Come le bacche del vischio
di
thomas andersen
genere
interviste
Come da cadenza biennale, è richiesta una mia consulenza in Valtellina e, come due anni fa, il pensiero mi porta subito a te.
Sarà la terza volta che ci vediamo; nelle precedenti due non siamo mai andati oltre ad un cenno di saluto ma abbiamo passato ore vicini in quella camera sterile, ognuno focalizzato sul proprio lavoro, deturpati da larghe divise bianche che lasciano solo gli occhi esposti.
Sono bastati quelli per inseminarci quel morboso baco silente. Quelle candide vesti non mi hanno impedito di notare la rotonda morbidezza del tuo corpo di statura media, la sfumatura di spessore creata dalle tue mutande sempre classiche, il tuo seno degno dei tuoi sguardi sensualmente prepotenti.
Tre ore di auto e finalmente il valico dell’Aprica apre alla mia vista la vallata dove ho trovato te.
Parcheggio, entro, indosso tuta, calzari, guanti, copri volto e mi presento al nostro tacito appuntamento, stavolta son deciso a spingermi oltre il nostro confine. Il timore che tu abbia cambiato lavoro o sia in ferie svanisce appena valico l’ingresso, riconosco il tuo sguardo proprio mentre tu, distrattamente, alzi gli occhi curiosa verso la porta che si è appena aperta. Passano secondi in cui le lancette non hanno avuto la forza di muoversi, poi fingiamo di riprendere spensierati il nostro incarico. Mi rendo conto che non è concretamente giustificata questa mia sicurezza che tu stia davvero vivendo il mio stesso gioco, ma non inibirò la mia spregiudicata intenzione.
Il responsabile, come da copione, si appresta a spegnere il macchinario e sgombrare le operatrici, tra le quali te. Ma stavolta gli chiedo se può gentilmente lasciare operativa l’addetta alla stazione 5 perché mi agevolerebbe la calibrazione. Mi accontenta, ti comunica che resterai a mia disposizione e mentre ti parla mi guardi con sguardo incriminante, come se avessi sconfinato le regole.
E così, eccoci, a un metro di distanza, uno a fianco all’altra, tu a posizionare tubetti in gomma ed io a manovrare con uno strumento del quale nessuno conosce veramente la funzione. “Perdonami, capisco che sia una forma di violenza costringerti a restare qui; se vuoi puoi chiedere il cambio e farti sostituire con una collega, non me la prenderò, anzi ti consiglio di fuggire perché se dovessi restare farò il possibile per stordirti verbalmente, sarà un velato turpiloquio”.
“Prima di tutto ti ricordo che non ci conosciamo, in secondo luogo ti avviso che, a differenza di due anni fa, son fidanzata e il tuo momento, se mai ci fosse stato, è passato, però, finché non eccederai coi termini, son curiosa di ascoltare cosa hai da dirmi, meriti un minimo di ascolto visto la situazione che hai architettato per obbligarmi alla tua presenza”.
Non ho preparato discorsi, lascerò che la mia fantasia si schiuda, a qualsiasi rischio, anche di pronunciare frasi sconnesse, non posso permettermi intercalari, titubanze, la mia voce deve prima stordirla e poi rapirla fino a masturbarle il cervello senza chiedere permesso ai timpani, comincio:
“Non ho intenzione di conoscerti, tempestarti di domande sulla tua vita o investigare sulle tue fantasie, mi limiterò a raccontarti ciò che non succederà tra noi. Mi raccomando guarda sempre verso il piano di lavoro e se puoi non interrompermi, non vorrei che nessuno si accorgesse che stiamo confabulando, non devono fantasticare che tu stia dando corda a uno sconosciuto che proviene da una vallata lontana.
Tra due ore finirò ciò che devo fare qui, uscirò, tornerò in albergo, quello a un chilometro da qui, laverò dal mio corpo la stanchezza del viaggio, cenerò e salirò all’ultimo piano, dove c’è una piccolissima spa. Poiché l’albergo è pressoché deserto oggi, ho chiesto al simpatico titolare di pagare un supplemento per avere accesso esclusivo.
Non sarai con me quando, nella penombra, mi immergerò nella tonda vasca e stapperò una bottiglia e , versandone il contenuto in un bicchiere, osserverò, attraverso la finestra, lo scorcio di centro cittadino illuminato da luci calde. Non sarai così folle e incosciente da raggiungermi, chiedermi gentilmente di voltarmi, privarti di ogni indumento ed entrare nell’idromassaggio, protetta dalla schiuma, per proseguire l’ascolto di questo mio racconto. Non ti vedo abbastanza incauta da chiedermi un calice per brindare, senza invocare nessun buon proposito, ma solo per goderci il tintinnio dei cristalli prima di deglutire guardandoci.
Eppure, la prima volta che incrociai i tuoi occhi, il mio primo pensiero fu che una notte avrei cosparso, con olio di gelsomino, ogni angolo del tuo copro, esagerando con la dose, avrei unto ovunque, anche la mia di pelle; nessun massaggio, come unico scopo lo scivolarci addosso, scorrere viscidamente sovrapposti, avvolgendoci uno con l’altro, senza un intento preciso. Come porche anguille, attorcigliarci, famelicamente consapevoli che sarà solo questione di attimi e, nel turbine ininterrotto, inevitabilmente ci incastreremo. Ci troverà impreparati, perché non sarà uno spingersi, ma un precipitare, un risucchio. Non potendo essere dosato, sarà fino in fondo. Qualunque intromissione avverrà, un tuo dito nella mia bocca, la mia lingua nel tuo buio, il mio viso fra i tuoi piedi, la mia carica sessuale nel tuo grembo o nel tuo culo, entreremo senza chiedere, senza opporci; fuoriusciremo per innestarci subito dopo, lingue in bocca, nelle orecchie, respiri soffocati negli incavi della carne, ingestibile erezione nella tua gola o nel tuo più sconcio pertugio, lerci di Noi, sudici delle salive, bisunti di olio, sapone e umori. Mani che sgusciano sui petti, sui seni, perdita di controllo sul dove inizia l’amplesso e dove finisce l’animale. Ci puliremmo e sporcheremmo nella stessa carezza.
Mi sbagliai quattro anni fa, quando, vedendo per la prima volta l’intensità magnetica delle tue iridi, pensai che avremmo scoperto, in un vortice di oscena necessità di impiastricciarci, dove e come i nostri riprovevoli densi getti ci avrebbero imbrattato per sempre.”
Improvvisamente taccio, chiudo il famelico miscelatore verbale, ho il fiatone ma mi sento beatamente svuotato in te.
Dopo qualche secondo parli, senza voltarti verso me: “ figlio di puttana, sono fradicia, mi tocca andare in bagno a masturbarmi, è l’unico modo che ho per provare ad aspettare altri due anni.”
Sarà la terza volta che ci vediamo; nelle precedenti due non siamo mai andati oltre ad un cenno di saluto ma abbiamo passato ore vicini in quella camera sterile, ognuno focalizzato sul proprio lavoro, deturpati da larghe divise bianche che lasciano solo gli occhi esposti.
Sono bastati quelli per inseminarci quel morboso baco silente. Quelle candide vesti non mi hanno impedito di notare la rotonda morbidezza del tuo corpo di statura media, la sfumatura di spessore creata dalle tue mutande sempre classiche, il tuo seno degno dei tuoi sguardi sensualmente prepotenti.
Tre ore di auto e finalmente il valico dell’Aprica apre alla mia vista la vallata dove ho trovato te.
Parcheggio, entro, indosso tuta, calzari, guanti, copri volto e mi presento al nostro tacito appuntamento, stavolta son deciso a spingermi oltre il nostro confine. Il timore che tu abbia cambiato lavoro o sia in ferie svanisce appena valico l’ingresso, riconosco il tuo sguardo proprio mentre tu, distrattamente, alzi gli occhi curiosa verso la porta che si è appena aperta. Passano secondi in cui le lancette non hanno avuto la forza di muoversi, poi fingiamo di riprendere spensierati il nostro incarico. Mi rendo conto che non è concretamente giustificata questa mia sicurezza che tu stia davvero vivendo il mio stesso gioco, ma non inibirò la mia spregiudicata intenzione.
Il responsabile, come da copione, si appresta a spegnere il macchinario e sgombrare le operatrici, tra le quali te. Ma stavolta gli chiedo se può gentilmente lasciare operativa l’addetta alla stazione 5 perché mi agevolerebbe la calibrazione. Mi accontenta, ti comunica che resterai a mia disposizione e mentre ti parla mi guardi con sguardo incriminante, come se avessi sconfinato le regole.
E così, eccoci, a un metro di distanza, uno a fianco all’altra, tu a posizionare tubetti in gomma ed io a manovrare con uno strumento del quale nessuno conosce veramente la funzione. “Perdonami, capisco che sia una forma di violenza costringerti a restare qui; se vuoi puoi chiedere il cambio e farti sostituire con una collega, non me la prenderò, anzi ti consiglio di fuggire perché se dovessi restare farò il possibile per stordirti verbalmente, sarà un velato turpiloquio”.
“Prima di tutto ti ricordo che non ci conosciamo, in secondo luogo ti avviso che, a differenza di due anni fa, son fidanzata e il tuo momento, se mai ci fosse stato, è passato, però, finché non eccederai coi termini, son curiosa di ascoltare cosa hai da dirmi, meriti un minimo di ascolto visto la situazione che hai architettato per obbligarmi alla tua presenza”.
Non ho preparato discorsi, lascerò che la mia fantasia si schiuda, a qualsiasi rischio, anche di pronunciare frasi sconnesse, non posso permettermi intercalari, titubanze, la mia voce deve prima stordirla e poi rapirla fino a masturbarle il cervello senza chiedere permesso ai timpani, comincio:
“Non ho intenzione di conoscerti, tempestarti di domande sulla tua vita o investigare sulle tue fantasie, mi limiterò a raccontarti ciò che non succederà tra noi. Mi raccomando guarda sempre verso il piano di lavoro e se puoi non interrompermi, non vorrei che nessuno si accorgesse che stiamo confabulando, non devono fantasticare che tu stia dando corda a uno sconosciuto che proviene da una vallata lontana.
Tra due ore finirò ciò che devo fare qui, uscirò, tornerò in albergo, quello a un chilometro da qui, laverò dal mio corpo la stanchezza del viaggio, cenerò e salirò all’ultimo piano, dove c’è una piccolissima spa. Poiché l’albergo è pressoché deserto oggi, ho chiesto al simpatico titolare di pagare un supplemento per avere accesso esclusivo.
Non sarai con me quando, nella penombra, mi immergerò nella tonda vasca e stapperò una bottiglia e , versandone il contenuto in un bicchiere, osserverò, attraverso la finestra, lo scorcio di centro cittadino illuminato da luci calde. Non sarai così folle e incosciente da raggiungermi, chiedermi gentilmente di voltarmi, privarti di ogni indumento ed entrare nell’idromassaggio, protetta dalla schiuma, per proseguire l’ascolto di questo mio racconto. Non ti vedo abbastanza incauta da chiedermi un calice per brindare, senza invocare nessun buon proposito, ma solo per goderci il tintinnio dei cristalli prima di deglutire guardandoci.
Eppure, la prima volta che incrociai i tuoi occhi, il mio primo pensiero fu che una notte avrei cosparso, con olio di gelsomino, ogni angolo del tuo copro, esagerando con la dose, avrei unto ovunque, anche la mia di pelle; nessun massaggio, come unico scopo lo scivolarci addosso, scorrere viscidamente sovrapposti, avvolgendoci uno con l’altro, senza un intento preciso. Come porche anguille, attorcigliarci, famelicamente consapevoli che sarà solo questione di attimi e, nel turbine ininterrotto, inevitabilmente ci incastreremo. Ci troverà impreparati, perché non sarà uno spingersi, ma un precipitare, un risucchio. Non potendo essere dosato, sarà fino in fondo. Qualunque intromissione avverrà, un tuo dito nella mia bocca, la mia lingua nel tuo buio, il mio viso fra i tuoi piedi, la mia carica sessuale nel tuo grembo o nel tuo culo, entreremo senza chiedere, senza opporci; fuoriusciremo per innestarci subito dopo, lingue in bocca, nelle orecchie, respiri soffocati negli incavi della carne, ingestibile erezione nella tua gola o nel tuo più sconcio pertugio, lerci di Noi, sudici delle salive, bisunti di olio, sapone e umori. Mani che sgusciano sui petti, sui seni, perdita di controllo sul dove inizia l’amplesso e dove finisce l’animale. Ci puliremmo e sporcheremmo nella stessa carezza.
Mi sbagliai quattro anni fa, quando, vedendo per la prima volta l’intensità magnetica delle tue iridi, pensai che avremmo scoperto, in un vortice di oscena necessità di impiastricciarci, dove e come i nostri riprovevoli densi getti ci avrebbero imbrattato per sempre.”
Improvvisamente taccio, chiudo il famelico miscelatore verbale, ho il fiatone ma mi sento beatamente svuotato in te.
Dopo qualche secondo parli, senza voltarti verso me: “ figlio di puttana, sono fradicia, mi tocca andare in bagno a masturbarmi, è l’unico modo che ho per provare ad aspettare altri due anni.”
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Rese grazie, lo diede ai suoi discepoli e disse:racconto sucessivo
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