Posate d'argento e bacchette laccate
di
Yuko
genere
saffico
Resto affascinata dai riflessi dell'argento. Non sono banali scintillii metallici.
L'argento ha riflessi molto diversi dall'acciaio. Son più caldi, morbidi, accoglienti.
Difficile immaginare che un coltello d'argento o di alpacca sia veramente tagliente, che possa ferire. Nella mia fantasia l'argento e l'alpacca sono soffici, lisci e setosi.
Come le bacchette di legno laccate, le hashi giapponesi. Uniformi e morbide, brillanti e sensuali come le gambe di una donna con autoreggenti blu scure o nere.
Il cibo scivola un poco, rispetto al legno grezzo.
Più adeguate ad accarezzare il corpo di una donna, con quelle loro decorazioni floreali.
Come le posate d'argento.
Il corpo di Jadine è nudo sotto i miei occhi. Il seno, abbondante e prosperoso, si appoggia mollemente sul torace della ragazza abbandonata sul divano, ricoperto di tessuti dai vivaci colori.
Come un fiume stanco che si abbandona alla foce, per entrare maestosamente nel mare.
I capezzoli neri, più scuri dei miei. Il ventre lievemente globoso scollina verso le pieghe inguinali e si consegna al suo pube glabro, verso la vulva scura e gonfia.
Un corpo ubertoso, che suggerisce l'accoppiamento e la riproduzione. Un corpo sensuale e misterioso, capace di attirare l'attenzione dell'uomo ed il desiderio delle donne.
La sua pelle nera brilla di fantasie del colore del rame, un contrasto formidabile con i riflessi dell'argento.
Il nobile metallo dona una sfumatura di avorio alla distesa di morbido cioccolato di Jadine.
La panna che infiocchetta un caldo gianduiotto proveniente dal Senegal apposta per me.
Con un cucchiaio sollevo il seno della giovane mentre lei mi osserva con desiderio.
Lo innalzo e lo lascio scivolare.
L'aria è carica di tensione erotica.
Il seno di ebano servito su un cucchiaio d'argento.
Il seno che deborda dal metallo, che lo riempie e quasi lo avvolge.
Il riflesso dell'argento illumina la pelle color testa di moro.
Il capezzolo si gonfia quando lo accarezzo col coltello del pesce.
Il coltello normale è tagliente, mentre questo bizzarro strumento, questa specie di spatolina usata sì e no una volta ogni due anni, dai profili morbidi ed arrotondati, mi sembra estremamente appropriato per questo corpo dalle linee tonde e piene.
L'africana mi guarda e scoppia a ridere. Quella risata sguaiata tipica delle donne nate e cresciute nel sahel, quei denti bianchissimi che risaltano sulla pelle cotta dal sole.
“Maintenant c'est a moi!”
Vuole giocare anche lei col mio corpo.
La adoro quando fa così, quando i suoi desideri, i suoi giochi le brillano negli occhi ancora prima di essere concretizzati in parole.
Mi accomodo io sul divano, mentre con un cucchiaino da caffè, quei micronici cucchiaini della Barby, mi prende un capezzolo.
Lo accarezza con il lato concavo, ne percorre la superficie mentre il frutto si dilata e l'areola si contrae.
Cucchiaini così piccoli che l'intero capezzolo, gonfio ed eccitato, quasi ne deborda.
Lo prende e lo solleva con il piccolo monile d'argento.
Se lo porta alla bocca e lo sfiora con la punta della lingua.
Una linguetta rosso vivo tra quelle grosse labbra mogano.
Umida e calda.
Un piccolo fiammeggiante lampo di energia nel mare di cioccolato fondente.
Col cucchiaino mi percorre il perimetro dell'areola, accarezzando ciascuna delle piccole emergenze che si sollevano sulla superficie, come piccoli satelliti del monarca che svetta grosso e soffice, un lampone scuro e maturo.
Ogni posata ha la medesima superficie liscia, ma l'argento sembra più liscio e caldo.
Il tocco freddo mi eccita, eppure i riflessi evocano calore ed il contorno sembra quasi vellutato.
La spatolina del pesce nelle mani incerte di Jadine, scivola sulla mia pelle ora.
Naviga come un piccolo yacht nel mare del Giappone, fra le isole che ne emergono ed i monti che svettano.
Così liscia, così fresca sulla pelle.
Poi è la forchetta degli antipasti che fa scempio di sensazioni.
La senegalese ha subito imparato, poi è solo la ricerca perversa di un piacere insolito, che deve uscire dalle convenzioni.
Mi punge la punta del naso, poi le labbra, appena appena, delicata.
Ma la peste nera prosegue sul mio collo. I rebbi mi grattano la pelle, piccoli graffi dal mento lungo la curvatura del seno.
I dentini raggiungono l'areola ed avvolgono la tumescenza che ne emerge. Ci girano intorno.
La forchettina alla guida di quattro piccoli destrieri che girano intorno al mio capezzolo, scivolano dal mio seno e raggiungono l'altro. Un percorso “ad otto” intorno ai santuari del piacere. Una quadriga che, guidata dalle mani scrupolose di Ben Hur, evoca sensazioni di piacere condito da una sfumatura tenuemente dolorosa. I rebbi accarezzano il capezzolo, microscopiche unghie tra le porosità della mia pelle; scavano nelle profondità del mio cervello in cerca di rubini di estasi.
Le unghiette contornano il mio petto, le tette sollevate sulla punta dei quattro artigli argentati.
Jadine è una strega.
Mi punge leggermente sulla rotondità delle tette e giocherella col mio ombelico.
L'addome si contrae quando la fattucchiera del Sahara alterna la puntura soffice alla carezza fredda del dorso della forchettina.
Gli attrezzi del diavolo, fusi nella fornace in argento e sangue di giovane giapponese.
Con curiosità, gli occhioni bianchi della senegalese scrutano nel servizio di posate d'argento.
I riflessi luminosi si muovono sul suo volto scuro, come meteore in un cielo senza luna, ma ora tocca a me.
“Jadine, sul divano!”
Le posate d'argento ora aspetteranno, sazie del mio corpo e della mia pelle, gravide del mio piacere.
Jadine, seduta, nuda, le cosce aperte, le braccia larghe sulla spalliera, le ascelle lisce e lucide.
Una giapponese a cavalcioni, appoggiata sulle sue cosce, le mie chiappotte soffici sulle sue ginocchia.
Asia ed Africa.
Il continente nero ed il continente giallo.
Occhi a mandorla e pelle ebano.
Le bacchette fra le mie dita frenetiche. Le hashi. Tichettio di bambu ricoperto di lacca nera.
Le punte si toccano impazienti come voraci mandibole di un cervo volante, vogliono la soffice carne di una senegalese.
Abilità e precisione.
La poveretta ritrae il musetto, ma le punte delle bacchette le raggiungono la sommità del naso.
Il nasino tozzo e largo scappa e scivola, ma io le pinzo una narice, la blocco e la tiro a me, per ricoprirle di baci la fronte, tra quegli occhietti vispi e spiritati.
Allunga le labbra per baciarmi ed io le prendo tra le punte, le apro la bocca sollevandole il labbro superiore e mi avvicino per infilarci la lingua.
Solo un bacetto, perchè ora la superficie liscia delle 'hashi' tormenta il suo seno.
Il capezzolo tra le pinzette, ora è lei che alterna piacere a sottile dolore.
Non sa ancora cosa può fare una giapponese con un paio di bacchette.
Una orientale scatenata ed appassionata.
Le tiro il capezzolo con le punte. Lo lascio andare.
La pelle si ritrae, ma io lo riprendo e non mi scappa.
Tiro e tiro ancora, la tetta si distende, l'apice si allunga con un'elasticità sorprendente.
Gli occhi miei e dell'africana magnetizzati sull'appendice nera tirata dalle eleganti bacchette vestite da sera.
Con le punte smusse punzecchio il grosso seno della mia vittima, affondo nel tessuto cedevole.
Le pinzetto la pelle, minute scintille di dolore lenite dalla mia lingua che rincorre e sana i piccoli tormenti.
Poi l'accarezzo sul capezzolo, con la punta smussa dei bastoncini.
Piccoli passetti dal seno fino all'ombelico, incedere incerto di gambe affusolate avvolte da stivaloni in pelle nera.
Infilo la bacchetta tra le labbra e, umida di saliva, la avvito nell'ombelico della pantera.
Disegno circuiti di piacere sulla sua pelle, la spirale si allarga fino ai confini di Venere.
Le bacchette bagnate di saliva attratte dalla vulva nera.
Punteggiatura di precisione, i bastoncini a svelare il clitoride.
La piccola perla lucente si abbandona al tocco laccato.
L'accarezzo, la perla nera, la sfioro con una punta liscia.
Solo un intervallo con la lingua e di nuovo le bacchette giocano con gli epicentri dell'estasi.
Dilatano le pieghe, ci scorrono, si affondano.
Percorsi sinuosi convergono nel profondo, sfiorando, col dorso del bambu l'insondabile abisso.
Le bacchette si celano nel ventre, si muovono, riemergono filanti, strappano sussurri di piacere.
Poi scivolano nella piega del sedere a sondare altre cavità.
“Musetto giallo, tu me fais mourir!”
Il ventre si scuote in piccoli spasimi ed io mi scosto dalla donna di picche per scivolarle accanto.
Con le bacchette ne sondo le profondità e con la lingua indovino la sua gola.
Jadine riprende il cucchiaio e senza mezzi termini me lo infila nella figa.
Mi frulla dentro, mi sbatte il liquido come una chiara d'uovo, lo monta a neve per farci le meringhe.
Sciacquettio d'argento nei genitali di una donna orientale.
Il freddo metallo mi tocca l'utero, mi scivola sulle pareti vaginali, il manico mi sporge tra le labbra.
Un niagara sgorga dal mio ventre, macchia la tela venuta dal Sahara.
Il cucchiaino dentro di me e le 'hashi' lucide di vernice dentro di lei.
Il movimento delle posate ripete quello delle nostre lingue che lente si inseguono sui bracci di una galassia a spirale.
I gemiti si spengono tra le labbra, mentre respiriamo la nostra aria e ci scambiamo la saliva.
Jadine mi stringe il capo sulla sua bocca ed io le graffio la schiena. Le unghie affondano nella sua pelle e le sue dita fra i miei capelli.
Il cucchiaino mi centrifuga di piacere e le bacchette scompaiono nella foresta equatoriale.
Rimaniamo sospese nell'etere affogando le urla una nella bocca dell'altra.
Panna e cioccolato.
Posate vestite da sposa e bacchette in abito da sera.
L'argento ha riflessi molto diversi dall'acciaio. Son più caldi, morbidi, accoglienti.
Difficile immaginare che un coltello d'argento o di alpacca sia veramente tagliente, che possa ferire. Nella mia fantasia l'argento e l'alpacca sono soffici, lisci e setosi.
Come le bacchette di legno laccate, le hashi giapponesi. Uniformi e morbide, brillanti e sensuali come le gambe di una donna con autoreggenti blu scure o nere.
Il cibo scivola un poco, rispetto al legno grezzo.
Più adeguate ad accarezzare il corpo di una donna, con quelle loro decorazioni floreali.
Come le posate d'argento.
Il corpo di Jadine è nudo sotto i miei occhi. Il seno, abbondante e prosperoso, si appoggia mollemente sul torace della ragazza abbandonata sul divano, ricoperto di tessuti dai vivaci colori.
Come un fiume stanco che si abbandona alla foce, per entrare maestosamente nel mare.
I capezzoli neri, più scuri dei miei. Il ventre lievemente globoso scollina verso le pieghe inguinali e si consegna al suo pube glabro, verso la vulva scura e gonfia.
Un corpo ubertoso, che suggerisce l'accoppiamento e la riproduzione. Un corpo sensuale e misterioso, capace di attirare l'attenzione dell'uomo ed il desiderio delle donne.
La sua pelle nera brilla di fantasie del colore del rame, un contrasto formidabile con i riflessi dell'argento.
Il nobile metallo dona una sfumatura di avorio alla distesa di morbido cioccolato di Jadine.
La panna che infiocchetta un caldo gianduiotto proveniente dal Senegal apposta per me.
Con un cucchiaio sollevo il seno della giovane mentre lei mi osserva con desiderio.
Lo innalzo e lo lascio scivolare.
L'aria è carica di tensione erotica.
Il seno di ebano servito su un cucchiaio d'argento.
Il seno che deborda dal metallo, che lo riempie e quasi lo avvolge.
Il riflesso dell'argento illumina la pelle color testa di moro.
Il capezzolo si gonfia quando lo accarezzo col coltello del pesce.
Il coltello normale è tagliente, mentre questo bizzarro strumento, questa specie di spatolina usata sì e no una volta ogni due anni, dai profili morbidi ed arrotondati, mi sembra estremamente appropriato per questo corpo dalle linee tonde e piene.
L'africana mi guarda e scoppia a ridere. Quella risata sguaiata tipica delle donne nate e cresciute nel sahel, quei denti bianchissimi che risaltano sulla pelle cotta dal sole.
“Maintenant c'est a moi!”
Vuole giocare anche lei col mio corpo.
La adoro quando fa così, quando i suoi desideri, i suoi giochi le brillano negli occhi ancora prima di essere concretizzati in parole.
Mi accomodo io sul divano, mentre con un cucchiaino da caffè, quei micronici cucchiaini della Barby, mi prende un capezzolo.
Lo accarezza con il lato concavo, ne percorre la superficie mentre il frutto si dilata e l'areola si contrae.
Cucchiaini così piccoli che l'intero capezzolo, gonfio ed eccitato, quasi ne deborda.
Lo prende e lo solleva con il piccolo monile d'argento.
Se lo porta alla bocca e lo sfiora con la punta della lingua.
Una linguetta rosso vivo tra quelle grosse labbra mogano.
Umida e calda.
Un piccolo fiammeggiante lampo di energia nel mare di cioccolato fondente.
Col cucchiaino mi percorre il perimetro dell'areola, accarezzando ciascuna delle piccole emergenze che si sollevano sulla superficie, come piccoli satelliti del monarca che svetta grosso e soffice, un lampone scuro e maturo.
Ogni posata ha la medesima superficie liscia, ma l'argento sembra più liscio e caldo.
Il tocco freddo mi eccita, eppure i riflessi evocano calore ed il contorno sembra quasi vellutato.
La spatolina del pesce nelle mani incerte di Jadine, scivola sulla mia pelle ora.
Naviga come un piccolo yacht nel mare del Giappone, fra le isole che ne emergono ed i monti che svettano.
Così liscia, così fresca sulla pelle.
Poi è la forchetta degli antipasti che fa scempio di sensazioni.
La senegalese ha subito imparato, poi è solo la ricerca perversa di un piacere insolito, che deve uscire dalle convenzioni.
Mi punge la punta del naso, poi le labbra, appena appena, delicata.
Ma la peste nera prosegue sul mio collo. I rebbi mi grattano la pelle, piccoli graffi dal mento lungo la curvatura del seno.
I dentini raggiungono l'areola ed avvolgono la tumescenza che ne emerge. Ci girano intorno.
La forchettina alla guida di quattro piccoli destrieri che girano intorno al mio capezzolo, scivolano dal mio seno e raggiungono l'altro. Un percorso “ad otto” intorno ai santuari del piacere. Una quadriga che, guidata dalle mani scrupolose di Ben Hur, evoca sensazioni di piacere condito da una sfumatura tenuemente dolorosa. I rebbi accarezzano il capezzolo, microscopiche unghie tra le porosità della mia pelle; scavano nelle profondità del mio cervello in cerca di rubini di estasi.
Le unghiette contornano il mio petto, le tette sollevate sulla punta dei quattro artigli argentati.
Jadine è una strega.
Mi punge leggermente sulla rotondità delle tette e giocherella col mio ombelico.
L'addome si contrae quando la fattucchiera del Sahara alterna la puntura soffice alla carezza fredda del dorso della forchettina.
Gli attrezzi del diavolo, fusi nella fornace in argento e sangue di giovane giapponese.
Con curiosità, gli occhioni bianchi della senegalese scrutano nel servizio di posate d'argento.
I riflessi luminosi si muovono sul suo volto scuro, come meteore in un cielo senza luna, ma ora tocca a me.
“Jadine, sul divano!”
Le posate d'argento ora aspetteranno, sazie del mio corpo e della mia pelle, gravide del mio piacere.
Jadine, seduta, nuda, le cosce aperte, le braccia larghe sulla spalliera, le ascelle lisce e lucide.
Una giapponese a cavalcioni, appoggiata sulle sue cosce, le mie chiappotte soffici sulle sue ginocchia.
Asia ed Africa.
Il continente nero ed il continente giallo.
Occhi a mandorla e pelle ebano.
Le bacchette fra le mie dita frenetiche. Le hashi. Tichettio di bambu ricoperto di lacca nera.
Le punte si toccano impazienti come voraci mandibole di un cervo volante, vogliono la soffice carne di una senegalese.
Abilità e precisione.
La poveretta ritrae il musetto, ma le punte delle bacchette le raggiungono la sommità del naso.
Il nasino tozzo e largo scappa e scivola, ma io le pinzo una narice, la blocco e la tiro a me, per ricoprirle di baci la fronte, tra quegli occhietti vispi e spiritati.
Allunga le labbra per baciarmi ed io le prendo tra le punte, le apro la bocca sollevandole il labbro superiore e mi avvicino per infilarci la lingua.
Solo un bacetto, perchè ora la superficie liscia delle 'hashi' tormenta il suo seno.
Il capezzolo tra le pinzette, ora è lei che alterna piacere a sottile dolore.
Non sa ancora cosa può fare una giapponese con un paio di bacchette.
Una orientale scatenata ed appassionata.
Le tiro il capezzolo con le punte. Lo lascio andare.
La pelle si ritrae, ma io lo riprendo e non mi scappa.
Tiro e tiro ancora, la tetta si distende, l'apice si allunga con un'elasticità sorprendente.
Gli occhi miei e dell'africana magnetizzati sull'appendice nera tirata dalle eleganti bacchette vestite da sera.
Con le punte smusse punzecchio il grosso seno della mia vittima, affondo nel tessuto cedevole.
Le pinzetto la pelle, minute scintille di dolore lenite dalla mia lingua che rincorre e sana i piccoli tormenti.
Poi l'accarezzo sul capezzolo, con la punta smussa dei bastoncini.
Piccoli passetti dal seno fino all'ombelico, incedere incerto di gambe affusolate avvolte da stivaloni in pelle nera.
Infilo la bacchetta tra le labbra e, umida di saliva, la avvito nell'ombelico della pantera.
Disegno circuiti di piacere sulla sua pelle, la spirale si allarga fino ai confini di Venere.
Le bacchette bagnate di saliva attratte dalla vulva nera.
Punteggiatura di precisione, i bastoncini a svelare il clitoride.
La piccola perla lucente si abbandona al tocco laccato.
L'accarezzo, la perla nera, la sfioro con una punta liscia.
Solo un intervallo con la lingua e di nuovo le bacchette giocano con gli epicentri dell'estasi.
Dilatano le pieghe, ci scorrono, si affondano.
Percorsi sinuosi convergono nel profondo, sfiorando, col dorso del bambu l'insondabile abisso.
Le bacchette si celano nel ventre, si muovono, riemergono filanti, strappano sussurri di piacere.
Poi scivolano nella piega del sedere a sondare altre cavità.
“Musetto giallo, tu me fais mourir!”
Il ventre si scuote in piccoli spasimi ed io mi scosto dalla donna di picche per scivolarle accanto.
Con le bacchette ne sondo le profondità e con la lingua indovino la sua gola.
Jadine riprende il cucchiaio e senza mezzi termini me lo infila nella figa.
Mi frulla dentro, mi sbatte il liquido come una chiara d'uovo, lo monta a neve per farci le meringhe.
Sciacquettio d'argento nei genitali di una donna orientale.
Il freddo metallo mi tocca l'utero, mi scivola sulle pareti vaginali, il manico mi sporge tra le labbra.
Un niagara sgorga dal mio ventre, macchia la tela venuta dal Sahara.
Il cucchiaino dentro di me e le 'hashi' lucide di vernice dentro di lei.
Il movimento delle posate ripete quello delle nostre lingue che lente si inseguono sui bracci di una galassia a spirale.
I gemiti si spengono tra le labbra, mentre respiriamo la nostra aria e ci scambiamo la saliva.
Jadine mi stringe il capo sulla sua bocca ed io le graffio la schiena. Le unghie affondano nella sua pelle e le sue dita fra i miei capelli.
Il cucchiaino mi centrifuga di piacere e le bacchette scompaiono nella foresta equatoriale.
Rimaniamo sospese nell'etere affogando le urla una nella bocca dell'altra.
Panna e cioccolato.
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