Fidanzate - Nulla e tutto
di
Browserfast
genere
etero
Nulla, torna a letto.
No, come “nulla”? Sento mia sorella che piange in camera, entro e la trovo abbandonata sul letto con gli occhi rossi e la faccia rigata dalle lacrime e questo sarebbe “nulla”? Sarebbe “nulla” quello sguardo stravolto che mi indirizza che non so nemmeno se mi vede? E’ questo “nulla” che ha trasformato la dolce Martina in una bisbetica, negli ultimi tempi? Cosa è questo “nulla”? Solo che, lo sapete meglio di me, certe cose è più facile pensarle, in questi momenti.
– Marti, io… – è l’unica cosa che riesco a dire.
Cercate anche di capirmi. Voglio dire, Martina è proprio maggiore-maggiore, come sorella. Ha cinque anni più di me. Per me è sempre stata un punto di riferimento, un traguardo da raggiungere. Il suo mondo lo conosco poco, quasi per niente. Possiamo andare d’amore e d’accordo o dircene di tutti i colori, come negli ultimi giorni. Ma lei resta la prima e io la seconda. Su questo non c’è proprio alcun dubbio. E non perché l’abbia deciso qualcuno, ma perché è così, è sempre stato così. E’ una cosa che sento dentro, è ammirazione e soggezione insieme. E naturalmente è anche amore infinito.
– Lasciami sola – piagnucola.
– Scusa, ma io…
– Anna, che cazzo hai fatto?
Un attimo, come sarebbe a dire “che cazzo hai fatto?”. Mica ho fatto niente, mica sono io quella che piange disperata sul cuscino.
– Io? Che ho fatto? – domando cercando di ricordare quali atrocità possa avere commesso. Con quella semplice domanda mi ha rovesciato addosso una valanga di sensi di colpa.
– Sei tutta rossa… sembri… non so, sconvolta…
– Io? Marti scusa ma sei tu che stai piangendo. Che succede?
– Niente ti ho detto, tornatene a letto. Hai una faccia…
– Se ti dico perché ho questa faccia tu mi dici perché stai piangendo?
Ecco fatto. Ecco cosa significa avere la lingua più veloce del cervello. Potevo stare zitta e tornarmene a letto davvero. Oppure trovare un altro modo per convincerla. E invece no… E non scomodate Freud, per favore. Il desiderio di confessare e tutte quelle robe lì. Non c’entrano un cazzo. Ho fatto una stronzata e adesso non mi resta altro che sperare che lei mi risponda “no, non me ne frega un cazzo”, che torni ad essere la scorbutica che è stata in questi giorni e vaffanculo a tutto.
D’altra parte, però, sento che alzare un muro tra noi adesso vorrebbe dire alzarlo per sempre. Cioè, per sempre magari no, ma mi avete capita.
– Avanti, che cazzo hai combinato? – domanda cercando di mantenere un piglio da dura. Che poi lo faccia premendosi un fazzoletto sul naso gocciolante, vabbè lasciamo perdere l’effetto che fa…
– Ho appena fatto sexting con un amico – dico tutto d’un fiato e chiudendo gli occhi.
Le espressioni sul suo viso cambiano in, diciamo, non più di tre secondi. Sono sempre stata impressionata dalla rapidità di questi cambiamenti. Prima mi guarda sorpresa come se stesse per scoppiare a ridere. Poi il sorriso diventa una smorfia amara, infine scoppia sì, ma a piangere. Un’altra volta.
– Ahò, però mò tocca a te… – le faccio con addosso tutto l’imbarazzo che è possibile provare in una situazione del genere.
– Io e Massimo ci siamo lasciati – dice con gli occhi bassi – anzi, è lui che ha lasciato me…
E’ la fine del mondo? Beh sì, è la fine del mondo. Del mondo intorno a me, di come lo conosco.
C’è anche qualcosa che è, oltre che doloroso, amaramente ironico in tutto ciò, ma lo scopro solo tre settimane dopo, più o meno. Su un treno, il treno che porta me e Martina verso le Dolomiti. Non sono riuscita a sapere molto di più sulla rottura tra lei e Massimo. Tuttavia, come se si fosse tolta un peso, dopo avermelo confessato ha iniziato a essere meno acida, e non solo con me. Ha anche trovato il modo di dirlo ai miei. Ovviamente sono state giornate di lutto stretto, tutti a casa eravamo convinti che lei e Massimo si sarebbero sposati.
Sono state anche giornate in cui ho confrontato il suo dolore con il mio senso di colpa per Davide. E questo non ha fatto altro che confermarmi quanto sono stronza. Paragonavo il dolore che lei provava per Massimo a quello che avevo fatto provare a Davide. Due sofferenze diverse, certo, ma in fondo simili. Che io, per Davide, proprio non sentivo. Quel tipo di dolore non mi sfiorava nemmeno.
Qualche giorno dopo, Martina mi ha chiesto se non mi andasse di accompagnarla in settimana bianca. Era tutto già prenotato, già in parte pagato. Per lei e Massimo, chiaramente. Sulle prime ho rifiutato. Un po’ perché io odio lo sci. O meglio, non è che lo odio. E’ che sono più il tipo da tennis, a sciare sono una vera e propria pippa. La sciatrice è lei. Poi perché avevo due esami da dare. E infine perché pensavo che sarebbe stata una mezza tortura per me, ma anche per lei, passare una settimana insieme nel posto che loro due avevano scelto. Ma alla fine mi sono piegata. Ho dato un esame e sono riuscita a spostarne un altro. L’ho fatta felice, almeno per qualche ora.
Prima di partire mi sono però fatta coraggio, forse rinfrancata dall’esame appena dato, e ho telefonato a Davide. Nulla, telefono staccato. Nemmeno chiamata rifiutata, proprio morto. Mi sono fatta ancora più coraggio e sono andata, una mattina, sotto casa sua. Conosco i suoi orari, ma non conosco bene il suo portone. Ci sono stata solo una volta, era sempre lui che passava a prendere me. E poiché ci sono due portoni gemelli a poca distanza l’uno dall’altro mi sono ovviamente piazzata davanti a quello sbagliato. L’ho comunque visto uscire e gli sono corsa dietro, chiamandolo. Sì è voltato e mi ha vista, senza nessuna espressione particolare dipinta sulla faccia. Solo che è tornato indietro ed è sparito nell’androne prima che potessi raggiungerlo, chiudendosi il portone alle spalle. La sera stessa mi è arrivato un sms, da un numero sconosciuto. C’era scritto: “Non farti più vedere, non cercarmi mai più. Questo è il numero di una mia amica quindi non rispondere”. Non ho risposto, ho telefonato direttamente a quel numero. Ho chiesto alla ragazza se poteva farmi parlare con Davide, o se poteva almeno dirgli di chiamarmi. Mi ha spazzata via con poche parole, come se fossi una mosca fastidiosa: “Davide non è qui e comunque non vuole parlarti, non ti vuole proprio più vedere né sapere nulla di te, troia”. Più che rimanerci di merda, mi è venuto da pensare che l’insulto che non mi sono mai beccata da lui me lo sono beccato da una sua amica. Ma me lo meritavo, mi merito tutto.
Sul treno che ci portava su al Nord Martina si era finalmente decisa a sbottonarsi un po’. Parlando all’improvviso a bassa voce, come se non fosse essenziale che la ascoltassi, aveva confessato che l’ultimo week end passato insieme con Massimo, una sera al ristorante, lei si era allontanata per andare in bagno e lui aveva cominciato a giocherellare con il suo telefono. E aveva scoperto una chat di sesso virtuale (“anche abbastanza esplicito”) tra lei e uno dello studio. Ne era nato un dramma durato due giorni, fino al loro ritorno a Roma, quando erano ormai una ex coppia. Ad ascoltarla, non avevo potuto fare a meno di ripensare a quel paio di giorni passati a Bologna, l’ultima volta che sono salita su da Tommy. Passati a scopare ed insultarci perché, ne sono sempre più convinta, nessuno dei due era stato capace di mettere da parte il proprio orgoglio e dire “ok, affanculo tutti gli altri, io è con te che voglio stare”. Avevamo superato da poco proprio la stazione di Bologna, il mio magone in quei momenti ve lo lascio immaginare.
L’amara ironia di cui vi dicevo in precedenza è che, praticamente, per spingerla a confessarmi che il suo ragazzo l’aveva mollata per avere fatto sexting con un altro, le avevo rivelato a mia volta di avere appena fatto sexting con un mio amico. Più ci penso, però, più mi pare una stronzata. Due come lei e Massimo non si possono lasciare per una cosa del genere, dai. Ok, un paio di settimane di vaffanculi, d’accordo. Ci stanno. Che un po’ te la faccia pagare è il meno, va bene, ma mandare a monte tutto… Lo penso e glielo dico mentre aspettiamo la coincidenza del treno in una assurda stazioncina di montagna che sembra fatta con il Lego.
Lei mi risponde che forse sì, ho ragione, ma che nel momento esatto in cui ha visto che Massimo aveva scoperto tutto, ha capito che non ci sarebbe stato perdono. La abbraccio, perché non so cosa altro fare.
Qualche minuto dopo però, sul trenino che ci porta alla nostra destinazione finale, nel vuoto del vagone, rompe il suo silenzio: “E comunque, con quello non è stato solo virtuale”. Le domando “avete scopato?”. Mi risponde “no, scopato no”. La guardo un attimo interdetta ma poi, chissà che cazzo mi piglia, ho voglia di un particolare in più. “Un pompino?”. “Cazzo, Anna…”, risponde con una smorfia di fastidio. Ma non è un problema di linguaggio, ovviamente. Mi stringo nelle spalle, lei distoglie lo sguardo e mi fa: “La frase che Massimo ha letto era ‘voglio sentire lo sperma nella mia bocca’… beh no, era un po’ peggio”. Resto quasi fulminata e non so cosa rispondere, non so davvero cosa dire. Per fortuna ci pensa lei a cambiare discorso: “Li hai portati i guanti e le termiche? E il pile?”. Le dico che ho dovuto ricomprare tutto, perché dall’ultima volta che sono stata sulla neve sono leggermente cresciuta. E meno male che papà ha sganciato i soldi. “E il costume?”. “Che costume? No, non ci ho… oh cazzo”. “C’è la spa e c’è la piscina… vuoi andarci in mutande?”.
La prima cosa che facciamo, senza quasi avere posato le valigie, è correre a comprare un costume prima che i negozi qui chiudano. Ma una volta salite in camera lo provo e mi accorgo che la commessa mi ha presa per il culo. A parte il fatto che i costumi interi non mi piacciono e che è di un rosa che sembro una caramella (e vabbè, c’era solo quello), non è la mia taglia, sarà la taglia di una ragazzina. Alta quanto vi pare, ma una ragazzina. E meno male che ho poche tette. “Mi tira tutto, mi finisce tra le chiappe…”, piagnucolo insoddisfatta. Martina mi fa fare un giro su me stessa commentando “ma magari un po’ si allarga”, poi un altro giro. Comincia a ridere, dapprima cercando di frenarsi, alla fine senza ritegno. A vederla sghignazzare distesa sul letto, rido anche io. O meglio, sorrido. Ma non perché mi abbia contagiata. Perché penso che la figura della cretina la faccio volentieri, pur di vederla ridere così, dopo tanto tempo.
E comunque sì, faccio proprio la figura della cretina. Quando mi tolgo l’accappatoio e lo poggio su una sdraio della piscina sembra che tutti guardino me. Entro in acqua che ho le natiche praticamente scoperte. Non che me ne freghi un cazzo, al mare faccio vedere anche di più. Ma se permettete lo decido io e sto pure più comoda. Sì, perché in acqua è peggio. Anche se verso la fine, forse ha ragione lei, il tessuto elasticizzato un po’ sembra cedere.
Mi muovo il meno possibile. Scopro una serie di bocchette per l’idromassaggio e praticamente le sequestro, mettendomici davanti. Dicendo a Martina che si lamenta che ho bisogno di quel getto d’acqua, che mi sento tutta contratta. Non è vero un cazzo. Sull’altro lato della vasca due ragazzi ci guardano incuriositi, credo che abbiano capito tutto e secondo me si fanno delle belle risate sulla sottoscritta. Devono essere fratelli, proprio mentre arrivavamo li ho visti scendere da una macchina, una specie di suv transatlantico, insieme a quelli che penso siano i loro genitori. Sono belgi, almeno così dice la targa della macchina. Lui è un bel ragazzo, onestamente. Ma la vera bellezza è la sorella, anche se ha uno sguardo un po’ troppo severo, a volte. Parlottano tra di loro e, ve l’ho detto, credo proprio che si stiano facendo delle grasse risate su di me. Domani lo cambio, sto cazzo di costume. Anzi, dopodomani, domani qui sarà tutto chiuso.
A cena io e Martina abbiamo un tavolino piccolo piccolo. Cazzo, non volevo un banchetto, ma una cosa per stare un po’ più comode no? Accanto a noi c’è proprio la famigliola belga. Cioè no, col cazzo che sono belgi. Ah, Bg è Bulgaria? Non lo sapevo, rispondo a Martina che alza gli occhi al cielo. A dispetto della bellezza dei figli, i genitori sono quasi inguardabili. Oddio, la madre magari no, se non avesse qualche chilo di troppo e quello sguardo di chi sta per metterti al muro e fucilarti. Il padre invece è proprio uno che classificherei come canide, un bulldog per la precisione.
In albergo, come spesso in montagna, siamo a mezza pensione. A pranzo, sulle piste, ognuno pensa per sé, poi la sera si cena qui. Per dire la verità io e Martina abbiamo già deciso di mangiarci il meno possibile e di farci un giro dei ristorantini del luogo, sempre che ce ne siano. Dopo la prima e la seconda portata, però, le nostre certezze vacillano: “Ma siamo proprio sicure? Cazzo, qui si mangia da Dio!”, le faccio. Lei risponde “mmm, mmm…” con la bocca occupata da un cannolo ripieno di speck e ricotta.
Finita la cena insisto con lei per non risalire subito in camera. Ci sbrachiamo in due sulla poltrona di un salottino e facciamo un paio di Insta, mandiamo un video ai vecchi (ok, hanno già telefonato due volte, per fortuna a lei) e chattiamo un po’ per cazzi nostri. Le dico che una cosa la berrei volentieri, nella stube. Mi risponde che è stanca, che torna in camera. Le dico che se è stanca adesso figuriamoci domani sera, dopo che avrà sciato. Risponde che domani sera lei sarà un fiore, mentre quella che scoprirà di avere muscoli doloranti che nemmeno sapeva che esistessero sarò io. Le ridacchio addosso sarcastica, perché temo proprio che abbia ragione.
“Però almeno una sigaretta me la vorrei fare, prima di andare a letto”, mi lagno. Dice “va’ di fuori e fumatene una” e io replico che ad avercele, le sigarette, sarebbe una cosa da bambini. “Vai fuori e trova qualcuno che te la offre, sennò domani te le compri…”, mi fa con un’aria, volutamente, da maestrina. Prima che mi salgano su i nervi esco. Sulle prime non me ne accorgo, ma fa davvero un freddo becco. Oppure sono io che sono scesa a cena con addosso solo i pantaloni della tuta e una felpa. Non ho nemmeno il reggiseno.
A fumare, davanti all’ingresso, c’è una coppia. Qualche metro più in là, al buio, una ragazza. Mi avvicino e la riconosco, è la belga-diventata-bulgara. Le chiedo se mi offre una sigaretta. Mi sorride, mi fa accendere, mi chiede di dove sono e se è la prima volta che vengo qui. Le solite cose, insomma. A me piacerebbe pure conversare con lei, anche perché parla un inglese davvero ottimo. Però sto morendo di freddo e la sigaretta, più che fumarmela, me la mangio. Sto per spegnere la cicca quando così, out of the blue, indossando un maglione azzurro con i motivi della neve disegnati sopra e un paio di pantaloni di velluto color cachi, passa davanti a noi Chris Hemsworth, quello che fa Thor negli Avengers. Cioè no, chiaramente non è Chris Hemsworth, ma gli somiglia tantissimo. E’ bello-bello, alto-alto e ha un petto sopra il quale ci potrebbe atterrare senza difficoltà un Airbus. Oppure ci potrei atterrare io, stravolta dall’orgasmo. Se non fosse che la situazione complessiva è quella che è, prenderei in seria considerazione l’idea di dirgli “ciao, io sono solo una stronzetta insignificante, non è che stanotte posso restare inginocchiata davanti al tuo letto a guardarti dormire? anche nuda se vuoi”. Chiaramente non gli dico nulla di tutto questo ma lo osservo. A lungo, troppo a lungo. E per un po’ i nostri sguardi si avvitano l’uno dentro l’altro e avverto distintamente un crampetto. Poi lui ci sorride e passa oltre, rientra in albergo. Io e la bulgara ci guardiamo in silenzio per un po’ e nei suoi occhi, con la traduzione simultanea, leggo la frase “cazzo che manzo!”. La stessa che lei probabilmente legge nei miei. Quando le auguro la buonanotte mi sorride ancora e mi fa “se ti serve, domani, un costume te lo posso prestare io”. La guardo e mi pare indecifrabile. Cioè, non capisco se scherzi, se mi stia prendendo per il culo o sia semplicemente gentile. Ridacchio un po’ e la ringrazio. Torno in camera pensando a Chris Hemsworth. Martina è già in camicia da notte che legge stesa sopra il piumone con i piedi intrecciati.
Nel gioco delle prenotazioni e delle disdette si può dire che siamo state fortunate. La stanza che ci hanno dato è molto più adatta a una famiglia che a noi. E’ grande, con un lettone, un tavolo e un divano Addirittura due televisori. Accanto c’è uno stanzino con due letti e un ripostiglio abbastanza ampio per tenere le valigie e i vestiti. Mi infilo il pigiama e mi appresto a entrare nella cameretta, quella idealmente dedicata ai figli, quando Martina batte la mano sul materasso e mi fa “ma dove cazzo vai? guarda quanto spazio c’è qui…”. In un attimo mi sembra di ritornare bambina, quando ogni sera chiedevo di dormire con lei, venendo peraltro respinta con regolarità. Non dico nulla, alzo le braccia e salto sul lettone gridando “yeeeeee”. Quando atterro, lo scricchiolio del legno è così sinistro che mia sorella si spaventa e grida “ma che, sei scema? qui si sfascia tutto!”.
Ridacchio e chiedo scusa, ma sono contenta. Mi accoccolo sotto il piumone e la guardo mentre legge. Domanda “tu non hai portato un libro?”. Le dico “no, cioè sì, quelli dell’esame”. Fa una smorfia e continua a leggere. Ma sia io che lei sappiamo che non la lascerò leggere. Non c’è un motivo, o se c’è non ve lo so dire. E’ nell’aria.
– Marti, posso chiederti una cosa? – domando.
– Certo che sì, ma la risposta è no – dice senza staccare gli occhi dal libro.
– Prego? – domando stupita.
– Nel senso che se mi stai per chiedere se avere fatto sesso con quei due a Milano o con quello dello studio significhi che il mio rapporto con Massimo fosse alla frutta… beh, non è così. Amavo Massimo, anzi probabilmente lo amo ancora, nonostante tutto.
Resto a bocca aperta chiedendole come cazzo abbia fatto a capirlo. Mi lancia un sorriso malinconico e mi fa: “Era una domanda logica”.
– Sono troppo logica? – chiedo.
– Ma no, ma no. Tu piuttosto, come va con il tuo ragazzo?
– Ma chi? Davide? Mica ci sto più con Davide! – le faccio.
– Cioè? – chiede stupefatta.
– Cioè non stiamo più insieme… – rispondo.
– Lo hai friendzonato?
E’ molto più facile a raccontarlo che a farlo. Ok, è la prima volta che penso a Davide da quando sto qui. Ma il senso di colpa mi morde ancora. Martina si gira a guardarmi. Non sembra particolarmente sorpresa, ma dispiaciuta sì. Alzo le spalle come a dire “non fa niente, è andata così”. Lei allunga la sua mano sulla mia e mi fa “piccola…”.
Chi lo sa? Forse è proprio questa parola a scatenare tutto. In realtà, non so nemmeno io bene perché lo faccio. Non mi rendo conto che in questo modo romperò definitivamente il tipo di legame che c’è tra me e Martina e ne costruirò uno del tutto nuovo. E’ come quando, poco più di un mese e mezzo fa, mi ha confessato che mamma si era accorta del mio top imbrattato di sperma mentre lo metteva in lavatrice, lo sperma di Davide, e ci aveva pure scherzato su: “Meglio fuori che dentro”. Avevo percepito nettamente che da quel momento in poi non sarei stata più la piccola di casa. E adesso sta per succedere lo stesso, con Martina. Lo so, potrei evitarlo. Ma invece chiudo gli occhi e ci corro incontro.
– Mi ha lasciata lui. Perché ha visto un video in cui scopavo con due amici suoi e un’altra ragazza, una che fa la mignotta di professione.
Non so dire la faccia che fa Martina. E nemmeno la quantità di espressioni che, da questo momento in poi, attraversano il suo viso mentre le parlo. Non dico descriverle, semplicemente enumerarle. Per non parlare delle altre reazioni. Di come muove inconsapevolmente il corpo o di come, dopo avermi esortata a raccontare, mi interrompe nemmeno dieci parole dopo e mi fa “ti prego, dimmi che mi stai prendendo per il culo”. E tuttavia no, non la sto prendendo per il culo, tiro fuori tutto. Non enfatizzo ma nemmeno nascondo. Non minimizzo né recito la parte della povera vittima per placare la sua indignazione di fronte al fatto che mi sia lasciata scopare da due sconosciuti amici del mio ragazzo e che mi sia ritrovata con quattrocento euro in mano. Dico semplicemente “non avevo proprio idea che quella facesse la prostituta, io volevo solo scoparmela. E non mi trattengo nemmeno dal dirle che non era una novità. Che già una volta sono stata con un’amica – no, non quella troia, un’altra – a fare una gang bang in una stanza d’albergo con tre uomini. No, non tutti e tre insieme, lei sì ma io no. E comunque a fine serata ho visto che nella borsa c’era una busta con i soldi, anche se io li avevo rifiutati. Le racconto anche questo. Forse il suo modo di nascondersi la faccia tra le mani e scuotere la testa sarebbe un invito implicito a piantarla, a chiudere la bocca, non lo so. Ma sta di fatto che le racconto anche questo. E poi tutto il resto, a cominciare da quella oscena gara fatta con Serena. Quella di farsi scopare da ragazzi e uomini diversi, misurare le loro dotazioni e vedere chi arrivava per prima a un metro.
Tutto, le dico tutto. Quello che ho scritto nei miei racconti e anche qualcosa che non ho scritto. Certo, in modo confuso, senza tanti particolari, saltando di palo in frasca. A volte vergognandomi profondamente. Altre quasi rivendicando. Perché in fin dei conti tutto ciò che faccio lo faccio perché mi attira, lo cerco, mi piace. Sì, anche le ragazze. E gli uomini sposati? Credi che l’unico che mi sia fatto sia stato il prof di Londra che ti ho raccontato? E sì, mi piacciono un sacco di cose. Anche diverse, anche in contraddizione tra loro. Mi piace essere corteggiata, ma mi piace anche fare la puttana. Mi piace essere ammirata e desiderata, ma mi piace anche essere disprezzata. Ti sembra strano Martì? Lo sai quando ho scoperto davvero che essere disprezzata può darti piacere? Mica sempre, è chiaro, mica sto parlando del disprezzo sociale, sto parlando di un’altra cosa. L’ho scoperto un giorno che sono sparita nel sottoscala del bar davanti scuola con un amico. Mica era la prima volta e mica solo con lui. Lo sapevano tutti cosa andavo a fare quando sparivo. Ci sono stati due o tre mesi verso la fine dell’ultimo anno che sono stati un vero delirio da questo punto di vista. Lo sai come mi chiamavano? Mi chiamavano la Vergine Pompinara. Sì, lo so che tu e mamma, tutte quelle telefonate con i ragazzi… ma tanto ero vergine, no? Lo diceva pure la ginecologa amica di mamma… e io vi dicevo che andavo al cinema, al pub, al parco con i miei amici. Certo che ci andavo, ma come cazzo avete fatto a non immaginare nemmeno per un istante cosa ci facevo? Comunque, ti dicevo, ero finita là sotto, e questo qui mi era appena venuto in bocca. Mi dice “resta così che vado su a vedere se è arrivato un mio amico, ti vuole conoscere, glielo fai un pompino anche a lui?”. A parte il fatto che mica era la prima volta, nemmeno questa, che qualcuno mi chiedeva di soddisfare oltre a lui anche un amico, io questo qui lo conoscevo. Come si chiamasse, boh, non me lo ricordo, ma lo conoscevo. Ho risposto sì, d’accordo e ho aspettato. Ho fatto un pompino pure a lui. Mi piace farli, che ci devo fare? E piace pure a te, lo so. Solo che dopo di lui ce n’era un altro. Non sapevo che fosse lì, manco lo conoscevo, chissà da dove cazzo era sbucato fuori. Mentre lo succhiavo mi diceva quanto ero troia. Ok, tutto normale, mi piace essere chiamata troia. Però prima di venire l’ha tirato fuori e ha cominciato a segarsi davanti a me dicendomi che facevo schifo, che se fosse stato mio padre mi avrebbe tenuta legata per il collo con una catena a casa, e prima di schizzarmela in faccia mi ha detto “non vali un cazzo”. Sono quasi svenuta quando me l’ha detto. E oltre a essere quasi svenuta sono pure quasi venuta, non capivo più nulla. Mi sentivo annientata. Credo che sia stata la prima volta che qualcuno mi ha scopata nel cervello con questa violenza. Ecco, quel disprezzo, quel cazzone di Davide non ce l’ha, lui mi ama! Anzi, mi amava. Ma che c’è di strano a dirti “ti amo” di giorno e dirti “che puttana che sei” di notte? Quella volta lì, in quel bagno, mi sono dovuta masturbare due volte, per calmarmi. E mi sono anche infilata un dito nel sedere… Perché il cazzo lì dietro non mi piace ma un dito sì. Cioè no, l’ultima volta mi è anche piaciuto… mentre tu ci godi proprio, vero Martì? Ti ho sentita quella volta che scopavi a casa con Massimo, l’ho sentito come ti piaceva, mi ci sono fatta due ditalini mentre scopavate. E pure i giorni dopo, cercando di ricordarmi come lo imploravi di fare piano… Ti manca anche quello, sorè?
– Basta! – strilla Martina guardandomi quasi con odio – Basta! Hai capito?
– Basta un cazzo! Prendimi a schiaffi, altro che basta! L’hai capito tu, invece, che troia di sorella che hai? Altro che basta! E’ da un’ora che voglio che tu mi prenda a schiaffi!
Non mi prende a schiaffi, mi tappa la bocca. Sono le due di notte ormai e nel silenzio assoluto di questo albergo di montagna si sentono solo le nostre voci. Ma va benissimo anche questa mano sulla bocca. Ho il bisogno, assoluto, che lei mi dimostri chi è. Ho il bisogno, assoluto, di una sorella maggiore. Me ne rendo conto solo ora, ma sono settimane che ho questo bisogno. Quasi vado in apnea, perché mi ostruisce anche il naso. Ma annuisco. Lentamente e silenziosamente annuisco. La guardo, ma progressivamente riesco a vederla sempre meno, perché gli occhi mi si riempiono di lacrime. E anche i suoi. Sister, adesso sai tutto.
CONTINUA
No, come “nulla”? Sento mia sorella che piange in camera, entro e la trovo abbandonata sul letto con gli occhi rossi e la faccia rigata dalle lacrime e questo sarebbe “nulla”? Sarebbe “nulla” quello sguardo stravolto che mi indirizza che non so nemmeno se mi vede? E’ questo “nulla” che ha trasformato la dolce Martina in una bisbetica, negli ultimi tempi? Cosa è questo “nulla”? Solo che, lo sapete meglio di me, certe cose è più facile pensarle, in questi momenti.
– Marti, io… – è l’unica cosa che riesco a dire.
Cercate anche di capirmi. Voglio dire, Martina è proprio maggiore-maggiore, come sorella. Ha cinque anni più di me. Per me è sempre stata un punto di riferimento, un traguardo da raggiungere. Il suo mondo lo conosco poco, quasi per niente. Possiamo andare d’amore e d’accordo o dircene di tutti i colori, come negli ultimi giorni. Ma lei resta la prima e io la seconda. Su questo non c’è proprio alcun dubbio. E non perché l’abbia deciso qualcuno, ma perché è così, è sempre stato così. E’ una cosa che sento dentro, è ammirazione e soggezione insieme. E naturalmente è anche amore infinito.
– Lasciami sola – piagnucola.
– Scusa, ma io…
– Anna, che cazzo hai fatto?
Un attimo, come sarebbe a dire “che cazzo hai fatto?”. Mica ho fatto niente, mica sono io quella che piange disperata sul cuscino.
– Io? Che ho fatto? – domando cercando di ricordare quali atrocità possa avere commesso. Con quella semplice domanda mi ha rovesciato addosso una valanga di sensi di colpa.
– Sei tutta rossa… sembri… non so, sconvolta…
– Io? Marti scusa ma sei tu che stai piangendo. Che succede?
– Niente ti ho detto, tornatene a letto. Hai una faccia…
– Se ti dico perché ho questa faccia tu mi dici perché stai piangendo?
Ecco fatto. Ecco cosa significa avere la lingua più veloce del cervello. Potevo stare zitta e tornarmene a letto davvero. Oppure trovare un altro modo per convincerla. E invece no… E non scomodate Freud, per favore. Il desiderio di confessare e tutte quelle robe lì. Non c’entrano un cazzo. Ho fatto una stronzata e adesso non mi resta altro che sperare che lei mi risponda “no, non me ne frega un cazzo”, che torni ad essere la scorbutica che è stata in questi giorni e vaffanculo a tutto.
D’altra parte, però, sento che alzare un muro tra noi adesso vorrebbe dire alzarlo per sempre. Cioè, per sempre magari no, ma mi avete capita.
– Avanti, che cazzo hai combinato? – domanda cercando di mantenere un piglio da dura. Che poi lo faccia premendosi un fazzoletto sul naso gocciolante, vabbè lasciamo perdere l’effetto che fa…
– Ho appena fatto sexting con un amico – dico tutto d’un fiato e chiudendo gli occhi.
Le espressioni sul suo viso cambiano in, diciamo, non più di tre secondi. Sono sempre stata impressionata dalla rapidità di questi cambiamenti. Prima mi guarda sorpresa come se stesse per scoppiare a ridere. Poi il sorriso diventa una smorfia amara, infine scoppia sì, ma a piangere. Un’altra volta.
– Ahò, però mò tocca a te… – le faccio con addosso tutto l’imbarazzo che è possibile provare in una situazione del genere.
– Io e Massimo ci siamo lasciati – dice con gli occhi bassi – anzi, è lui che ha lasciato me…
E’ la fine del mondo? Beh sì, è la fine del mondo. Del mondo intorno a me, di come lo conosco.
C’è anche qualcosa che è, oltre che doloroso, amaramente ironico in tutto ciò, ma lo scopro solo tre settimane dopo, più o meno. Su un treno, il treno che porta me e Martina verso le Dolomiti. Non sono riuscita a sapere molto di più sulla rottura tra lei e Massimo. Tuttavia, come se si fosse tolta un peso, dopo avermelo confessato ha iniziato a essere meno acida, e non solo con me. Ha anche trovato il modo di dirlo ai miei. Ovviamente sono state giornate di lutto stretto, tutti a casa eravamo convinti che lei e Massimo si sarebbero sposati.
Sono state anche giornate in cui ho confrontato il suo dolore con il mio senso di colpa per Davide. E questo non ha fatto altro che confermarmi quanto sono stronza. Paragonavo il dolore che lei provava per Massimo a quello che avevo fatto provare a Davide. Due sofferenze diverse, certo, ma in fondo simili. Che io, per Davide, proprio non sentivo. Quel tipo di dolore non mi sfiorava nemmeno.
Qualche giorno dopo, Martina mi ha chiesto se non mi andasse di accompagnarla in settimana bianca. Era tutto già prenotato, già in parte pagato. Per lei e Massimo, chiaramente. Sulle prime ho rifiutato. Un po’ perché io odio lo sci. O meglio, non è che lo odio. E’ che sono più il tipo da tennis, a sciare sono una vera e propria pippa. La sciatrice è lei. Poi perché avevo due esami da dare. E infine perché pensavo che sarebbe stata una mezza tortura per me, ma anche per lei, passare una settimana insieme nel posto che loro due avevano scelto. Ma alla fine mi sono piegata. Ho dato un esame e sono riuscita a spostarne un altro. L’ho fatta felice, almeno per qualche ora.
Prima di partire mi sono però fatta coraggio, forse rinfrancata dall’esame appena dato, e ho telefonato a Davide. Nulla, telefono staccato. Nemmeno chiamata rifiutata, proprio morto. Mi sono fatta ancora più coraggio e sono andata, una mattina, sotto casa sua. Conosco i suoi orari, ma non conosco bene il suo portone. Ci sono stata solo una volta, era sempre lui che passava a prendere me. E poiché ci sono due portoni gemelli a poca distanza l’uno dall’altro mi sono ovviamente piazzata davanti a quello sbagliato. L’ho comunque visto uscire e gli sono corsa dietro, chiamandolo. Sì è voltato e mi ha vista, senza nessuna espressione particolare dipinta sulla faccia. Solo che è tornato indietro ed è sparito nell’androne prima che potessi raggiungerlo, chiudendosi il portone alle spalle. La sera stessa mi è arrivato un sms, da un numero sconosciuto. C’era scritto: “Non farti più vedere, non cercarmi mai più. Questo è il numero di una mia amica quindi non rispondere”. Non ho risposto, ho telefonato direttamente a quel numero. Ho chiesto alla ragazza se poteva farmi parlare con Davide, o se poteva almeno dirgli di chiamarmi. Mi ha spazzata via con poche parole, come se fossi una mosca fastidiosa: “Davide non è qui e comunque non vuole parlarti, non ti vuole proprio più vedere né sapere nulla di te, troia”. Più che rimanerci di merda, mi è venuto da pensare che l’insulto che non mi sono mai beccata da lui me lo sono beccato da una sua amica. Ma me lo meritavo, mi merito tutto.
Sul treno che ci portava su al Nord Martina si era finalmente decisa a sbottonarsi un po’. Parlando all’improvviso a bassa voce, come se non fosse essenziale che la ascoltassi, aveva confessato che l’ultimo week end passato insieme con Massimo, una sera al ristorante, lei si era allontanata per andare in bagno e lui aveva cominciato a giocherellare con il suo telefono. E aveva scoperto una chat di sesso virtuale (“anche abbastanza esplicito”) tra lei e uno dello studio. Ne era nato un dramma durato due giorni, fino al loro ritorno a Roma, quando erano ormai una ex coppia. Ad ascoltarla, non avevo potuto fare a meno di ripensare a quel paio di giorni passati a Bologna, l’ultima volta che sono salita su da Tommy. Passati a scopare ed insultarci perché, ne sono sempre più convinta, nessuno dei due era stato capace di mettere da parte il proprio orgoglio e dire “ok, affanculo tutti gli altri, io è con te che voglio stare”. Avevamo superato da poco proprio la stazione di Bologna, il mio magone in quei momenti ve lo lascio immaginare.
L’amara ironia di cui vi dicevo in precedenza è che, praticamente, per spingerla a confessarmi che il suo ragazzo l’aveva mollata per avere fatto sexting con un altro, le avevo rivelato a mia volta di avere appena fatto sexting con un mio amico. Più ci penso, però, più mi pare una stronzata. Due come lei e Massimo non si possono lasciare per una cosa del genere, dai. Ok, un paio di settimane di vaffanculi, d’accordo. Ci stanno. Che un po’ te la faccia pagare è il meno, va bene, ma mandare a monte tutto… Lo penso e glielo dico mentre aspettiamo la coincidenza del treno in una assurda stazioncina di montagna che sembra fatta con il Lego.
Lei mi risponde che forse sì, ho ragione, ma che nel momento esatto in cui ha visto che Massimo aveva scoperto tutto, ha capito che non ci sarebbe stato perdono. La abbraccio, perché non so cosa altro fare.
Qualche minuto dopo però, sul trenino che ci porta alla nostra destinazione finale, nel vuoto del vagone, rompe il suo silenzio: “E comunque, con quello non è stato solo virtuale”. Le domando “avete scopato?”. Mi risponde “no, scopato no”. La guardo un attimo interdetta ma poi, chissà che cazzo mi piglia, ho voglia di un particolare in più. “Un pompino?”. “Cazzo, Anna…”, risponde con una smorfia di fastidio. Ma non è un problema di linguaggio, ovviamente. Mi stringo nelle spalle, lei distoglie lo sguardo e mi fa: “La frase che Massimo ha letto era ‘voglio sentire lo sperma nella mia bocca’… beh no, era un po’ peggio”. Resto quasi fulminata e non so cosa rispondere, non so davvero cosa dire. Per fortuna ci pensa lei a cambiare discorso: “Li hai portati i guanti e le termiche? E il pile?”. Le dico che ho dovuto ricomprare tutto, perché dall’ultima volta che sono stata sulla neve sono leggermente cresciuta. E meno male che papà ha sganciato i soldi. “E il costume?”. “Che costume? No, non ci ho… oh cazzo”. “C’è la spa e c’è la piscina… vuoi andarci in mutande?”.
La prima cosa che facciamo, senza quasi avere posato le valigie, è correre a comprare un costume prima che i negozi qui chiudano. Ma una volta salite in camera lo provo e mi accorgo che la commessa mi ha presa per il culo. A parte il fatto che i costumi interi non mi piacciono e che è di un rosa che sembro una caramella (e vabbè, c’era solo quello), non è la mia taglia, sarà la taglia di una ragazzina. Alta quanto vi pare, ma una ragazzina. E meno male che ho poche tette. “Mi tira tutto, mi finisce tra le chiappe…”, piagnucolo insoddisfatta. Martina mi fa fare un giro su me stessa commentando “ma magari un po’ si allarga”, poi un altro giro. Comincia a ridere, dapprima cercando di frenarsi, alla fine senza ritegno. A vederla sghignazzare distesa sul letto, rido anche io. O meglio, sorrido. Ma non perché mi abbia contagiata. Perché penso che la figura della cretina la faccio volentieri, pur di vederla ridere così, dopo tanto tempo.
E comunque sì, faccio proprio la figura della cretina. Quando mi tolgo l’accappatoio e lo poggio su una sdraio della piscina sembra che tutti guardino me. Entro in acqua che ho le natiche praticamente scoperte. Non che me ne freghi un cazzo, al mare faccio vedere anche di più. Ma se permettete lo decido io e sto pure più comoda. Sì, perché in acqua è peggio. Anche se verso la fine, forse ha ragione lei, il tessuto elasticizzato un po’ sembra cedere.
Mi muovo il meno possibile. Scopro una serie di bocchette per l’idromassaggio e praticamente le sequestro, mettendomici davanti. Dicendo a Martina che si lamenta che ho bisogno di quel getto d’acqua, che mi sento tutta contratta. Non è vero un cazzo. Sull’altro lato della vasca due ragazzi ci guardano incuriositi, credo che abbiano capito tutto e secondo me si fanno delle belle risate sulla sottoscritta. Devono essere fratelli, proprio mentre arrivavamo li ho visti scendere da una macchina, una specie di suv transatlantico, insieme a quelli che penso siano i loro genitori. Sono belgi, almeno così dice la targa della macchina. Lui è un bel ragazzo, onestamente. Ma la vera bellezza è la sorella, anche se ha uno sguardo un po’ troppo severo, a volte. Parlottano tra di loro e, ve l’ho detto, credo proprio che si stiano facendo delle grasse risate su di me. Domani lo cambio, sto cazzo di costume. Anzi, dopodomani, domani qui sarà tutto chiuso.
A cena io e Martina abbiamo un tavolino piccolo piccolo. Cazzo, non volevo un banchetto, ma una cosa per stare un po’ più comode no? Accanto a noi c’è proprio la famigliola belga. Cioè no, col cazzo che sono belgi. Ah, Bg è Bulgaria? Non lo sapevo, rispondo a Martina che alza gli occhi al cielo. A dispetto della bellezza dei figli, i genitori sono quasi inguardabili. Oddio, la madre magari no, se non avesse qualche chilo di troppo e quello sguardo di chi sta per metterti al muro e fucilarti. Il padre invece è proprio uno che classificherei come canide, un bulldog per la precisione.
In albergo, come spesso in montagna, siamo a mezza pensione. A pranzo, sulle piste, ognuno pensa per sé, poi la sera si cena qui. Per dire la verità io e Martina abbiamo già deciso di mangiarci il meno possibile e di farci un giro dei ristorantini del luogo, sempre che ce ne siano. Dopo la prima e la seconda portata, però, le nostre certezze vacillano: “Ma siamo proprio sicure? Cazzo, qui si mangia da Dio!”, le faccio. Lei risponde “mmm, mmm…” con la bocca occupata da un cannolo ripieno di speck e ricotta.
Finita la cena insisto con lei per non risalire subito in camera. Ci sbrachiamo in due sulla poltrona di un salottino e facciamo un paio di Insta, mandiamo un video ai vecchi (ok, hanno già telefonato due volte, per fortuna a lei) e chattiamo un po’ per cazzi nostri. Le dico che una cosa la berrei volentieri, nella stube. Mi risponde che è stanca, che torna in camera. Le dico che se è stanca adesso figuriamoci domani sera, dopo che avrà sciato. Risponde che domani sera lei sarà un fiore, mentre quella che scoprirà di avere muscoli doloranti che nemmeno sapeva che esistessero sarò io. Le ridacchio addosso sarcastica, perché temo proprio che abbia ragione.
“Però almeno una sigaretta me la vorrei fare, prima di andare a letto”, mi lagno. Dice “va’ di fuori e fumatene una” e io replico che ad avercele, le sigarette, sarebbe una cosa da bambini. “Vai fuori e trova qualcuno che te la offre, sennò domani te le compri…”, mi fa con un’aria, volutamente, da maestrina. Prima che mi salgano su i nervi esco. Sulle prime non me ne accorgo, ma fa davvero un freddo becco. Oppure sono io che sono scesa a cena con addosso solo i pantaloni della tuta e una felpa. Non ho nemmeno il reggiseno.
A fumare, davanti all’ingresso, c’è una coppia. Qualche metro più in là, al buio, una ragazza. Mi avvicino e la riconosco, è la belga-diventata-bulgara. Le chiedo se mi offre una sigaretta. Mi sorride, mi fa accendere, mi chiede di dove sono e se è la prima volta che vengo qui. Le solite cose, insomma. A me piacerebbe pure conversare con lei, anche perché parla un inglese davvero ottimo. Però sto morendo di freddo e la sigaretta, più che fumarmela, me la mangio. Sto per spegnere la cicca quando così, out of the blue, indossando un maglione azzurro con i motivi della neve disegnati sopra e un paio di pantaloni di velluto color cachi, passa davanti a noi Chris Hemsworth, quello che fa Thor negli Avengers. Cioè no, chiaramente non è Chris Hemsworth, ma gli somiglia tantissimo. E’ bello-bello, alto-alto e ha un petto sopra il quale ci potrebbe atterrare senza difficoltà un Airbus. Oppure ci potrei atterrare io, stravolta dall’orgasmo. Se non fosse che la situazione complessiva è quella che è, prenderei in seria considerazione l’idea di dirgli “ciao, io sono solo una stronzetta insignificante, non è che stanotte posso restare inginocchiata davanti al tuo letto a guardarti dormire? anche nuda se vuoi”. Chiaramente non gli dico nulla di tutto questo ma lo osservo. A lungo, troppo a lungo. E per un po’ i nostri sguardi si avvitano l’uno dentro l’altro e avverto distintamente un crampetto. Poi lui ci sorride e passa oltre, rientra in albergo. Io e la bulgara ci guardiamo in silenzio per un po’ e nei suoi occhi, con la traduzione simultanea, leggo la frase “cazzo che manzo!”. La stessa che lei probabilmente legge nei miei. Quando le auguro la buonanotte mi sorride ancora e mi fa “se ti serve, domani, un costume te lo posso prestare io”. La guardo e mi pare indecifrabile. Cioè, non capisco se scherzi, se mi stia prendendo per il culo o sia semplicemente gentile. Ridacchio un po’ e la ringrazio. Torno in camera pensando a Chris Hemsworth. Martina è già in camicia da notte che legge stesa sopra il piumone con i piedi intrecciati.
Nel gioco delle prenotazioni e delle disdette si può dire che siamo state fortunate. La stanza che ci hanno dato è molto più adatta a una famiglia che a noi. E’ grande, con un lettone, un tavolo e un divano Addirittura due televisori. Accanto c’è uno stanzino con due letti e un ripostiglio abbastanza ampio per tenere le valigie e i vestiti. Mi infilo il pigiama e mi appresto a entrare nella cameretta, quella idealmente dedicata ai figli, quando Martina batte la mano sul materasso e mi fa “ma dove cazzo vai? guarda quanto spazio c’è qui…”. In un attimo mi sembra di ritornare bambina, quando ogni sera chiedevo di dormire con lei, venendo peraltro respinta con regolarità. Non dico nulla, alzo le braccia e salto sul lettone gridando “yeeeeee”. Quando atterro, lo scricchiolio del legno è così sinistro che mia sorella si spaventa e grida “ma che, sei scema? qui si sfascia tutto!”.
Ridacchio e chiedo scusa, ma sono contenta. Mi accoccolo sotto il piumone e la guardo mentre legge. Domanda “tu non hai portato un libro?”. Le dico “no, cioè sì, quelli dell’esame”. Fa una smorfia e continua a leggere. Ma sia io che lei sappiamo che non la lascerò leggere. Non c’è un motivo, o se c’è non ve lo so dire. E’ nell’aria.
– Marti, posso chiederti una cosa? – domando.
– Certo che sì, ma la risposta è no – dice senza staccare gli occhi dal libro.
– Prego? – domando stupita.
– Nel senso che se mi stai per chiedere se avere fatto sesso con quei due a Milano o con quello dello studio significhi che il mio rapporto con Massimo fosse alla frutta… beh, non è così. Amavo Massimo, anzi probabilmente lo amo ancora, nonostante tutto.
Resto a bocca aperta chiedendole come cazzo abbia fatto a capirlo. Mi lancia un sorriso malinconico e mi fa: “Era una domanda logica”.
– Sono troppo logica? – chiedo.
– Ma no, ma no. Tu piuttosto, come va con il tuo ragazzo?
– Ma chi? Davide? Mica ci sto più con Davide! – le faccio.
– Cioè? – chiede stupefatta.
– Cioè non stiamo più insieme… – rispondo.
– Lo hai friendzonato?
E’ molto più facile a raccontarlo che a farlo. Ok, è la prima volta che penso a Davide da quando sto qui. Ma il senso di colpa mi morde ancora. Martina si gira a guardarmi. Non sembra particolarmente sorpresa, ma dispiaciuta sì. Alzo le spalle come a dire “non fa niente, è andata così”. Lei allunga la sua mano sulla mia e mi fa “piccola…”.
Chi lo sa? Forse è proprio questa parola a scatenare tutto. In realtà, non so nemmeno io bene perché lo faccio. Non mi rendo conto che in questo modo romperò definitivamente il tipo di legame che c’è tra me e Martina e ne costruirò uno del tutto nuovo. E’ come quando, poco più di un mese e mezzo fa, mi ha confessato che mamma si era accorta del mio top imbrattato di sperma mentre lo metteva in lavatrice, lo sperma di Davide, e ci aveva pure scherzato su: “Meglio fuori che dentro”. Avevo percepito nettamente che da quel momento in poi non sarei stata più la piccola di casa. E adesso sta per succedere lo stesso, con Martina. Lo so, potrei evitarlo. Ma invece chiudo gli occhi e ci corro incontro.
– Mi ha lasciata lui. Perché ha visto un video in cui scopavo con due amici suoi e un’altra ragazza, una che fa la mignotta di professione.
Non so dire la faccia che fa Martina. E nemmeno la quantità di espressioni che, da questo momento in poi, attraversano il suo viso mentre le parlo. Non dico descriverle, semplicemente enumerarle. Per non parlare delle altre reazioni. Di come muove inconsapevolmente il corpo o di come, dopo avermi esortata a raccontare, mi interrompe nemmeno dieci parole dopo e mi fa “ti prego, dimmi che mi stai prendendo per il culo”. E tuttavia no, non la sto prendendo per il culo, tiro fuori tutto. Non enfatizzo ma nemmeno nascondo. Non minimizzo né recito la parte della povera vittima per placare la sua indignazione di fronte al fatto che mi sia lasciata scopare da due sconosciuti amici del mio ragazzo e che mi sia ritrovata con quattrocento euro in mano. Dico semplicemente “non avevo proprio idea che quella facesse la prostituta, io volevo solo scoparmela. E non mi trattengo nemmeno dal dirle che non era una novità. Che già una volta sono stata con un’amica – no, non quella troia, un’altra – a fare una gang bang in una stanza d’albergo con tre uomini. No, non tutti e tre insieme, lei sì ma io no. E comunque a fine serata ho visto che nella borsa c’era una busta con i soldi, anche se io li avevo rifiutati. Le racconto anche questo. Forse il suo modo di nascondersi la faccia tra le mani e scuotere la testa sarebbe un invito implicito a piantarla, a chiudere la bocca, non lo so. Ma sta di fatto che le racconto anche questo. E poi tutto il resto, a cominciare da quella oscena gara fatta con Serena. Quella di farsi scopare da ragazzi e uomini diversi, misurare le loro dotazioni e vedere chi arrivava per prima a un metro.
Tutto, le dico tutto. Quello che ho scritto nei miei racconti e anche qualcosa che non ho scritto. Certo, in modo confuso, senza tanti particolari, saltando di palo in frasca. A volte vergognandomi profondamente. Altre quasi rivendicando. Perché in fin dei conti tutto ciò che faccio lo faccio perché mi attira, lo cerco, mi piace. Sì, anche le ragazze. E gli uomini sposati? Credi che l’unico che mi sia fatto sia stato il prof di Londra che ti ho raccontato? E sì, mi piacciono un sacco di cose. Anche diverse, anche in contraddizione tra loro. Mi piace essere corteggiata, ma mi piace anche fare la puttana. Mi piace essere ammirata e desiderata, ma mi piace anche essere disprezzata. Ti sembra strano Martì? Lo sai quando ho scoperto davvero che essere disprezzata può darti piacere? Mica sempre, è chiaro, mica sto parlando del disprezzo sociale, sto parlando di un’altra cosa. L’ho scoperto un giorno che sono sparita nel sottoscala del bar davanti scuola con un amico. Mica era la prima volta e mica solo con lui. Lo sapevano tutti cosa andavo a fare quando sparivo. Ci sono stati due o tre mesi verso la fine dell’ultimo anno che sono stati un vero delirio da questo punto di vista. Lo sai come mi chiamavano? Mi chiamavano la Vergine Pompinara. Sì, lo so che tu e mamma, tutte quelle telefonate con i ragazzi… ma tanto ero vergine, no? Lo diceva pure la ginecologa amica di mamma… e io vi dicevo che andavo al cinema, al pub, al parco con i miei amici. Certo che ci andavo, ma come cazzo avete fatto a non immaginare nemmeno per un istante cosa ci facevo? Comunque, ti dicevo, ero finita là sotto, e questo qui mi era appena venuto in bocca. Mi dice “resta così che vado su a vedere se è arrivato un mio amico, ti vuole conoscere, glielo fai un pompino anche a lui?”. A parte il fatto che mica era la prima volta, nemmeno questa, che qualcuno mi chiedeva di soddisfare oltre a lui anche un amico, io questo qui lo conoscevo. Come si chiamasse, boh, non me lo ricordo, ma lo conoscevo. Ho risposto sì, d’accordo e ho aspettato. Ho fatto un pompino pure a lui. Mi piace farli, che ci devo fare? E piace pure a te, lo so. Solo che dopo di lui ce n’era un altro. Non sapevo che fosse lì, manco lo conoscevo, chissà da dove cazzo era sbucato fuori. Mentre lo succhiavo mi diceva quanto ero troia. Ok, tutto normale, mi piace essere chiamata troia. Però prima di venire l’ha tirato fuori e ha cominciato a segarsi davanti a me dicendomi che facevo schifo, che se fosse stato mio padre mi avrebbe tenuta legata per il collo con una catena a casa, e prima di schizzarmela in faccia mi ha detto “non vali un cazzo”. Sono quasi svenuta quando me l’ha detto. E oltre a essere quasi svenuta sono pure quasi venuta, non capivo più nulla. Mi sentivo annientata. Credo che sia stata la prima volta che qualcuno mi ha scopata nel cervello con questa violenza. Ecco, quel disprezzo, quel cazzone di Davide non ce l’ha, lui mi ama! Anzi, mi amava. Ma che c’è di strano a dirti “ti amo” di giorno e dirti “che puttana che sei” di notte? Quella volta lì, in quel bagno, mi sono dovuta masturbare due volte, per calmarmi. E mi sono anche infilata un dito nel sedere… Perché il cazzo lì dietro non mi piace ma un dito sì. Cioè no, l’ultima volta mi è anche piaciuto… mentre tu ci godi proprio, vero Martì? Ti ho sentita quella volta che scopavi a casa con Massimo, l’ho sentito come ti piaceva, mi ci sono fatta due ditalini mentre scopavate. E pure i giorni dopo, cercando di ricordarmi come lo imploravi di fare piano… Ti manca anche quello, sorè?
– Basta! – strilla Martina guardandomi quasi con odio – Basta! Hai capito?
– Basta un cazzo! Prendimi a schiaffi, altro che basta! L’hai capito tu, invece, che troia di sorella che hai? Altro che basta! E’ da un’ora che voglio che tu mi prenda a schiaffi!
Non mi prende a schiaffi, mi tappa la bocca. Sono le due di notte ormai e nel silenzio assoluto di questo albergo di montagna si sentono solo le nostre voci. Ma va benissimo anche questa mano sulla bocca. Ho il bisogno, assoluto, che lei mi dimostri chi è. Ho il bisogno, assoluto, di una sorella maggiore. Me ne rendo conto solo ora, ma sono settimane che ho questo bisogno. Quasi vado in apnea, perché mi ostruisce anche il naso. Ma annuisco. Lentamente e silenziosamente annuisco. La guardo, ma progressivamente riesco a vederla sempre meno, perché gli occhi mi si riempiono di lacrime. E anche i suoi. Sister, adesso sai tutto.
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