Francis Turner – Spoon River
di
Yuko
genere
sentimentali
Giaccio qui, anima tra le anime sollevate dal vento.
Ora non ho più la mancanza di fiato.
Ora posso muovermi e librarmi, correre con le foglie in autunno o inseguire i profumi a primavera.
Rotolarmi su un prato, saltare, urlare alla Luna, senza che il batticuore mi spezzi il respiro.
Sono come tutti gli spiriti che ancora indugiano nelle lande, tra i boschi e i ruscelli, perchè sulla terra hanno perduto qualcosa. Vagano indecisi sperando che gli venga riempita la coppa che un tempo rimase mezza vuota, o solo inumidita dai sapori del vino.
Il mio vino si chiama Mary.
Nel giardino di acacie e di catalpe, tra i filari delle viti, fui accompagnato per mano da una ragazza.
Non avevo mai avuto relazioni amorose, la mia malattia di cuore mi teneva lontano dalle persone, schivo dalle relazioni.
Non ho mai potuto giocare o correre, ma solo guardare in disparte. Appena facevo due passi di corsa il cuore batteva come un treno impazzito ed il respiro mi spegneva ogni ardore.
Il cuore malato, le valvole distrutte dagli esiti della scarlattina.
La malattia mi ha inchiodato ai ceppi di partenza, da dove migliaia di volte ho visto partire corse che per me si sono spente dopo pochi metri, piegato in due a cercare un respiro che sembrava avermi abbandonato per sempre.
Tenuto lontano dai giochi di amici e dalle emozioni con le ragazze.
Non avrei mai potuto rivolgere la parola a Mary, se prima non l'avesse fatto lei.
La guardavo di soppiatto, abbassando la vista sui libri, in classe, appena il suo sguardo si intrecciava col mio.
Già così era troppo.
Il cuore accelerava ed ecco, il rantolo mi soffocava, il liquido mi saliva ai polmoni ed il dolore allo sterno mi straziava il torace.
Mi sorrise, Mary, quel pomeriggio di giugno.
Tacqui mentre mi sfiorava le dita.
Il cuore scoppiava nelle tempie quando mi condusse all'ombra delle acacie.
“Non dire nulla, Francis, non preoccuparti di nulla!” sussurrò mentre il sole brillava tra i suoi boccoli d'oro.
“Mary, io... io...”
“Sssst, non devi fare nulla.”
Si tolse il cappello di paglia e si inginocchiò di fronte a me, sull'erba fresca.
Il respiro divenne veloce quando, bottone dopo bottone, la sua pelle chiara emerse dalla camicetta di cotone che si stava slacciando.
Quando la gonna le scivolò sulle cosce mi prese la stretta dietro al petto, serrandomi la gola.
Mi aiutò a sfilarmi la camicia sul mio petto gracile.
Piegata su di me, quel suo seno pallido, quei capezzoli tiepidi come petali di rosa sotto i miei occhi umidi di emozioni, mi slacciava la cintura dei calzoni.
Nelle orecchie la melodia della sua voce sfidava il battito accelerato che mi saliva dal petto ed il respiro goffo e rauco che mi bloccava ogni risposta.
Si sfilò le mutandine mostrando un cespuglio di peli biondi come il grano, tra le cosce color della luna.
“Mary... io non...”
“Non dire nulla, lascia fare a me.”
Il sussurro della giovane, come un delicato alito di vento; le sue dita naufragavano tra i miei capelli.
Si chinò ancora, sfilandomi gli ultimi indumenti mentre l'anima mi risaliva sulle labbra.
E quando si sedette su di me l'emozione fu tanta che il cuore impazzito, dopo l'ultima stretta in gola, con un gemito ed un gorgoglìo, mi liberò l'anima dalle labbra.
Ora mi muovo come un velato profumo sulla collina. Libero nel vento conservo il segreto di quel pomeriggio con Mary.
Ma adesso che posso bere alla coppa d'un fiato, non ho nessuno a riempirla di nettare.
[cfr. Edgar Lee Master – L'antologia di Spoon River, e la canzone: 'un malato di cuore' di Fabrizio de Andrè da cui è tratta]
Ora non ho più la mancanza di fiato.
Ora posso muovermi e librarmi, correre con le foglie in autunno o inseguire i profumi a primavera.
Rotolarmi su un prato, saltare, urlare alla Luna, senza che il batticuore mi spezzi il respiro.
Sono come tutti gli spiriti che ancora indugiano nelle lande, tra i boschi e i ruscelli, perchè sulla terra hanno perduto qualcosa. Vagano indecisi sperando che gli venga riempita la coppa che un tempo rimase mezza vuota, o solo inumidita dai sapori del vino.
Il mio vino si chiama Mary.
Nel giardino di acacie e di catalpe, tra i filari delle viti, fui accompagnato per mano da una ragazza.
Non avevo mai avuto relazioni amorose, la mia malattia di cuore mi teneva lontano dalle persone, schivo dalle relazioni.
Non ho mai potuto giocare o correre, ma solo guardare in disparte. Appena facevo due passi di corsa il cuore batteva come un treno impazzito ed il respiro mi spegneva ogni ardore.
Il cuore malato, le valvole distrutte dagli esiti della scarlattina.
La malattia mi ha inchiodato ai ceppi di partenza, da dove migliaia di volte ho visto partire corse che per me si sono spente dopo pochi metri, piegato in due a cercare un respiro che sembrava avermi abbandonato per sempre.
Tenuto lontano dai giochi di amici e dalle emozioni con le ragazze.
Non avrei mai potuto rivolgere la parola a Mary, se prima non l'avesse fatto lei.
La guardavo di soppiatto, abbassando la vista sui libri, in classe, appena il suo sguardo si intrecciava col mio.
Già così era troppo.
Il cuore accelerava ed ecco, il rantolo mi soffocava, il liquido mi saliva ai polmoni ed il dolore allo sterno mi straziava il torace.
Mi sorrise, Mary, quel pomeriggio di giugno.
Tacqui mentre mi sfiorava le dita.
Il cuore scoppiava nelle tempie quando mi condusse all'ombra delle acacie.
“Non dire nulla, Francis, non preoccuparti di nulla!” sussurrò mentre il sole brillava tra i suoi boccoli d'oro.
“Mary, io... io...”
“Sssst, non devi fare nulla.”
Si tolse il cappello di paglia e si inginocchiò di fronte a me, sull'erba fresca.
Il respiro divenne veloce quando, bottone dopo bottone, la sua pelle chiara emerse dalla camicetta di cotone che si stava slacciando.
Quando la gonna le scivolò sulle cosce mi prese la stretta dietro al petto, serrandomi la gola.
Mi aiutò a sfilarmi la camicia sul mio petto gracile.
Piegata su di me, quel suo seno pallido, quei capezzoli tiepidi come petali di rosa sotto i miei occhi umidi di emozioni, mi slacciava la cintura dei calzoni.
Nelle orecchie la melodia della sua voce sfidava il battito accelerato che mi saliva dal petto ed il respiro goffo e rauco che mi bloccava ogni risposta.
Si sfilò le mutandine mostrando un cespuglio di peli biondi come il grano, tra le cosce color della luna.
“Mary... io non...”
“Non dire nulla, lascia fare a me.”
Il sussurro della giovane, come un delicato alito di vento; le sue dita naufragavano tra i miei capelli.
Si chinò ancora, sfilandomi gli ultimi indumenti mentre l'anima mi risaliva sulle labbra.
E quando si sedette su di me l'emozione fu tanta che il cuore impazzito, dopo l'ultima stretta in gola, con un gemito ed un gorgoglìo, mi liberò l'anima dalle labbra.
Ora mi muovo come un velato profumo sulla collina. Libero nel vento conservo il segreto di quel pomeriggio con Mary.
Ma adesso che posso bere alla coppa d'un fiato, non ho nessuno a riempirla di nettare.
[cfr. Edgar Lee Master – L'antologia di Spoon River, e la canzone: 'un malato di cuore' di Fabrizio de Andrè da cui è tratta]
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