The gift: Episodio 6 Elohim ki twob
di
PabloN
genere
sentimentali
Ore 03:28
Il telefono sul comodino vibra. Così intensamente da farmi emergere dal torpore in cui sono immerso. Non dormo in realtà, sono sospeso in quella terra di mezzo che separa i sogni dalle illusioni.
“Pronto..” rispondo con voce impastata
“ Ciao, sono io. Ti ho svegliato?” Luisa..che vorrà?
“No, mi hai salvato dal precipitare in un incubo”
Silenzio
“Vabbeh..ora sarà bene che ti riprenda del tutto. Mi sa che ci siamo”
“Ci siamo che….?” Cazzo…Chiara!
“Sei un uomo e manco da sveglio riusciresti a fare due cose insieme, per cui te la faccio passare. Ma ti ricordo che..”
“Arrivo subito, dammi solo il tempo di mettermi qualcosa”.
“Sbrigati pa…sbrigati”
Chiudo il cell. L’ho sentito sai quel pa sospeso. Mi piace pensare che proseguisse con la stessa sillaba accentata.
Sono passati otto mesi e mezzo da allora.
Mentre mi infilo negli abiti lasciati già pronti accanto al letto rapide mi passano le immagini di questi mesi.
Il silenzio imbarazzato del mattino dopo bevendo un caffè. Il desiderio di accarezzarle i capelli, trattenuto a stento. Gli sguardi sfuggenti. Poche parole, giusto quelle necessarie a definire il cosa accade ora.
Poi la partenza di lei, il treno che si allontana, io che resto sulla banchina fino a che scompare alla vista.
Il camion che torna a prendere il letto, donato ad una associazione benefica del luogo.
E poi il ritorno. La tristezza che cala nel cuore. La vita che riprende il suo corso e l’attesa del responso. Non so nemmeno cosa sperare.
Giorni di silenzio, sospeso tra il desiderio di sentirla e quello di dimenticarla per sempre. Tanto lo so che non accadrà. Non la posso dimenticare, solo il signor Alzheimer potrebbe aiutarmi, ma sinceramente a 32 anni preferirei non fare ancora la sua conoscenza.
La telefonata. Non Chiara, Luisa.
“Chiara ha un ritardo. Attendiamo ancora qualche giorno ma sembra che almeno a qualcosa tu sia servito”. Chiude senza darmi modo di replicare, ed è meglio così. Non la passerà liscia la prossima volta.
La conferma, di Chiara questa volta.
“ Beppe…sono incinta”
Nemmeno ora riesco ad aggiungere nulla. Sembra mi vogliano ribadire che non ho voce in capitolo. Giusto per educazione insomma, per farmi sapere.
Ecografie, esami del sangue, visite. Di ogni cosa sono informato. Ma come si informa il cliente delle variazioni contrattuali. Con cortese distanza.
La prima ecografia mi arriva sulla mail. Apro. Una macchia grigia in un campo nero. Il nostro bambino. So che non posso dire nostro, ma nessuno potrà mai impedirmi di sentirlo mio, nostro.
Alla seconda ne riconosco le forme. Tengo la stampa sul comodino accanto al letto, e così anche per la morfologica. Ogni sera, prima di addormentarmi, le/gli parlo di me, delle mie giornate, di come me lo/la immagino crescere nella pancia di Chiara. Gli racconto tutto. Sapeva già prima di essere concepito/a, di certo non si scandalizzerà. Gli affido Chiara, che ormai sento di rado. Non la cerco, se vuole così non voglio forzarla. Avrà le sue buone ragioni, per quanto stenti a capirle e mi facciano male.
Arriviamo al settimo mese. Ormai si deve pensare al parto. Chiara mi chiama.
“Ciao..”
“Ciao”
“Disturbo?”
“Affatto”
“Sai, non vorrei essere inopportuna..”
“Me lo hai già detto mesi fa si. Vale ciò che dissi allora”
“Scusa..hai ragione. Volevo chiederti..che ne diresti di venire con noi al corso preparto?”
“Se è uno scherzo, è di pessimo gusto”
“Non è uno scherzo. Sai con Luisa abbiamo pensato che…”
“ Cosa avete pensato, cosa Chiara? Che ormai stessi bene? Che non fossi più innamorato di te, o che non mi importasse un accidente di questo bambino? Mi avete trattato come un estraneo, forse anche peggio. Non ho mai avanzato pretese, ma esigo almeno il rispetto dovuto ad un essere umano. Lo stesso essere umano con cui ti confidavi, che ha visto nascere il tuo amore. Quello cui hai chiesto un figlio”. Silenzio, ma sento come un singhiozzare sommesso.
“Abbiamo pensato che…si è vero, ti abbiamo trattato da estraneo. Io l’ho fatto. Volevo che mi odiassi. Volevo che mi dimenticassi. Avrei voluto non aver mai fatto quella richiesta dopo quello che mi avevi detto, ma ormai era tardi. Luisa era sicura che ti saresti tirato indietro. Sarebbe stato un modo per punirmi, e punire anche lei. Invece…sei andato fino in fondo. Non credere che non abbia capito quanto stavi male quella notte. Ho sentito la tua rabbia sciogliersi. E ho capito che non potevo farti stare così.”
“E poi? Che è accaduto che ti ha fatto cambiare idea? Perché se ancora riesco a capire con lucidità qualcosa è cambiato”
“Poi..è venuta da noi un paio di volte la tua vicina di casa”
“Ma chi, quella che ogni tanto mi fa delle pulizie a fondo?”
“Si, lei”
“E allora?”
“Allora ci ha raccontato delle ecografie sul comodino accanto al letto”
Ma non poteva farsi i cazzi suoi questa?
“Non ho mai visto Luisa commossa, di certo non per un uomo. Ha capito che..dai hai capito no’”
“No, dimmelo Chiara” sarò stronzo ma questa soddisfazione me la voglio prendere
“Ha capito che si era sbagliata su di te. Che non meritavi tutto questo”
Tiè, uno a zero Luisa!
“Non ti chiedo di perdonarmi. So di non meritarlo. Però credimi, non ho mai voluto farti del male. Se avessi saputo..” la voce si spezza.
Mi sento una merda.
“Chiara…Chiara, no, scusa…non volevo…ti prego perdonami. Vorrei odiarti, davvero. Sarebbe più facile. Ma a che serve odiare se non si ha scelta?”
Silenzio. Sospiro.
“Comunque..si”
“Si?”
“Si, verrò al corso con voi”
Non è tempo di rimuginare ora.
Giungo a casa di Chiara, lei e Luisa sono già sotto. Per una volta l’essere veloce nell’arrivare non viene criticato.
Apro la portiera di dietro, le faccio salire
“Stalle accanto. Ogni quanto le contrazioni?”
Me lo dice, ma nemmeno la sento. Cerco di ricordare le indicazioni del corso preparto, quelle che l’ostetrica ci dava guardando ora me ora Luisa, non sapendo bene a chi rivolgersi. L’unica cosa certa era che Chiara fosse la madre, il resto un enigma.
Luisa le parla, cerca di tranquillizzarla, le tiene la mano.
Guido concentrato sulla strada e sull’evitare qualche stronzo che vista l’ora si illude di essere a Monza.
Arriviamo all’ospedale e tutto accade in fretta.
Chiara nel corridoio, sulla carrozzina.
L’ostetrica che le viene incontro sorridente, guardando noi due con la stessa aria perplessa del corso.
Sempre lei che chiede chi entrerà in sala parto.
La mia risposta: “Lei”
Lo sguardo di Luisa, in cui leggo gratitudine. Siamo stati idioti, perché non ne avevamo parlato prima?
Luisa che mi dice “Grazie”
Io che le rispondo “Sei stata privata della maternità. Non posso restituirtela, ma voglio che sia tu a gioirne con Chiara”
Entrano e poi..l’attesa. Eterna. Conosco ogni mattonella del corridoio, potremmo darci del tu. Ho contato le sedie, i quadri appesi, cercato ogni appiglio per sedare l’ansia. Nel dubbio ho provato ogni merendina o schifezza della macchinetta automatica. Sono tante, ho persino la nausea.
Poi, si apre la porta.
“Venga” mi dice l’ostetrica.
Almeno, credo dica così. L’unica cosa che sento è un pianto, potente, vitale, che rimbomba nel corridoio e mi guida.
Chiara è lì, nel letto. Stanca, scarmigliata, provata, gli occhi rossi. Mi fa un’enorme tenerezza.
Tra le sue braccia, nascosta in un fagotto di lana e cotone, lei. Ludovica.
Vedo le manine agitarsi sopra la stoffa, gli occhi lucidi di Luisa che non mi sembra meno provata di Chiara.
“La vostra bambina sta bene. L’indice di APGAR è perfetto. Ora devono solo riposarsi” dice l’ostetrica. La vostra bambina. La frase mi rimbomba nelle orecchie. La vostra bambina.
Luisa la prende dalle braccia di Chiara. Si gira verso me. Me la porge. Sono bloccato. Non vedo nulla, tutto è offuscato. Me la mette tra le braccia. Non dovevi farlo Luisa, ora come farò?
La guardo attraverso il velo di lacrime e mi sembra bellissima. E’ una balla lo so. I neonati sono brutti, tutti. Venire al mondo è una faticaccia e ci vuole qualche giorno per riprendersi.
Chiara mi guarda, sorride.
Io immagino Dio, lassù, guardare questi quattro esseri umani, persi nel caos del mondo. Lo immagino sorridente. Mentre penso ad un finale (ma quale finale, questo è solo l’inizio!) per questa storia sconclusionata solo tre parole mi vengono in mente:
ELOHIM KI TWOB (E DIO VIDE CHE ERA COSA BUONA)
Il telefono sul comodino vibra. Così intensamente da farmi emergere dal torpore in cui sono immerso. Non dormo in realtà, sono sospeso in quella terra di mezzo che separa i sogni dalle illusioni.
“Pronto..” rispondo con voce impastata
“ Ciao, sono io. Ti ho svegliato?” Luisa..che vorrà?
“No, mi hai salvato dal precipitare in un incubo”
Silenzio
“Vabbeh..ora sarà bene che ti riprenda del tutto. Mi sa che ci siamo”
“Ci siamo che….?” Cazzo…Chiara!
“Sei un uomo e manco da sveglio riusciresti a fare due cose insieme, per cui te la faccio passare. Ma ti ricordo che..”
“Arrivo subito, dammi solo il tempo di mettermi qualcosa”.
“Sbrigati pa…sbrigati”
Chiudo il cell. L’ho sentito sai quel pa sospeso. Mi piace pensare che proseguisse con la stessa sillaba accentata.
Sono passati otto mesi e mezzo da allora.
Mentre mi infilo negli abiti lasciati già pronti accanto al letto rapide mi passano le immagini di questi mesi.
Il silenzio imbarazzato del mattino dopo bevendo un caffè. Il desiderio di accarezzarle i capelli, trattenuto a stento. Gli sguardi sfuggenti. Poche parole, giusto quelle necessarie a definire il cosa accade ora.
Poi la partenza di lei, il treno che si allontana, io che resto sulla banchina fino a che scompare alla vista.
Il camion che torna a prendere il letto, donato ad una associazione benefica del luogo.
E poi il ritorno. La tristezza che cala nel cuore. La vita che riprende il suo corso e l’attesa del responso. Non so nemmeno cosa sperare.
Giorni di silenzio, sospeso tra il desiderio di sentirla e quello di dimenticarla per sempre. Tanto lo so che non accadrà. Non la posso dimenticare, solo il signor Alzheimer potrebbe aiutarmi, ma sinceramente a 32 anni preferirei non fare ancora la sua conoscenza.
La telefonata. Non Chiara, Luisa.
“Chiara ha un ritardo. Attendiamo ancora qualche giorno ma sembra che almeno a qualcosa tu sia servito”. Chiude senza darmi modo di replicare, ed è meglio così. Non la passerà liscia la prossima volta.
La conferma, di Chiara questa volta.
“ Beppe…sono incinta”
Nemmeno ora riesco ad aggiungere nulla. Sembra mi vogliano ribadire che non ho voce in capitolo. Giusto per educazione insomma, per farmi sapere.
Ecografie, esami del sangue, visite. Di ogni cosa sono informato. Ma come si informa il cliente delle variazioni contrattuali. Con cortese distanza.
La prima ecografia mi arriva sulla mail. Apro. Una macchia grigia in un campo nero. Il nostro bambino. So che non posso dire nostro, ma nessuno potrà mai impedirmi di sentirlo mio, nostro.
Alla seconda ne riconosco le forme. Tengo la stampa sul comodino accanto al letto, e così anche per la morfologica. Ogni sera, prima di addormentarmi, le/gli parlo di me, delle mie giornate, di come me lo/la immagino crescere nella pancia di Chiara. Gli racconto tutto. Sapeva già prima di essere concepito/a, di certo non si scandalizzerà. Gli affido Chiara, che ormai sento di rado. Non la cerco, se vuole così non voglio forzarla. Avrà le sue buone ragioni, per quanto stenti a capirle e mi facciano male.
Arriviamo al settimo mese. Ormai si deve pensare al parto. Chiara mi chiama.
“Ciao..”
“Ciao”
“Disturbo?”
“Affatto”
“Sai, non vorrei essere inopportuna..”
“Me lo hai già detto mesi fa si. Vale ciò che dissi allora”
“Scusa..hai ragione. Volevo chiederti..che ne diresti di venire con noi al corso preparto?”
“Se è uno scherzo, è di pessimo gusto”
“Non è uno scherzo. Sai con Luisa abbiamo pensato che…”
“ Cosa avete pensato, cosa Chiara? Che ormai stessi bene? Che non fossi più innamorato di te, o che non mi importasse un accidente di questo bambino? Mi avete trattato come un estraneo, forse anche peggio. Non ho mai avanzato pretese, ma esigo almeno il rispetto dovuto ad un essere umano. Lo stesso essere umano con cui ti confidavi, che ha visto nascere il tuo amore. Quello cui hai chiesto un figlio”. Silenzio, ma sento come un singhiozzare sommesso.
“Abbiamo pensato che…si è vero, ti abbiamo trattato da estraneo. Io l’ho fatto. Volevo che mi odiassi. Volevo che mi dimenticassi. Avrei voluto non aver mai fatto quella richiesta dopo quello che mi avevi detto, ma ormai era tardi. Luisa era sicura che ti saresti tirato indietro. Sarebbe stato un modo per punirmi, e punire anche lei. Invece…sei andato fino in fondo. Non credere che non abbia capito quanto stavi male quella notte. Ho sentito la tua rabbia sciogliersi. E ho capito che non potevo farti stare così.”
“E poi? Che è accaduto che ti ha fatto cambiare idea? Perché se ancora riesco a capire con lucidità qualcosa è cambiato”
“Poi..è venuta da noi un paio di volte la tua vicina di casa”
“Ma chi, quella che ogni tanto mi fa delle pulizie a fondo?”
“Si, lei”
“E allora?”
“Allora ci ha raccontato delle ecografie sul comodino accanto al letto”
Ma non poteva farsi i cazzi suoi questa?
“Non ho mai visto Luisa commossa, di certo non per un uomo. Ha capito che..dai hai capito no’”
“No, dimmelo Chiara” sarò stronzo ma questa soddisfazione me la voglio prendere
“Ha capito che si era sbagliata su di te. Che non meritavi tutto questo”
Tiè, uno a zero Luisa!
“Non ti chiedo di perdonarmi. So di non meritarlo. Però credimi, non ho mai voluto farti del male. Se avessi saputo..” la voce si spezza.
Mi sento una merda.
“Chiara…Chiara, no, scusa…non volevo…ti prego perdonami. Vorrei odiarti, davvero. Sarebbe più facile. Ma a che serve odiare se non si ha scelta?”
Silenzio. Sospiro.
“Comunque..si”
“Si?”
“Si, verrò al corso con voi”
Non è tempo di rimuginare ora.
Giungo a casa di Chiara, lei e Luisa sono già sotto. Per una volta l’essere veloce nell’arrivare non viene criticato.
Apro la portiera di dietro, le faccio salire
“Stalle accanto. Ogni quanto le contrazioni?”
Me lo dice, ma nemmeno la sento. Cerco di ricordare le indicazioni del corso preparto, quelle che l’ostetrica ci dava guardando ora me ora Luisa, non sapendo bene a chi rivolgersi. L’unica cosa certa era che Chiara fosse la madre, il resto un enigma.
Luisa le parla, cerca di tranquillizzarla, le tiene la mano.
Guido concentrato sulla strada e sull’evitare qualche stronzo che vista l’ora si illude di essere a Monza.
Arriviamo all’ospedale e tutto accade in fretta.
Chiara nel corridoio, sulla carrozzina.
L’ostetrica che le viene incontro sorridente, guardando noi due con la stessa aria perplessa del corso.
Sempre lei che chiede chi entrerà in sala parto.
La mia risposta: “Lei”
Lo sguardo di Luisa, in cui leggo gratitudine. Siamo stati idioti, perché non ne avevamo parlato prima?
Luisa che mi dice “Grazie”
Io che le rispondo “Sei stata privata della maternità. Non posso restituirtela, ma voglio che sia tu a gioirne con Chiara”
Entrano e poi..l’attesa. Eterna. Conosco ogni mattonella del corridoio, potremmo darci del tu. Ho contato le sedie, i quadri appesi, cercato ogni appiglio per sedare l’ansia. Nel dubbio ho provato ogni merendina o schifezza della macchinetta automatica. Sono tante, ho persino la nausea.
Poi, si apre la porta.
“Venga” mi dice l’ostetrica.
Almeno, credo dica così. L’unica cosa che sento è un pianto, potente, vitale, che rimbomba nel corridoio e mi guida.
Chiara è lì, nel letto. Stanca, scarmigliata, provata, gli occhi rossi. Mi fa un’enorme tenerezza.
Tra le sue braccia, nascosta in un fagotto di lana e cotone, lei. Ludovica.
Vedo le manine agitarsi sopra la stoffa, gli occhi lucidi di Luisa che non mi sembra meno provata di Chiara.
“La vostra bambina sta bene. L’indice di APGAR è perfetto. Ora devono solo riposarsi” dice l’ostetrica. La vostra bambina. La frase mi rimbomba nelle orecchie. La vostra bambina.
Luisa la prende dalle braccia di Chiara. Si gira verso me. Me la porge. Sono bloccato. Non vedo nulla, tutto è offuscato. Me la mette tra le braccia. Non dovevi farlo Luisa, ora come farò?
La guardo attraverso il velo di lacrime e mi sembra bellissima. E’ una balla lo so. I neonati sono brutti, tutti. Venire al mondo è una faticaccia e ci vuole qualche giorno per riprendersi.
Chiara mi guarda, sorride.
Io immagino Dio, lassù, guardare questi quattro esseri umani, persi nel caos del mondo. Lo immagino sorridente. Mentre penso ad un finale (ma quale finale, questo è solo l’inizio!) per questa storia sconclusionata solo tre parole mi vengono in mente:
ELOHIM KI TWOB (E DIO VIDE CHE ERA COSA BUONA)
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