelle d’oca. Non so nemmeno io di cosa ho voglia. Avrei voluto la sua lingua, il suo dito. Anche lo stick del deodorante andrebbe bene in questo momento. A parte l’ovetto di Giancarlo, non ho mai giocato tanto con gli oggetti.
– Sono… ho il ragazzo – le rispondo con un soffio.
Ho stupore di me stessa. Perché mi rendo conto che sto combattendo contro la mia voglia. Perché la sua domanda mi ha trafitta. Non glielo voglio dire ma sì, mi è montata una voglia terribile di scopare. Diciamolo meglio: ora come ora ho una voglia terribile di essere scopata. Forte. Di essere io passiva, di fare tutto quello vuole lui e di essere oscena. Di sentirmi domandare “chi sei?” da uno sconosciuto e di rispondergli piagnucolando “stasera sono la tua puttana, che aspetti?”. Sì, ho una voglia terribile di essere la troia di qualcuno. E certamente quel qualcuno non può essere Davide. Con lui è una cosa completamente diversa.
– Non è necessario che lo sappia, non lo saprà mai… – insiste continuando a sussurrarmi nell’orecchio – lo so che ti va…
Prendo tempo, le dico che ho bisogno di farmi una doccia. Risponde “anche io” e si tira su. La osservo mentre si raccoglie i capelli e mi torna la voglia anche del suo corpo nudo. Soprattutto, vorrei che mi facesse un ditalino mentre siamo in piedi, vorrei che me lo facesse mentre mi dice quanto sono troia. Ci sto impazzendo dietro a questo mio desiderio di remissività. Avete presente quelle cazzate sulla dominazione? Ecco, io ritengo che siano eccessive. Ma in questo momento ho un bisogno quasi fisico di essere dominata. Un bisogno che so benissimo che non potrebbe soddisfare nemmeno lei.
Fare la doccia insieme è una tortura. Anche perché, per non bagnarci i capelli, usiamo il doccino, e lei me lo indirizza più volte sul grilletto. La sua voglia non sembra essersi placata per nulla. La sua voglia accresce la mia. Il doccino ha un manico lungo e arrotondato, un po’ curvo. La sua proposta indecente, quando arriva, non mi stupisce più di tanto. “Lo vuoi sapere che ci faccio con questo e con l’acqua tiepida? Eh? Dietro non lo consiglio, ma…. Vuoi provare? Eh? Vuoi provare?”. Rispondo di no, ma devo appoggiarmi alle piastrelle. Sono esasperata dal desiderio e dall’acqua che batte sul clitoride. E lei lo sa, lo vede. E’ come al bar, ha riconquistato il comando.
Mi chiede “sei mai stata con uno più grande? Magari sposato?”. E io se potessi sorriderei, perché proprio pochi giorni fa questa cosa l’ho confessata a mia sorella Martina. Ma a sorridere proprio non ce la faccio. Riesco solo ad ansimare “sì… sì…”, con lo stesso tono di voce che mi esce quando mi scopano. Roberta vuole sapere chi, e io le parlo, con frasi smozzicate, del prof della scuola di inglese e di Davìd, questa estate a Londra. E naturalmente di Edoardo, il Capo, anche se tralascio di parlarle del suo megacazzo e le dico solo che è il cognato di una mia amica. ”Davvero sei così troia?”. Le rispondo quasi strillando “anche peggio”. Liberandomi, mostrandole quello che sono, come se fosse un orgasmo. Chiude l’acqua di colpo ed esce dal box doccia, si infila l’accappatoio e sparisce nella sua stanza. Mi lascia lì a cercare di riprendermi, a chiedermi cosa cazzo stia facendo.
Prendo un asciugamano ed esco. La vedo che armeggia con il telefono. Mi fa “devo farti conoscere un mio amico”, poi dopo avere osservato la mia espressione mi dice “tranquilla, non è per quello”. Ma, anche se sbagliata, la sola idea che mi volesse far scopare da un suo amico mi dà il colpo di grazia.
– D’accordo – le dico – facciamolo.
– Ci hai ripensato? – sorride.
– La colpa è tua…
Sarà colpa sua o del cannone di Gange, ma la mia voglia sta diventando ossessione. Sono ormai completamente sbroccata. Lei lo capisce e stavolta il suo sorriso è più ampio, è soddisfazione pura. Si avvicina e mi sfiora le labbra con le sue. Per la prima volta mi sfiora anche la vagina, con i polpastrelli. E’ molto meno di una carezza, ma mi trasmette una scarica fortissima. Sussurro “ti prego…” senza nemmeno sapere per cosa la prego.
– La colpa è tua che sei come sei – mi alita sulle labbra – meglio se non godi ora, avrai più voglia dopo…
C’è anche spazio per un sorriso, in questa piccola sconfitta. Le mormoro che “è la tortura di Debbie”. Domanda chi cazzo sia Debbie e io le rispondo che è una mia amica olandese che, quest’estate, mi diede lo stesso consiglio prima che usassi Tinder: “Toccati ma non arrivare fino in fondo, resta in tensione. E poi mettiti in caccia”.
– Sei su Tinder? E come è finita?
– E’ finita che mi sono portata in camera un ragazzino e l’ho sverginato ahahahahah… – rido spingendola via. Sono a un millimetro dal punto di non ritorno.
Ci rivestiamo. Non so se ci calmiamo. Cioè, lei non lo so, io no di certo. Si mette addosso un paio di shorts di pelle che debbono costare quanto le mie tasse universitarie. Collant e tacchi stratosferici dai quali io probabilmente cadrei dopo un passo. Adesso è alta quasi come me. La camicetta pitonata la completa alla perfezione, direi. Dimostra almeno quattro anni di più, anche perché gli dà di trucco. Le dico che no, che per me va bene anche senza o al massimo con un tocco leggero di mascara. Fa “…mmm, vero”, però insiste perché oltre al rimmel provi un rossetto bruno che, secondo me, non mi dona per nulla. Anche il mio giaccone non va bene, per lei. Prende il chiodo che indossava oggi pomeriggio e me lo passa. Questo è ok, ha ragione. Mi guardo e mi piaccio, rossetto a parte. A lei invece quel rossetto sta bene, ma sembra proprio una zoccola. Scendiamo al piano di sotto e incontriamo il padre. Mi prende un colpo perché chissà da quanto è rientrato e cosa può avere sentito. Lancio un timido “buonasera” ma non mi si incula nemmeno di striscio, continua a leggere qualcosa che sembra, boh, una fattura o giù di lì. Roberta manda invece un annoiato “ciao pà”. Il padre, senza nemmeno alzare gli occhi da ciò che sta leggendo, le chiede “almeno stanotte torni a dormire?”. Roberta nemmeno gli risponde, io gli lancio un altro timido “buonasera” di commiato. Usciamo.
CONTINUA
Il complimento mi piace, mi fa stare bene. Anche se ci sono abituata, non è mai abbastanza. Quello che mi fa stare anche meglio è la sua mano che scivola leggera sulle mie natiche e mi dona brividi e pelle d’oca. Vorrei che si facesse più audace e che scivolasse più in basso, a sentire come sono ridotta. Da almeno un paio d’ore.
Dalle sue mani ho ricevuto solo carezze, dalla sua bocca solo baci, anche se furiosi. Ma va tutto bene, è davvero tutto ok. Se adesso, per esempio, sto ansimando, è perché alla fine ci ho dovuto pensare da sola. Ma è stato tutto fantastico lo stesso. In lei mi sono rivista nella mia prima, timorosa, volta con quella stronza di Viola. In lei ho rivisto l’incertezza di Serena la prima volta con me. In lei ho scoperto un fondo di fragilità e tenerezza, che non sospettavo minimamente, quando mi ha detto “ti dispiace se non ti faccio nulla? non so come fare, non l’ho mai fatto”.
Per la verità, quando ci siamo alzate dal tavolino di quel bar mi sentivo un po’ prigioniera del suo essere così decisa. Ho subìto persino il suo modo di pagare il conto (“lascia, faccio io”), quei trenta euro gettati ostentatamente lì, accanto al mio bicchiere di birra non ancora scolata, che erano oggettivamente un’esagerazione. E ho anche subìto, mentre camminavamo sotto le luci ancora natalizie di viale Parioli, la sua curiosità irriverente, quasi irridente: “Ma tu te bagni sempre così?”. “Sì, da sempre, all’inizio mi vergognavo tantissimo”.
E mi sono vergognata anche in quel momento, mi sono vergognata di essermi sollevata la gonna e di avere aperto le cosce di fronte a lei per farle vedere che luccicavo. Mi sono vergognata anche se avrei dovuto essere orgogliosa, in fondo. Perché quella bravata me l’ero costruita nella stanza più perversa della mia mente, me l’ero immaginata. E alla fine l’avevo realizzata. E forse, anche se non potevo esserne certa in quel momento, l’avevo sedotta. Cos’altro poteva significare il suo invito a fumarsi a casa sua i cannoni che le aveva dato Gange? Sappiamo bene entrambe l’effetto che ci fa quella roba.
Solo su una cosa sono riuscita a impormi, per così dire. Quando le ho chiesto ragione di una cosa che non mi tornava. Di quei suoi modi da coatta, di quel suo modo così pesantemente romanesco di parlare, che contrastava, strideva, con l’immagine della ragazzina sballata sì, ma delicata e quasi innocente, che avevo conosciuto alla festa di Capodanno. “Sono due maschere, volendo ne ho di più, mi diverto a usarle”, mi ha risposto. E prima ancora che potessi riprendermi dalla sorpresa ha aggiunto: “E poi, fare la grezzona me veniva più semplice nel caso avessi deciso de mannatte affanculo”.
Quando entriamo in casa, dopo avere camminato per un chilometro buono, mi ha già raccontato che ha iniziato il liceo allo Chateaubriand ma che poi ha cambiato, perché i suoi non erano soddisfatti, e che adesso va a un istituto privato a piazza di Spagna, è all’ultimo anno. E che le estati le passa all’estero. Io le dico che sono al secondo di università e quasi non ci crede, pensava che fossi più piccola di lei. Rispondo che è un errore che fanno in molti e che non ci posso fare nulla se non, al limite, disegnarmi delle rughe sul contorno occhi. Mi chiede pure “ma come cazzo ti va di fare matematica”, che è un’altra domanda che mi sento fare spesso. “A matematica ci sono i ragazzi con i cazzi più grossi”, e almeno le strappo una risata. Piuttosto, sono io che sono curiosa di sapere dove cazzo abbia conosciuto uno come Gange. A una festa, naturalmente, dove nessuno ha mai capito come ci si sia intrufolato. E che lui sì che è più piccolo, ha diciassette anni. E quando lo ha conosciuto ne aveva pure uno di meno e già spacciava.
– Mi ha fatto provare sta roba – dice battendo sul taschino dove tiene i due cannoni – e mi ha detto che potevo farmi viva quando volevo, se avessi avuto intenzione di riprovarla. Naturalmente lo sapevo benissimo che puntava a scoparmi, e naturalmente l’ho fatto venire a casa mia e me lo sono scopato. La storia è nata così, ma te l’ho detto, ste bombe c’entrano fino a un certo punto. Ti arrapano da matti, ma la verità è che lui mi è piaciuto sin da subito.
– Anche a me ha fatto la stessa proposta.
– Non ne dubito. Magari ti si vuole solo scopare, o magari vuole fare di te la sua “fregna cristiana” al posto mio. Chi lo sa…
Riconosco quella gelosia. E’ la stessa che c’era nella sua voce alla festa di Capodanno, quando mi chiese che intenzioni avessi con Gange. Nessuna, se c’è uno che proprio non mi attizza è Gange, puoi stare tranquilla. Non glielo dico proprio così per non urtare la sua suscettibilità, ma il senso è quello.
La casa è immersa nell’oscurità. Dalla strada non filtra nessuna luce. Forse è perché le finestre sono lontane, o forse è perché siamo all’attico. Non ho modo di scoprirlo, perché all’ingresso c’è una scala di legno che Roberta mi invita a salire. “La stanza mia è di sopra”. In realtà è qualcosa a metà tra un superattico e una mansardina. Dietro una porta chiusa a chiave c’è un piccolo soggiorno con tanto di sedie, scrivania, computer e divano. Poi un bagnetto. E infine un’altra porta chiusa con un cartello appiccicato sopra: “Do not disturb/ne pas déranger STO SCOPANDO”, con i simboli che si usano per i cartelli dei men at work all’estero, solo che questo raffigura un maschio che si sta fottendo una ragazza messa a pecora. Rido e le domando “e questo?”. Se l’è fatto fare in un negozio della zona che conosco bene anche io, rinomato per vendere a caro prezzo cose assolutamente inutili ma allo stesso tempo assolutamente indispensabili.
Nella stanza campeggia un letto a due piazze e un comodino, stop. C’è una cameretta accanto che deve fare da armadio, dove butta il giubbino dopo averne tirato fuori una delle due canne. Dalla borsa prende telefono e accendino, si siede sul letto e dà fuoco alla carta, fa una lunga tirata. Il suo viso si trasfigura immediatamente, chiude gli occhi, si rilassa in ogni muscolo, trema un po’. Quando si riprende dà un’altra tirata più piccola e me la passa. E’ davvero enorme e penso che Gange non abbia badato a spese. Roberta butta fuori il fumo e mi guarda: “Ti spogli per favore?”. Con una mano mi porto il cannone alle labbra e con l’altra cerco la zip del vestito dietro la schiena. Mentre aspiro penso tra me e me che le ho obbedito come un automa, poi la botta. Forse anche più forte di quelle che ho provato a Capodanno. Vacillo, mi gira la testa. Dopo una quindicina di secondi mi sento più stabile, ma indescrivibilmente più leggera. Lascio scivolare giù il vestito e anche io, come lei in precedenza, do un’altra tirata. Quando riapro gli occhi mi sembra di avere cambiato pianeta, lei è davanti a me che mi riprende con il telefono. Le sorrido un “che cazzo fai?”, senza avere la forza di oppormi come di regola farei, non mi piace essere ripresa. “Faccio un’insta-story, la chiamerò ‘La troia e la fionda’ ahahahahah…”. “No, dai…”, le sorrido. Al tempo stesso il fatto che per la prima volta mi abbia chiamata “troia” mi provoca una contrazione. Mi rendo conto che al cospetto dell’obiettivo sono con il vestito alle caviglie, gli stivaletti, le autoreggenti e il reggiseno. E la fica all’aria, che mi sta tornando un lago. Do un’altra tirata e le ripasso il cannone. “No, ti prego…”, le faccio senza molta convinzione dopo avere espirato il fumo. Mi risponde ridendo “scherzavo, non ti preoccupare”, ma anche se non mi avesse rassicurata, me ne rendo conto perfettamente, avrei continuato lo stesso a spogliarmi.
Appoggio la schiena nuda sulla testiera morbida del letto, apro le gambe. Roberta mi consegna il telefono dicendo “guardati” e ricomincia a fumare. Mi guardo. E sarà perché lo sento dentro, ma mi sembra che tutta l’immagine di me che subisco l’effetto devastante di quell’erba esprima una sola cosa: voglia, irrefrenabile e immediata, di sesso.
Come dicevo, però, il cannone è enorme. Ci mettiamo molto tempo a finirlo. Le dico “lo cancelli, per favore, non mi piace”, poi senza nemmeno restituirle il telefono prima mando il video nel cestino e poi nell’iperspazio. Ho la voce già impastata, rido come una scema. Lei mi domanda se non mi sono mai ripresa mentre scopavo. Non le rispondo e le chiedo invece dove cazzo prenda Gange questa roba e cosa ci sia dentro di speciale. Non si sa, non lo dice, non gliel’ha mai detto. Ha rinunciato a chiederglielo. Me lo passa per l’ultimo paio di tirate e si china a guardarmi tra le cosce. “Lo sai che è vero che luccichi?”, dice. Il tono della sua voce mi conferma che è bella partita pure lei.
Do l’ultima, lunga, aspirata e lascio cadere la cicca nel posacenere. Trattengo il respiro mentre i brividi mi squassano. Un po’ meno di prima, ma mi squassano. Non mi rendo nemmeno conto di come riesca a mettermi seduta e le afferri la nuca, la tiri verso di me e la baci, espirandole in bocca il mio fumo. Porto una mano sotto il suo maglione e trovo una tetta libera, soda e gonfia, con il capezzolo già indurito. Stavolta lo sguardo di Roberta ha perso ogni sicurezza, è stravolto. Butta fuori il fumo e miagola “non ero mai stata baciata da una ragazza”. Mi avvento verso di lei come una furia e la bacio di nuovo, le spingo tutta le lingua in bocca. Mi distacco e la guardo negli occhi: “Ti spogli da sola o ti piace la violenza?”.
– La perfezione – sussurra Roberta un’ora dopo – la perfezione…
Le rispondo un po’ ridacchiando e un po’ miagolando come una gatta che anche il suo non è male. E lo posso proprio dire. Perché io quel sedere l’ho leccato, morso, baciato, profanato. Non mi aspettavo che mi accogliesse così, che mi stringesse palpitando così. Ancora meno mi aspettavo che, subito dopo averglielo sfilato, me lo succhiasse quel “ditino meraviglioso”, come l’ha chiamato lei. Sì certo, quel ditino meraviglioso gliel’avevo frullato per bene nella vagina, mentre con la lingua le frullavo il grilletto. Sì certo, magari dopo avere strillato come una gallina strangolata non si rendeva nemmeno conto di quello che faceva. Fragoroso, il suo secondo orgasmo. Il primo non era stato così, era stato più come un lungo brivido. Ma del resto, dopo i primi cinque minuti di furia assoluta, tutta la prima scopata era stata come un lungo brivido. Tutto era stato come se, ad ogni bacio, leccata, risucchio, lei fosse lì lì per chiedermi “cosa stai facendo?”. Ma la seconda volta l’ho presa con cattiveria, come ogni tanto faccio con Serena (e Serena con me). L’ho presa, l’ho fatta mia. E lei si è lasciata prendere Il suo stupore, forse la sua paura, la prima volta che le ho passato la lingua lungo tutta la fica, me li ricorderò. Ma ricorderò anche il piccolo e iper-curato triangolino sul pube. E ricorderò come la prima volta invocasse quasi frignando “Giulia”, e come la seconda mi abbia invece ringhiato “puttana”.
“Indimenticabile”, le sospiro mentre lei sembra quasi scusarsi per essere stata solo passiva. Le dico di non pensarci e che, se proprio vuole fare qualcosa per me, può stendersi sulla mia schiena. Lo fa e immediatamente sento la spinta dei suoi seni sul mio dorso. E’ una cosa che mi fa impazzire, a Serena lo chiedo sempre di schiacciarmi così. Roberta forse ha le tette un po’ più grandi. E’ un po’ come Stefania, anche se non è così bella come Stefania. E’ molto carina, ma non bella come la mia amica. Mi domando se avrei mai il coraggio di prendere Stefania come ho preso lei.
E, mentre ci sto pensando, ecco quello che non mi aspetto. Cioè, non che non mi aspetti di sentirmi sussurrare qualcosa nell’orecchio, quello ci sta in un momento come questo. Non mi aspetto proprio quello che ha da dirmi. E che me lo dica con questo tono così immorale.
– Giulia, non sono mai stata così… non hai… non hai voglia di un uomo adesso? Ti scongiuro dimmi di sì…
Allargo le braccia e subito dopo sento le sue mani che me le accarezzano, leggere. Ho un brivido, la pelle d’oca. Non so nemmeno io di cosa ho voglia. Avrei voluto la sua lingua, il suo dito. Anche lo stick del deodorante andrebbe bene in questo momento. A parte l’ovetto di Giancarlo, non ho mai giocato tanto con gli oggetti.
– Sono… ho il ragazzo – le rispondo con un soffio.
Ho stupore di me stessa. Perché mi rendo conto che sto combattendo contro la mia voglia. Perché la sua domanda mi ha trafitta. Non glielo voglio dire ma sì, mi è montata una voglia terribile di scopare. Diciamolo meglio: ora come ora ho una voglia terribile di essere scopata. Forte. Di essere io passiva, di fare tutto quello vuole lui e di essere oscena. Di sentirmi domandare “chi sei?” da uno sconosciuto e di rispondergli piagnucolando “stasera sono la tua puttana, che aspetti?”. Sì, ho una voglia terribile di essere la troia di qualcuno. E certamente quel qualcuno non può essere Davide. Con lui è una cosa completamente diversa.
– Non è necessario che lo sappia, non lo saprà mai… – insiste continuando a sussurrarmi nell’orecchio – lo so che ti va…
Prendo tempo, le dico che ho bisogno di farmi una doccia. Risponde “anche io” e si tira su. La osservo mentre si raccoglie i capelli e mi torna la voglia anche del suo corpo nudo. Soprattutto, vorrei che mi facesse un ditalino mentre siamo in piedi, vorrei che me lo facesse mentre mi dice quanto sono troia. Ci sto impazzendo dietro a questo mio desiderio di remissività. Avete presente quelle cazzate sulla dominazione? Ecco, io ritengo che siano eccessive. Ma in questo momento ho un bisogno quasi fisico di essere dominata. Un bisogno che so benissimo che non potrebbe soddisfare nemmeno lei.
Fare la doccia insieme è una tortura. Anche perché, per non bagnarci i capelli, usiamo il doccino, e lei me lo indirizza più volte sul grilletto. La sua voglia non sembra essersi placata per nulla. La sua voglia accresce la mia. Il doccino ha un manico lungo e arrotondato, un po’ curvo. La sua proposta indecente, quando arriva, non mi stupisce più di tanto. “Lo vuoi sapere che ci faccio con questo e con l’acqua tiepida? Eh? Dietro non lo consiglio, ma…. Vuoi provare? Eh? Vuoi provare?”. Rispondo di no, ma devo appoggiarmi alle piastrelle. Sono esasperata dal desiderio e dall’acqua che batte sul clitoride. E lei lo sa, lo vede. E’ come al bar, ha riconquistato il comando.
Mi chiede “sei mai stata con uno più grande? Magari sposato?”. E io se potessi sorriderei, perché proprio pochi giorni fa questa cosa l’ho confessata a mia sorella Martina. Ma a sorridere proprio non ce la faccio. Riesco solo ad ansimare “sì… sì…”, con lo stesso tono di voce che mi esce quando mi scopano. Roberta vuole sapere chi, e io le parlo, con frasi smozzicate, del prof della scuola di inglese e di Davìd, questa estate a Londra. E naturalmente di Edoardo, il Capo, anche se tralascio di parlarle del suo megacazzo e le dico solo che è il cognato di una mia amica. ”Davvero sei così troia?”. Le rispondo quasi strillando “anche peggio”. Liberandomi, mostrandole quello che sono, come se fosse un orgasmo. Chiude l’acqua di colpo ed esce dal box doccia, si infila l’accappatoio e sparisce nella sua stanza. Mi lascia lì a cercare di riprendermi, a chiedermi cosa cazzo stia facendo.
Prendo un asciugamano ed esco. La vedo che armeggia con il telefono. Mi fa “devo farti conoscere un mio amico”, poi dopo avere osservato la mia espressione mi dice “tranquilla, non è per quello”. Ma, anche se sbagliata, la sola idea che mi volesse far scopare da un suo amico mi dà il colpo di grazia.
– D’accordo – le dico – facciamolo.
– Ci hai ripensato? – sorride.
– La colpa è tua…
Sarà colpa sua o del cannone di Gange, ma la mia voglia sta diventando ossessione. Sono ormai completamente sbroccata. Lei lo capisce e stavolta il suo sorriso è più ampio, è soddisfazione pura. Si avvicina e mi sfiora le labbra con le sue. Per la prima volta mi sfiora anche la vagina, con i polpastrelli. E’ molto meno di una carezza, ma mi trasmette una scarica fortissima. Sussurro “ti prego…” senza nemmeno sapere per cosa la prego.
– La colpa è tua che sei come sei – mi alita sulle labbra – meglio se non godi ora, avrai più voglia dopo…
C’è anche spazio per un sorriso, in questa piccola sconfitta. Le mormoro che “è la tortura di Debbie”. Domanda chi cazzo sia Debbie e io le rispondo che è una mia amica olandese che, quest’estate, mi diede lo stesso consiglio prima che usassi Tinder: “Toccati ma non arrivare fino in fondo, resta in tensione. E poi mettiti in caccia”.
– Sei su Tinder? E come è finita?
– E’ finita che mi sono portata in camera un ragazzino e l’ho sverginato ahahahahah… – rido spingendola via. Sono a un millimetro dal punto di non ritorno.
Ci rivestiamo. Non so se ci calmiamo. Cioè, lei non lo so, io no di certo. Si mette addosso un paio di shorts di pelle che debbono costare quanto le mie tasse universitarie. Collant e tacchi stratosferici dai quali io probabilmente cadrei dopo un passo. Adesso è alta quasi come me. La camicetta pitonata la completa alla perfezione, direi. Dimostra almeno quattro anni di più, anche perché gli dà di trucco. Le dico che no, che per me va bene anche senza o al massimo con un tocco leggero di mascara. Fa “…mmm, vero”, però insiste perché oltre al rimmel provi un rossetto bruno che, secondo me, non mi dona per nulla. Anche il mio giaccone non va bene, per lei. Prende il chiodo che indossava oggi pomeriggio e me lo passa. Questo è ok, ha ragione. Mi guardo e mi piaccio, rossetto a parte. A lei invece quel rossetto sta bene, ma sembra proprio una zoccola. Scendiamo al piano di sotto e incontriamo il padre. Mi prende un colpo perché chissà da quanto è rientrato e cosa può avere sentito. Lancio un timido “buonasera” ma non mi si incula nemmeno di striscio, continua a leggere qualcosa che sembra, boh, una fattura o giù di lì. Roberta manda invece un annoiato “ciao pà”. Il padre, senza nemmeno alzare gli occhi da ciò che sta leggendo, le chiede “almeno stanotte torni a dormire?”. Roberta nemmeno gli risponde, io gli lancio un altro timido “buonasera” di commiato. Usciamo.
CONTINUA
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Fidanzate - La strategica coattaracconto sucessivo
Fidanzate - Gli amici di Roberta
Commenti dei lettori al racconto erotico