Ragazza immagine - 2 - No, non scopo
di
Browserfast
genere
etero
La brunetta che ci porta da bere è appena carina, un po' scialba, alta forse più di me. Si chiama Dana, ho sentito Arma che la reclamava al telefono. Resta con noi cinque secondi, giusto il tempo di posare il vassoio e lanciarmi un'occhiata del cazzo. Sicuramente slava. Bielorussa, ucraina o che cavolo ne so io.
"E' polacca - mi dice Arma - grande lavoratrice". Non ne dubito ma, sai com'è, i polacchi mi stanno sul cazzo. Il sorrisino e lo sguardo di Arma sono una domanda. Mi appoggio con il bicchiere in mano alla scrivania e gli sorrido. "E' una cosa di quando andavo a scuola - spiego - una vacanza studio a Cambridge ". Commenta ironico che "Cambridge è notoriamente piena di polacchi". Gli rispondo che me ne sono bastati due, una che mi fregò un ragazzo che mi piaceva, polacco anche lui, appunto. Arma ride e mi fa "un po' poco per farsi stare sul cazzo un popolo". Alzo le spalle, per me il motivo basta e avanza. Chiede come me l'abbia fregato e io rispondo "concorrenza sleale, gliela dava". Ride e domanda "non potevi dargliela anche tu?". "No, allora no".
Sogghigna, fa un'espressione tipo "e allora che cazzo pretendi?". Se ne sta seduto con le mani appoggiate su entrambi i braccioli della poltrona Chesterfield. E’ tarocca, nel senso che non è cuoio vero, ma è anche è l'unica cosa carina di questo ambiente che con un po' di presunzione si può chiamare ufficio. La scrivania sulla quale sono appoggiata è tanto se è stata presa all'Ikea. L'unica sedia per gli ospiti deve essere stata sottratta al locale, persino la sua poltrona da lavoro appare scalcagnata. Le pareti sono nude, fatta salva una vecchia locandina di una serata nel locale, debitamente incorniciata, con il nome di un dj mai sentito prima. Ma del resto, me ne ero resa conto sabato, la musica sulla quale la gente viene qui a ballare non è la mia. La conosco tutta o quasi, eh? Sembrano le playlist di mio padre.
- Com'è il negroni? - domanda.
- Ottimo, davvero! - rispondo esagerando un po'.
- Hai pensato alla mia proposta?
Si tratta di lavoro: fare la ragazza-immagine nel suo locale. O la hostess, come volete voi. Specchietto per le allodole per gli avventori che vogliono passare del tempo con te, ballare con te, provarci con te. Volendo, si può arrotondare. Potete capire come. A lui non gliene frega un cazzo, basta che si faccia con discrezione. Su tutto questo è stato molto chiaro.
- No, non ho ancora deciso - gli dico - ma tendenzialmente non sono molto interessata.
- Va bene regazzì, pensaci quanto ti pare - mi fa Arma - ma allora perché sei qui? Davvero per la scrivania?
Io proprio non me lo ricordo ma, secondo quanto mi ha detto lui, sabato scorso dopo averglielo succhiato gli avrei chiesto di scoparmi proprio su questa scrivania, sul cui bordo adesso sto appoggiando il sedere. Glielo avrei detto prima di svenirgli tra le braccia. Non lo escludo. Ero così strafatta da avere persino pochi flash di quel pompino, figuriamoci del resto.
- Non mi ricordo proprio di averti detto quella cosa, sai?
- Te lo giuro, lo hai detto, ma non è così importante - dice Arma - te ne capitano spesso di serate così?
- Può succedere - rispondo posando il bicchiere sulla scrivania - ma in genere me lo ricordo ahahahahah... e a te capitano spesso clienti così?
Avanzo verso di lui. Per osservarlo meglio, più che altro. E' vero, sono stata io a fargli capire che mi sarebbe piaciuto riprendere il discorso interrotto dal mio mancamento. Ma questo accadeva domenica scorsa. Lui mi aveva detto "passa martedì sera" e, in effetti, sono qui. Ma intanto io, progressivamente, ci ho ripensato. Sono venuta qui dicendomi che ci saremmo limitati a parlare di lavoro e basta. La sua offerta un po' mi alletta, anche se gli dico il contrario. Più per l'esperienza in sé che per i soldi, che comunque schifo non mi fanno.
Adesso che me lo trovo davanti, però, quello che è successo l'altra sera me lo spiego meglio. E' un uomo attraente, si tiene molto bene, inappuntabile nel suo completo blu. Ha una certa nonchalance nei modi che risalta anche di più a vederlo stravaccato su quella poltrona. Ma c'è altro che mi attira. Lavoro a parte, sembra che della sottoscritta non gliene freghi un cazzo - come di qualsiasi altra cosa al mondo, tenderei a dire - e come al solito questo un po' mi indispettisce e un po' mi attrae.
E se proprio devo essere sincera, un po’ mi intimorisce e un po’ mi arrapa. Nonostante ci sia andata a tanto così, se lui non mente, probabilmente non ci scoperei davvero. Tuttavia, anche se faccio la spigliata, davanti a lui mi sento un po’ in un angolo.
- Qualche cliente come te è capitata, sì - sorride - non così giovani però e, se permetti, nemmeno così carine. Per tornare al nostro discorso, chiaramente, se decidi di accettare l'offerta, il tuo outfit dovrebbe essere più simile a quello dell'altra sera che a questo.
Sorrido anche io come a dire "sì, lo immagino". Mi sono vestita apposta così, con dei jeggings neri strappati sopra il ginocchio ed una felpa con cappuccio, nera anche quella.
- C'è una divisa? - domando.
- No, nessuna divisa, però... - risponde lasciando in sospeso la frase. Come a dire che così non va bene. Grazie tante, lo sapevo pure io.
Mi volto e torno verso la scrivania. Do un altro sorsetto. Mossa studiata, così da consentirgli di notare come questi pantaloni che sembrano una seconda pelle mi disegnino il culo. Sono indecisa sul che fare e vorrei che l'iniziativa la prendesse lui. Potrei assecondarlo. O anche rifiutarlo. Al momento non saprei proprio.
- Veniamo al secondo punto all'ordine del giorno? - chiede cambiando completamente discorso.
- Ovvero? - gli faccio come una scema. Sono rimasta alle nostre chiacchiere sul lavoro.
- Ovvero... - e indica la scrivania.
- Ahahahah... ma tu non eri quello sposato?
- Mi era sembrato di capire che ‘n te fregasse un cazzo, e poi...
- E poi? - domando. Soprattutto per la curiosità di vedere come cerca di aggiustarmela.
- E poi stavamo facendo una partita, regazzì, ma c'era ancora il secondo tempo, no? Non è mica colpa mia se sei svenuta - dice guardandomi dritto negli occhi.
I convenevoli sono terminati, più esplicito di così non poteva essere. Piuttosto, sono io a essere indecisa. Sempre io, però, non riesco a sganciarmi dal suo sguardo.
- E tu sei proprio sicuro che puoi permetterti un secondo tempo? - gli domando avanzando un po' verso di lui.
Gliel'ho detto con tutta la sfacciataggine di cui sono capace. Con arroganza, quasi. Tocca a lui insistere. Io sono pronta ad andarmene, però se ci sa fare sono anche pronta a cambiare idea.
- Ci posso provare, chi lo sa - mi risponde quasi disinteressato - tu invece devi essere una che per il secondo tempo è sempre pronta...
- Dici, eh? - faccio per prendere appunto un po' di tempo.
Questo suo modo di dirmi che come me ne ha viste tante, e che per lui una in più o una in meno non fa alcuna differenza, mi destabilizza. Tanto mi corteggia per indurmi ad accettare la sua offerta di lavoro, tanto ostenta indifferenza a tutto il resto e mostra di considerarmi solo una zoccoletta cui al massimo dare una ripassata. Ma anche no. E se è no, sticazzi. "Ogni lasciata è persa" non deve proprio essere il suo motto.
Si dà un paio di colpetti sulla gamba, come se chiamasse un cane. Vado da lui, eseguo senza quasi rendermene conto. Gli salgo praticamente con le ginocchia sopra le cosce e mi offro al bacio. Mi offro anche alle sue mani che si intrufolano. Sotto la felpa ho solo un top, elude anche quello e si impossessa delle mie meline. Il mio corpo reagisce immediatamente. Lui le stringe e mormora "nel caso dovessi accettare il lavoro, suggerirei un push up". Gli sussurro uno "stronzo" sorridente. Lui mi torce un capezzolo. Non tanto forte. Anzi mi sarebbe piaciuto che l'avesse fatto un po' più forte.
- Me lo stai facendo diventare duro, biondina...
Ragazzina, biondina, piccoletta. Annalisa mai.
- Ma il mio nome te lo ricordi? - chiedo con un po' di affanno per il trattamento che sta riservando alle mie tette.
- Certo, Annamaria... - risponde.
- Quasi... - sussurro.
- Appunto - dice come se anche di sapere il mio nome non gliene freghi assolutamente un cazzo.
Del resto per lui sono un giocattolo, che bisogno c'è del nome? Pompinara, forse fica da riempire, possibilmente ragazza da far lavorare. Per lui sono questo e poco altro, anzi niente altro. Dio quanto è strafottente. E’ proprio la sua strafottenza che mi sta facendo bagnare in modo osceno.
- Vediamo se questa volta te lo ricorderai... - mi fa cercando di spingermi giù tra le sue gambe.
Resisto, devo rispondere che non voglio. Purtroppo, e per puro istinto, gli metto scandalosamente la mano sul pacco. Ha ragione, lo sento, è duro. Lo è per me. Impazzisco.
- Quello di sabato non lo ricordi? - gli chiedo.
- Fammi un ripasso - risponde mettendomi una mano in testa.
Stavolta la sua pressione si fa più decisa, anche se gli piagnucolo "non voglio, non mi va". In ginocchio tra le sue gambe praticamente ci cado. "A una come te va sempre". Se lo tira fuori dai suoi pantaloni morbidi mentre, contraddicendo tutto quello che dico, mi sistemo i capelli dietro le orecchie.
Come abbia fatto a non fissare nella mia mente questo odore di uomo, questo sapore, è un mistero. Ce l’ha grosso, meno di quanto ricordassi ma è grosso. La cappella in particolare mi sembra enorme, probabilmente perché è circonciso.
- Non voglio...
- Succhia regazzì... apri la bocca - dice spingendomi la testa verso di lui.
- No, ti prego...
- Succhia...
Me lo infila, perché la bocca l'ho lasciata aperta. All'inizio deve forzarmi un po', ma poi mi lascio andare. Mi applico come meglio posso e stavolta è lui che impazzisce. “Non dimenticarti i coglioni…”. Certo, come no, ti pare che li dimentico? "Ammazza che succhiacazzi...".
- Il pompino me l’hai già fatto – esclama però ad un tratto, quasi con rabbia – sei qui per scopare, no?
Smette di spingermi su e giù per la nuca, quasi mi allontana. Per un po’ annaspo, mi gira la testa per il poco ossigeno e per la brutalità del trattamento.
Non voglio scopare. Non perché sarebbe disdicevole o perché ha più del doppio dei miei anni, figuriamoci. Non voglio, non riesco a definirlo nemmeno con me stessa, il perché. Ma non voglio. Tutto qua.
- No, fammi finire… - ansimo con la bava che mi cola dal mento giù sui suoi calzoni – fammi finire, non ti piace?
Di nuovo giù, bruscamente, a bocca piena e polmoni vuoti. A rantolare e gorgogliare, combattere con i conati, lanciare suoni inarticolati e soffocati quando mi arriva in gola. Con tutta la mia voglia che cola nelle mutandine e tutta la sua voglia costipata dentro il suo grosso cazzo. Una scopata alla testa ai limiti dell’ingestibile, come non ne subivo da tempo. Me la godo, la trovo giusta. Quando esplode con uno sbuffo e i suoi getti mi inondano faccio ogni sforzo possibile per non perdermi nulla e non sporcargli i pantaloni. Rialzo lo sguardo con un sorriso. "Anche l'altra volta ne hai fatta tanta", gli dico per gratificarlo. In realtà non me lo ricordo proprio.
- Adesso ti tocca aspettare un po’ – mi fa ironico – ma se ti impegni magari ci metto poco…
- No, davvero, non voglio scopare… - mormoro.
- Togliti quella roba – dice indicando i miei abiti.
Se gli avessi detto che sono appena planata da Marte mi avrebbe dato retta di più. Però è la verità, non voglio scopare. Anche se fatico a crederci io stessa. Sono straeccitata ma è la verità.
Eppure obbedisco. Penso una cosa e ne faccio un'altra, eseguo il suo comando. Smonto dalle Stan Smith, sfilo i jeggings, poi le mutandine. Rimango con felpa e calzini indosso.
- E il resto? - mi fa accennando alla parte superiore.
- Ho freddo - rispondo - poi non mi sembri apprezzare molto, no?
Ok, faccio la spiritosa e lui ride. Però avrei preferito un complimento, anche di circostanza, sulle mie tette.
- Ce l’avete tutte depilata, eh? – ridacchia guardandomi. “Tu e tutte le puttanelle come te”, intendeva dire, è chiaro. Le sue parole mi danno un brivido che è a momenti maggiore di quello che mi dà il suo dito che mi passa tra le gambe. Ci passa e basta, non entra, ma quasi mi vergogno di come scivola.
- Ti prego fermati... - gli dico anche se mi piace da matti, ma cerco di mantenere un barlume di lucidità.
- Devi essere una di quelle ninfomani che prima dicono "no" e poi dicono "non smettere", vero? - risponde - non ho i preservativi ma vedrai che ci sto attento...
- No... per piacere - non riesco a dire altro, come se la mia mente fosse già troppo impegnata a combattere con il mio corpo per combattere anche con lui. Ho voglia di altro, che non è quello che faccio io a lui ma quello che lui fa a me.
- Sei bagnata come una zoccola - commenta ignorandomi - ma tanto tu un po' zoccola lo sei, vero? Un po' tanto...
- Tu cosa pensi? - chiedo come un'idiota.
- A regazzì, c’è bisogno di pensare? Qui dentro una come te diventa milionaria… - dice sardonico mentre mi fa indietreggiare verso la sua scrivania.
Nella mia testa traduco “una troia come te”. Ogni volta che parla, ormai, mi dà esplicitamente o implicitamente della mignotta. Probabilmente è solo troppo arrapato per non diventare volgare e sprezzante, ma è come se sapesse perfettamente quanto, in questi momenti, volgarità e disprezzo mi facciano andare fuori di testa.
Un secondo dopo mi ritrovo al punto di partenza, dove ero qualche minuto fa. Appoggiata al bordo della scrivania con il sedere, stavolta senza pantaloni né mutandine e la sua mano tra le gambe, padrona di me.
- Dimmelo, "sono una troia" - ordina.
- Sì, sono una troia - sospiro.
- E perché non vuoi venire a fare la troia qui? - mi chiede.
Beh, la risposta sarebbe facile. Faccio la troia quando mi va e con chi mi va, non per lavoro. L'ho fatta con te perché mi fai spegnere il cervello. Sarebbe facile dirlo in un altro momento e a chiunque altro, non a lui.
- Sì, va bene, ci vengo... - sospiro ancora.
Sull'ultimo sospiro mi infilza, con un dito. Perquisizione intima. Scatto, strizzo gli occhi, mi aggrappo al bordo della scrivania e mi mordo il labbro. Cosa volete che pensi lui quando allargo anche un po' le gambe?
- Mi fa piacere - dice tranquillo - adesso fammi vedere quanto fa piacere a te...
Mi infilza con un secondo dito. Stavolta mordermi il labbro non serve, strillo "no!". Dice "e stazzitta" e inizia a scoparmi con le dita. Io ci provo, a stare zitta, ma e la cosa più difficile del mondo. Mi aggrappo alle sue spalle gemendo e ripetendo "no".
Si libera facilmente dalla mia stretta e si libera anche della giacca, che scivola a terra. Si è tirato su i pantaloni ma il suo uccello quasi disarmato spunta lo stesso dalla zip. E’ un’immagine assurda, però non riesco a distogliere lo sguardo.
- Qui c'è una ragazzina che ha fame, vero?
Che pensi che abbia voglia di essere castigata lo capirei, magari in un altro momento. Ma la verità è che di voglia me ne è salita un'altra, fortissima e indefinita, di quelle che quando arrivano mi spaventano e poi prendono il sopravvento su tutto. E il suo cazzo c'entra poco. C'entrano molto di più le sue parole, i suoi toni, i suoi modi. E c’entra la mia rabbia verso me stessa.
Sì, ce l’ho con me. Perché mi sono lasciata mettere sotto da questo qui. Perché mi piace farmi mettere sotto da questo qui. Perché non ho saputo resistere e gliel’ho succhiato di nuovo, perché essere usata in quel modo mi è piaciuto. Perché non mi va di essere scopata ma al tempo stesso voglio che mi faccia qualcosa. Perché non so nemmeno io cosa voglio.
Però capisco tutto quando mi mette una mano sulle tette e mi spinge giù quasi con arroganza. E' proprio uno di quegli attimi rallentati, frame by frame, in cui tutto si fa più chiaro.
Vi prego, provate ad astrarvi un attimo e immaginate la scena: io che vado giù sotto la sua spinta. Se volete, dipingetemi in faccia un'espressione di sorpresa, o di paura. I miei capelli biondi svolazzano, il sedere fa fulcro sul bordo, la situazione si rovescia. La parte vestita di me è stesa sul ripiano, le mie gambe nude puntano in su, allargate in quell'attesa che ogni ragazza conosce. In mezzo c'è lui, che si sega il suo giustiziafanciulle a non più di cinque centimetri dall'ingresso nella mia città calda e pulsante. E' qui, in quell'istante in cui mi contraggo istintivamente per assorbire il colpo sulla schiena, che capisco tutto.
Per essere usata, sono stata usata. Adesso mi va di essere addirittura umiliata, anche se non saprei come. Vorrei persino un po' di dolore. Non tanto, ma un po' sì. Ecco quello che voglio. Qualcosa di fisico che esprima la sua supremazia mentale. Non pensate a quelle cazzate tipo "leccami gli stivali", sono ridicole e non fanno parte del mio immaginario. A me basta anche un gesto, o poco più. Qualcosa che mi dica che non sono all'altezza, che non valgo un cazzo, nemmeno la fatica di sbattermi. Come quando poco fa ha ridicolizzato le mie tette e poi mi ha torto i capezzoli.
- Aspetta... aspetta – piagnucolo – non voglio.
La sua espressione ghignante credo che non la dimenticherò facilmente. E’ come se mi volesse dire "ancora sto giochetto?". Una cosa così.
- Io voglio... io voglio essere sculacciata... forte.
- Quante ce n'hai di perversioni, piccolè?
Si blocca, il ghigno si allarga in una specie di sorriso. E' una scena assurda, ma è la nostra scena. Resta ancora per qualche attimo immobile, disfa il nodo della cravatta, se la sfila. Mi tira giù, mi volta mentre piango “insultami, dimmi quanto sono troia”, mi sbatte a novanta, mi lega le braccia dietro la schiena con forza, facendomi male. Un dolore sopportabile, non fine a se stesso, mi piace. Tutto senza dire una parola. Gli unici rumori ora li faccio io, con il mio respiro ingrossato. E colo, colo terribilmente.
Al primo schiaffo imploro "più forte!". Al secondo, strillo. Accontentata. "Te devi sta zitta, però". Alle tre o quattro botte che seguono miagolo "forte, più forte", mentre lui risponde a loop "stazzitta" oppure "stazzitta, troia". Alla fine taccio perché davvero mi fa male e vorrei che smettesse. Ma ormai gli ho consegnato le chiavi e quando è tempo di smettere lo decide lui. Io devo solo resistere mordendomi il labbro a sangue.
- Lo vuoi?
- No.
- Lo vuoi nel culo?
- No!
Schizzi caldi sulle mie natiche in fiamme, l’ultima sberla. Non mi ero accorta che si stava segando. Respiro a bocca aperta. Ci sarebbe stato bene chiedergli di schizzarmela in faccia, peccato. “Ti posso pulire il cazzo?”, “accomodati”, "grazie". "Devo farti conoscere un mio amico", brivido di terrore mentre glielo lavoro con labbra e lingua, non ho nessuna intenzione di conoscere un sadico. "Che bocchinara... tanto ‘ndo scappi".
- Quando devo venire? – gli domando mentre mi rivesto.
- Sabato alle sette e mezza, otto, così parliamo un po’ e ti faccio conoscere le altre ragazze… Ti serve per caso un anticipo? Mi fido.
- No… no, grazie, non mi serve.
CONTINUA
"E' polacca - mi dice Arma - grande lavoratrice". Non ne dubito ma, sai com'è, i polacchi mi stanno sul cazzo. Il sorrisino e lo sguardo di Arma sono una domanda. Mi appoggio con il bicchiere in mano alla scrivania e gli sorrido. "E' una cosa di quando andavo a scuola - spiego - una vacanza studio a Cambridge ". Commenta ironico che "Cambridge è notoriamente piena di polacchi". Gli rispondo che me ne sono bastati due, una che mi fregò un ragazzo che mi piaceva, polacco anche lui, appunto. Arma ride e mi fa "un po' poco per farsi stare sul cazzo un popolo". Alzo le spalle, per me il motivo basta e avanza. Chiede come me l'abbia fregato e io rispondo "concorrenza sleale, gliela dava". Ride e domanda "non potevi dargliela anche tu?". "No, allora no".
Sogghigna, fa un'espressione tipo "e allora che cazzo pretendi?". Se ne sta seduto con le mani appoggiate su entrambi i braccioli della poltrona Chesterfield. E’ tarocca, nel senso che non è cuoio vero, ma è anche è l'unica cosa carina di questo ambiente che con un po' di presunzione si può chiamare ufficio. La scrivania sulla quale sono appoggiata è tanto se è stata presa all'Ikea. L'unica sedia per gli ospiti deve essere stata sottratta al locale, persino la sua poltrona da lavoro appare scalcagnata. Le pareti sono nude, fatta salva una vecchia locandina di una serata nel locale, debitamente incorniciata, con il nome di un dj mai sentito prima. Ma del resto, me ne ero resa conto sabato, la musica sulla quale la gente viene qui a ballare non è la mia. La conosco tutta o quasi, eh? Sembrano le playlist di mio padre.
- Com'è il negroni? - domanda.
- Ottimo, davvero! - rispondo esagerando un po'.
- Hai pensato alla mia proposta?
Si tratta di lavoro: fare la ragazza-immagine nel suo locale. O la hostess, come volete voi. Specchietto per le allodole per gli avventori che vogliono passare del tempo con te, ballare con te, provarci con te. Volendo, si può arrotondare. Potete capire come. A lui non gliene frega un cazzo, basta che si faccia con discrezione. Su tutto questo è stato molto chiaro.
- No, non ho ancora deciso - gli dico - ma tendenzialmente non sono molto interessata.
- Va bene regazzì, pensaci quanto ti pare - mi fa Arma - ma allora perché sei qui? Davvero per la scrivania?
Io proprio non me lo ricordo ma, secondo quanto mi ha detto lui, sabato scorso dopo averglielo succhiato gli avrei chiesto di scoparmi proprio su questa scrivania, sul cui bordo adesso sto appoggiando il sedere. Glielo avrei detto prima di svenirgli tra le braccia. Non lo escludo. Ero così strafatta da avere persino pochi flash di quel pompino, figuriamoci del resto.
- Non mi ricordo proprio di averti detto quella cosa, sai?
- Te lo giuro, lo hai detto, ma non è così importante - dice Arma - te ne capitano spesso di serate così?
- Può succedere - rispondo posando il bicchiere sulla scrivania - ma in genere me lo ricordo ahahahahah... e a te capitano spesso clienti così?
Avanzo verso di lui. Per osservarlo meglio, più che altro. E' vero, sono stata io a fargli capire che mi sarebbe piaciuto riprendere il discorso interrotto dal mio mancamento. Ma questo accadeva domenica scorsa. Lui mi aveva detto "passa martedì sera" e, in effetti, sono qui. Ma intanto io, progressivamente, ci ho ripensato. Sono venuta qui dicendomi che ci saremmo limitati a parlare di lavoro e basta. La sua offerta un po' mi alletta, anche se gli dico il contrario. Più per l'esperienza in sé che per i soldi, che comunque schifo non mi fanno.
Adesso che me lo trovo davanti, però, quello che è successo l'altra sera me lo spiego meglio. E' un uomo attraente, si tiene molto bene, inappuntabile nel suo completo blu. Ha una certa nonchalance nei modi che risalta anche di più a vederlo stravaccato su quella poltrona. Ma c'è altro che mi attira. Lavoro a parte, sembra che della sottoscritta non gliene freghi un cazzo - come di qualsiasi altra cosa al mondo, tenderei a dire - e come al solito questo un po' mi indispettisce e un po' mi attrae.
E se proprio devo essere sincera, un po’ mi intimorisce e un po’ mi arrapa. Nonostante ci sia andata a tanto così, se lui non mente, probabilmente non ci scoperei davvero. Tuttavia, anche se faccio la spigliata, davanti a lui mi sento un po’ in un angolo.
- Qualche cliente come te è capitata, sì - sorride - non così giovani però e, se permetti, nemmeno così carine. Per tornare al nostro discorso, chiaramente, se decidi di accettare l'offerta, il tuo outfit dovrebbe essere più simile a quello dell'altra sera che a questo.
Sorrido anche io come a dire "sì, lo immagino". Mi sono vestita apposta così, con dei jeggings neri strappati sopra il ginocchio ed una felpa con cappuccio, nera anche quella.
- C'è una divisa? - domando.
- No, nessuna divisa, però... - risponde lasciando in sospeso la frase. Come a dire che così non va bene. Grazie tante, lo sapevo pure io.
Mi volto e torno verso la scrivania. Do un altro sorsetto. Mossa studiata, così da consentirgli di notare come questi pantaloni che sembrano una seconda pelle mi disegnino il culo. Sono indecisa sul che fare e vorrei che l'iniziativa la prendesse lui. Potrei assecondarlo. O anche rifiutarlo. Al momento non saprei proprio.
- Veniamo al secondo punto all'ordine del giorno? - chiede cambiando completamente discorso.
- Ovvero? - gli faccio come una scema. Sono rimasta alle nostre chiacchiere sul lavoro.
- Ovvero... - e indica la scrivania.
- Ahahahah... ma tu non eri quello sposato?
- Mi era sembrato di capire che ‘n te fregasse un cazzo, e poi...
- E poi? - domando. Soprattutto per la curiosità di vedere come cerca di aggiustarmela.
- E poi stavamo facendo una partita, regazzì, ma c'era ancora il secondo tempo, no? Non è mica colpa mia se sei svenuta - dice guardandomi dritto negli occhi.
I convenevoli sono terminati, più esplicito di così non poteva essere. Piuttosto, sono io a essere indecisa. Sempre io, però, non riesco a sganciarmi dal suo sguardo.
- E tu sei proprio sicuro che puoi permetterti un secondo tempo? - gli domando avanzando un po' verso di lui.
Gliel'ho detto con tutta la sfacciataggine di cui sono capace. Con arroganza, quasi. Tocca a lui insistere. Io sono pronta ad andarmene, però se ci sa fare sono anche pronta a cambiare idea.
- Ci posso provare, chi lo sa - mi risponde quasi disinteressato - tu invece devi essere una che per il secondo tempo è sempre pronta...
- Dici, eh? - faccio per prendere appunto un po' di tempo.
Questo suo modo di dirmi che come me ne ha viste tante, e che per lui una in più o una in meno non fa alcuna differenza, mi destabilizza. Tanto mi corteggia per indurmi ad accettare la sua offerta di lavoro, tanto ostenta indifferenza a tutto il resto e mostra di considerarmi solo una zoccoletta cui al massimo dare una ripassata. Ma anche no. E se è no, sticazzi. "Ogni lasciata è persa" non deve proprio essere il suo motto.
Si dà un paio di colpetti sulla gamba, come se chiamasse un cane. Vado da lui, eseguo senza quasi rendermene conto. Gli salgo praticamente con le ginocchia sopra le cosce e mi offro al bacio. Mi offro anche alle sue mani che si intrufolano. Sotto la felpa ho solo un top, elude anche quello e si impossessa delle mie meline. Il mio corpo reagisce immediatamente. Lui le stringe e mormora "nel caso dovessi accettare il lavoro, suggerirei un push up". Gli sussurro uno "stronzo" sorridente. Lui mi torce un capezzolo. Non tanto forte. Anzi mi sarebbe piaciuto che l'avesse fatto un po' più forte.
- Me lo stai facendo diventare duro, biondina...
Ragazzina, biondina, piccoletta. Annalisa mai.
- Ma il mio nome te lo ricordi? - chiedo con un po' di affanno per il trattamento che sta riservando alle mie tette.
- Certo, Annamaria... - risponde.
- Quasi... - sussurro.
- Appunto - dice come se anche di sapere il mio nome non gliene freghi assolutamente un cazzo.
Del resto per lui sono un giocattolo, che bisogno c'è del nome? Pompinara, forse fica da riempire, possibilmente ragazza da far lavorare. Per lui sono questo e poco altro, anzi niente altro. Dio quanto è strafottente. E’ proprio la sua strafottenza che mi sta facendo bagnare in modo osceno.
- Vediamo se questa volta te lo ricorderai... - mi fa cercando di spingermi giù tra le sue gambe.
Resisto, devo rispondere che non voglio. Purtroppo, e per puro istinto, gli metto scandalosamente la mano sul pacco. Ha ragione, lo sento, è duro. Lo è per me. Impazzisco.
- Quello di sabato non lo ricordi? - gli chiedo.
- Fammi un ripasso - risponde mettendomi una mano in testa.
Stavolta la sua pressione si fa più decisa, anche se gli piagnucolo "non voglio, non mi va". In ginocchio tra le sue gambe praticamente ci cado. "A una come te va sempre". Se lo tira fuori dai suoi pantaloni morbidi mentre, contraddicendo tutto quello che dico, mi sistemo i capelli dietro le orecchie.
Come abbia fatto a non fissare nella mia mente questo odore di uomo, questo sapore, è un mistero. Ce l’ha grosso, meno di quanto ricordassi ma è grosso. La cappella in particolare mi sembra enorme, probabilmente perché è circonciso.
- Non voglio...
- Succhia regazzì... apri la bocca - dice spingendomi la testa verso di lui.
- No, ti prego...
- Succhia...
Me lo infila, perché la bocca l'ho lasciata aperta. All'inizio deve forzarmi un po', ma poi mi lascio andare. Mi applico come meglio posso e stavolta è lui che impazzisce. “Non dimenticarti i coglioni…”. Certo, come no, ti pare che li dimentico? "Ammazza che succhiacazzi...".
- Il pompino me l’hai già fatto – esclama però ad un tratto, quasi con rabbia – sei qui per scopare, no?
Smette di spingermi su e giù per la nuca, quasi mi allontana. Per un po’ annaspo, mi gira la testa per il poco ossigeno e per la brutalità del trattamento.
Non voglio scopare. Non perché sarebbe disdicevole o perché ha più del doppio dei miei anni, figuriamoci. Non voglio, non riesco a definirlo nemmeno con me stessa, il perché. Ma non voglio. Tutto qua.
- No, fammi finire… - ansimo con la bava che mi cola dal mento giù sui suoi calzoni – fammi finire, non ti piace?
Di nuovo giù, bruscamente, a bocca piena e polmoni vuoti. A rantolare e gorgogliare, combattere con i conati, lanciare suoni inarticolati e soffocati quando mi arriva in gola. Con tutta la mia voglia che cola nelle mutandine e tutta la sua voglia costipata dentro il suo grosso cazzo. Una scopata alla testa ai limiti dell’ingestibile, come non ne subivo da tempo. Me la godo, la trovo giusta. Quando esplode con uno sbuffo e i suoi getti mi inondano faccio ogni sforzo possibile per non perdermi nulla e non sporcargli i pantaloni. Rialzo lo sguardo con un sorriso. "Anche l'altra volta ne hai fatta tanta", gli dico per gratificarlo. In realtà non me lo ricordo proprio.
- Adesso ti tocca aspettare un po’ – mi fa ironico – ma se ti impegni magari ci metto poco…
- No, davvero, non voglio scopare… - mormoro.
- Togliti quella roba – dice indicando i miei abiti.
Se gli avessi detto che sono appena planata da Marte mi avrebbe dato retta di più. Però è la verità, non voglio scopare. Anche se fatico a crederci io stessa. Sono straeccitata ma è la verità.
Eppure obbedisco. Penso una cosa e ne faccio un'altra, eseguo il suo comando. Smonto dalle Stan Smith, sfilo i jeggings, poi le mutandine. Rimango con felpa e calzini indosso.
- E il resto? - mi fa accennando alla parte superiore.
- Ho freddo - rispondo - poi non mi sembri apprezzare molto, no?
Ok, faccio la spiritosa e lui ride. Però avrei preferito un complimento, anche di circostanza, sulle mie tette.
- Ce l’avete tutte depilata, eh? – ridacchia guardandomi. “Tu e tutte le puttanelle come te”, intendeva dire, è chiaro. Le sue parole mi danno un brivido che è a momenti maggiore di quello che mi dà il suo dito che mi passa tra le gambe. Ci passa e basta, non entra, ma quasi mi vergogno di come scivola.
- Ti prego fermati... - gli dico anche se mi piace da matti, ma cerco di mantenere un barlume di lucidità.
- Devi essere una di quelle ninfomani che prima dicono "no" e poi dicono "non smettere", vero? - risponde - non ho i preservativi ma vedrai che ci sto attento...
- No... per piacere - non riesco a dire altro, come se la mia mente fosse già troppo impegnata a combattere con il mio corpo per combattere anche con lui. Ho voglia di altro, che non è quello che faccio io a lui ma quello che lui fa a me.
- Sei bagnata come una zoccola - commenta ignorandomi - ma tanto tu un po' zoccola lo sei, vero? Un po' tanto...
- Tu cosa pensi? - chiedo come un'idiota.
- A regazzì, c’è bisogno di pensare? Qui dentro una come te diventa milionaria… - dice sardonico mentre mi fa indietreggiare verso la sua scrivania.
Nella mia testa traduco “una troia come te”. Ogni volta che parla, ormai, mi dà esplicitamente o implicitamente della mignotta. Probabilmente è solo troppo arrapato per non diventare volgare e sprezzante, ma è come se sapesse perfettamente quanto, in questi momenti, volgarità e disprezzo mi facciano andare fuori di testa.
Un secondo dopo mi ritrovo al punto di partenza, dove ero qualche minuto fa. Appoggiata al bordo della scrivania con il sedere, stavolta senza pantaloni né mutandine e la sua mano tra le gambe, padrona di me.
- Dimmelo, "sono una troia" - ordina.
- Sì, sono una troia - sospiro.
- E perché non vuoi venire a fare la troia qui? - mi chiede.
Beh, la risposta sarebbe facile. Faccio la troia quando mi va e con chi mi va, non per lavoro. L'ho fatta con te perché mi fai spegnere il cervello. Sarebbe facile dirlo in un altro momento e a chiunque altro, non a lui.
- Sì, va bene, ci vengo... - sospiro ancora.
Sull'ultimo sospiro mi infilza, con un dito. Perquisizione intima. Scatto, strizzo gli occhi, mi aggrappo al bordo della scrivania e mi mordo il labbro. Cosa volete che pensi lui quando allargo anche un po' le gambe?
- Mi fa piacere - dice tranquillo - adesso fammi vedere quanto fa piacere a te...
Mi infilza con un secondo dito. Stavolta mordermi il labbro non serve, strillo "no!". Dice "e stazzitta" e inizia a scoparmi con le dita. Io ci provo, a stare zitta, ma e la cosa più difficile del mondo. Mi aggrappo alle sue spalle gemendo e ripetendo "no".
Si libera facilmente dalla mia stretta e si libera anche della giacca, che scivola a terra. Si è tirato su i pantaloni ma il suo uccello quasi disarmato spunta lo stesso dalla zip. E’ un’immagine assurda, però non riesco a distogliere lo sguardo.
- Qui c'è una ragazzina che ha fame, vero?
Che pensi che abbia voglia di essere castigata lo capirei, magari in un altro momento. Ma la verità è che di voglia me ne è salita un'altra, fortissima e indefinita, di quelle che quando arrivano mi spaventano e poi prendono il sopravvento su tutto. E il suo cazzo c'entra poco. C'entrano molto di più le sue parole, i suoi toni, i suoi modi. E c’entra la mia rabbia verso me stessa.
Sì, ce l’ho con me. Perché mi sono lasciata mettere sotto da questo qui. Perché mi piace farmi mettere sotto da questo qui. Perché non ho saputo resistere e gliel’ho succhiato di nuovo, perché essere usata in quel modo mi è piaciuto. Perché non mi va di essere scopata ma al tempo stesso voglio che mi faccia qualcosa. Perché non so nemmeno io cosa voglio.
Però capisco tutto quando mi mette una mano sulle tette e mi spinge giù quasi con arroganza. E' proprio uno di quegli attimi rallentati, frame by frame, in cui tutto si fa più chiaro.
Vi prego, provate ad astrarvi un attimo e immaginate la scena: io che vado giù sotto la sua spinta. Se volete, dipingetemi in faccia un'espressione di sorpresa, o di paura. I miei capelli biondi svolazzano, il sedere fa fulcro sul bordo, la situazione si rovescia. La parte vestita di me è stesa sul ripiano, le mie gambe nude puntano in su, allargate in quell'attesa che ogni ragazza conosce. In mezzo c'è lui, che si sega il suo giustiziafanciulle a non più di cinque centimetri dall'ingresso nella mia città calda e pulsante. E' qui, in quell'istante in cui mi contraggo istintivamente per assorbire il colpo sulla schiena, che capisco tutto.
Per essere usata, sono stata usata. Adesso mi va di essere addirittura umiliata, anche se non saprei come. Vorrei persino un po' di dolore. Non tanto, ma un po' sì. Ecco quello che voglio. Qualcosa di fisico che esprima la sua supremazia mentale. Non pensate a quelle cazzate tipo "leccami gli stivali", sono ridicole e non fanno parte del mio immaginario. A me basta anche un gesto, o poco più. Qualcosa che mi dica che non sono all'altezza, che non valgo un cazzo, nemmeno la fatica di sbattermi. Come quando poco fa ha ridicolizzato le mie tette e poi mi ha torto i capezzoli.
- Aspetta... aspetta – piagnucolo – non voglio.
La sua espressione ghignante credo che non la dimenticherò facilmente. E’ come se mi volesse dire "ancora sto giochetto?". Una cosa così.
- Io voglio... io voglio essere sculacciata... forte.
- Quante ce n'hai di perversioni, piccolè?
Si blocca, il ghigno si allarga in una specie di sorriso. E' una scena assurda, ma è la nostra scena. Resta ancora per qualche attimo immobile, disfa il nodo della cravatta, se la sfila. Mi tira giù, mi volta mentre piango “insultami, dimmi quanto sono troia”, mi sbatte a novanta, mi lega le braccia dietro la schiena con forza, facendomi male. Un dolore sopportabile, non fine a se stesso, mi piace. Tutto senza dire una parola. Gli unici rumori ora li faccio io, con il mio respiro ingrossato. E colo, colo terribilmente.
Al primo schiaffo imploro "più forte!". Al secondo, strillo. Accontentata. "Te devi sta zitta, però". Alle tre o quattro botte che seguono miagolo "forte, più forte", mentre lui risponde a loop "stazzitta" oppure "stazzitta, troia". Alla fine taccio perché davvero mi fa male e vorrei che smettesse. Ma ormai gli ho consegnato le chiavi e quando è tempo di smettere lo decide lui. Io devo solo resistere mordendomi il labbro a sangue.
- Lo vuoi?
- No.
- Lo vuoi nel culo?
- No!
Schizzi caldi sulle mie natiche in fiamme, l’ultima sberla. Non mi ero accorta che si stava segando. Respiro a bocca aperta. Ci sarebbe stato bene chiedergli di schizzarmela in faccia, peccato. “Ti posso pulire il cazzo?”, “accomodati”, "grazie". "Devo farti conoscere un mio amico", brivido di terrore mentre glielo lavoro con labbra e lingua, non ho nessuna intenzione di conoscere un sadico. "Che bocchinara... tanto ‘ndo scappi".
- Quando devo venire? – gli domando mentre mi rivesto.
- Sabato alle sette e mezza, otto, così parliamo un po’ e ti faccio conoscere le altre ragazze… Ti serve per caso un anticipo? Mi fido.
- No… no, grazie, non mi serve.
CONTINUA
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