E venni quel giorno
di
thomas andersen
genere
prime esperienze
Quando non esistevano i cellulari, il periodo in cui arrivava il luna park nel paese era per me momento di grande euforia.
Entrare al calar del sole in quella bolla di colori e suoni mi estasiava, cercavo di rimanervi fino a tarda ora, quando le famiglie rientravano e il senso di pericolo aumentava; star lontano dagli zingari era sempre stato il più frequente avvertimento che ricevevo dai miei.
Avevo tante passioni proibite: far esplodere potenti petardi a cavallo del capodanno, accendere fuochi nei campi, salire in moto col mio amico più grande, saltare la scuola, telefonare a tv locali che facevano televendite per fare loro scherzi in diretta, cose così.
Come tutti i ragazzini andavo ai baracconi, ma a differenza degli altri, mi piaceva andarci da solo.
Una sera accadde quello che prima o poi succede a tutti: una passione improvvisamente spazzò via tutte le altre, il misfatto avvenne proprio lì, in quel mondo che odorava di dolciumi, reganissi e zucchero filato.
La giostra dei cavalli girava più lenta dell’universo, un nano faceva piroettare palline di spugna, l’uomo forzuto invitava a confrontarsi con lui colpendo con un chiodo con un martello, riuscii a resistere anche al richiamo della tenda della chiromante ma i miei passi si fermarono in corrispondenza di una baracca.
Un ragazzino stava sparando proiettili in gomma contro una pila di barattoli in latta, posti nella consueta posizione piramidale. Gestiva quella semplice attrazione una zingara che avrà avuto la mia età: lunghi capelli castano scuri, occhi chiari; un abitino floreale, leggero e svolazzante fino alle caviglie, mostrava una costituzione asciutta e la pelle che dava l’idea di non esser stata lavata da settimane. Ricordo che mi guardò proprio mentre il colpo sparato dal giovinetto abbatteva il bersaglio, in quel momento non furono solo quelle lattine a rovinare fragorosamente al suolo, qualcosa dentro me venne colpito e segnato per sempre.
Folgorato, osservai quella giovane nomade consegnare al cecchino il peluche appena vinto quando la sua voce mi parlò per la prima volta; dovette insistere, poiché al primo tentativo non mi resi conto che stesse chiamando proprio me. Non le servì sventolare alcun fazzoletto soporifero, ero già irrimediabilmente preda del suo magnetismo.
Caricava il fucile in plastica per propormi di giocare, non ebbi altra possibilità che accettare; se tornassi un milione di volte a quel momento accetterei ogni volta, anche ora che a quarant’anni dovrei essere maturo e coscienzioso.
Guardai quelle scaltre e rapide mani, chissà quanti oggetti avevano rubato, quante serrature scassinato, quante insidiose situazioni sgarbugliato. Mi porse l’arma, pagai e impugnai per prendere la mira.
Già ai tempi non gradivo perdere, non potevo permettermi di mancare il colpo, soprattutto non davanti ai suoi occhi, dovevo inventare rapidamente qualcosa, un escamotage che mi togliesse da quello status di un qualsiasi ingenuo e stupido avventore.
Cambiai di colpo direzione di tiro e sparai ai peluches, abbattendone qualcuno.
“Non volevo vincere uno di quei pupazzi, mi stanno antipatici, volevo solo stenderli.”
Ci mettemmo a ridere insieme, mi disse che si era spaventata, che per un attimo temeva che avrei sparato anche a lei.
L’avevo sorpresa e intimorita, per la prima volta mi sentivo un piccolo adulto brillante.
Anche adesso, raccontando di me, rivedo comportamenti che tuttora fatico a gestire: mi feci prendere dall’entusiasmo.
Proposi io il gioco successivo, doveva essere un’esca superiore perché ad abboccare non c’era un pesciolino qualunque ma, teoricamente,la più inafferrabile delle volpi.
Estrassi dal portafoglio una banconota di grosso taglio, avevo solo quella ma ormai ero in ballo, le dissi di invertire i ruoli, venire da questa parte del bancone, io avrei tenuto con una mano sospesa in aria la banconota e lei avrebbe sparato, se fosse riuscita a centrarla sarebbe stata sua.
Si guardò attorno come per verificare che nessun parente la stesse vedendo e accettò.
Mi ritrovai col braccio sinistro teso ad angolo retto rispetto al mio torace e nella mano quel foglio rosso con raffigurato il Bernini. Ci guardammo negli occhi, sapevamo entrambi che se avesse colpito la mano mi avrebbe causato un po’ di dolore, sapevamo che lei voleva quei soldi, sapevamo che qualcosa in quel luna park stava uscendo da un normale corso degli eventi.
Speravo dentro me che facesse centro, di perdere il gioco, lo scopo non era vincere ma infilare un cazzo di tarlo in quella mente volubile.
Prese la mira, aveva sei proiettili a disposizione, sei fottuti cilindri di gomma dura che avrebbe indirizzato verso la mia incoscienza.
Premette il grilletto sei volte consecutivamente, istintivamente chiusi gli occhi, già la prima pallottola di quella raffica impattò sulla carta che si lacerò, poi giunse il secondo, il terzo e gli altri, io gridai di dolore tenendomi con la sinistra la mano destra, contorcendomi chinato sul pavimento, lei scavalcò agilmente il bancone, si chinò verso me quasi preoccupata, io alzai il viso sorridente mostrandole la mano intatta e terminando la mia piccola recita.
“Cretino” la risposta di lei,
raccolsi la banconota e gliela posi “Hai vinto”.
La prese e la infilò nel reggiseno, passando dallo scollo del vestitino.
“Mi sei simpatico, ti va di far due chiacchiere tra un’ora, quando avrò finito qui, vicino quella roulotte laggiù?”
Avevo vinto io.
A questo punto un bravo giocatore avrebbe riconosciuto che era il momento di ritirarsi, se ne sarebbe andato, con la soddisfazione morale in tasca, senza voler strafare, ma io non ero e non sarò mai un animo contenuto, detto in termini odierni sono un ludopatico.
A quell’età non avevo mai visto una fica dal vivo, non ne conoscevo l’odore, non ipotizzavo nemmeno che qualcuna potesse mostrarmela, non ero pronto a nulla, eppure, dopo un’ora, mi presentai.
Ricordo come fosse ora quel piccolo tragitto nella penombra, i fruscii attorno che mi portavano a girarmi di scatto, palesando la mia paura, le voci che correvano tra quelle baracche, in una lingua incomprensibile, il senso di colpa pensando a mia madre, il bisogno di adrenalina che comandava i miei passi.
Era seduta sotto la piccola veranda di quel caravan, mi fece cenno di sedermi, osservando che aveva i piedi nudi, posai il culo accanto al suo.
“Avrei scommesso che non saresti venuto qui, sei coraggioso, vediamo quanto” mi consegnò un nastro adesivo “i cinquantamila lire sono strappati, io ho vinto soldi integri, dovresti sistemarli con questo”.
Ci misi qualche secondo ad afferrare il concetto che avrei dovuto infilare la mano nel suo petto per recuperare la banconota, la cosa era per me talmente inverosimile da inibirmi addirittura l’imbarazzo.
Mille pensieri accompagnarono la mia mano dentro la sua scollatura: perché era così disinvolta? Perché non c’era più nessuno in giro? Perché taceva l’intero insediamento? Il suo seno zittì ogni domanda, era l’opposto di quello di mia madre, piccolo, con un capezzolo rigido e sporgente.
Cercai il denaro, provando a palpare il meno possibile, ma non c’era, l’unica cosa che comparve fu la mia erezione sotto i pantaloni leggeri, seguita dal sorriso della gitana.
Verificai anche l’altra tetta, insolente, invano.
Non riuscivo a godere davvero del momento, sentivo che dovevo sopravvivere per raccontarlo agli amici il giorno dopo, un po’ tremavo ma gli ormoni viaggiavano per conto loro, scollegati dalla mia mente, se mi avesse solo sfiorato sarei venuto nei calzoni.
“Che sbadata, li avevo poi messi nelle mutande” con disinvoltura alzò la larga gonna dell’indumento, abbassò un po’ l’intimo nero, afferrò quel maledetto pezzo di carta e me lo porse, ricomponendosi, ma solo dopo avermi lasciato il tempo necessario per vedere il pelo scuro della sua figa.
Quella sera la vita mi fece diventare più grande, la vista era annebbiata, ricordo che il mio corpo voleva venire, non potevo controllarmi, la natura non mi permetteva di giocare ad armi pari, volevo correre a casa a segarmi, lei se ne accorse e si mise inginocchiata tra le mie gambe abbassandomi lentamente il pantalone.
Trascinò verso il basso anche l’elastico dell’intimo, il mio sesso era così teso e duro che, liberandosi, sbatté con violenza contro l’inguine, sentii una sua mano avvolgere delicata i miei testicoli di ragazzino mentre l’altra impugnò l’asta all’altezza quasi del glande.
Feci l’errore di guardar giù, come osservare il baratro di una scogliera per chi soffre di vertigini, e vidi il suo viso avvicinarsi al mio cazzo, i suoi occhi azzurri rubarmi l’anima proprio mentre la sua mano, stringendo, scendeva, scappellandomi senza pietà.
Non saprò mai se me l’avrebbe preso in bocca. Bastò quell’unico movimento, mescolato al suo sguardo, per farmi eiaculare come mai più mi sarebbe accaduto. Non posso dire con certezza il numero degli schizzi, quanti sul suo viso, quanti sulla polvere di quel luogo senza tempo.
Non riparai mai quella banconota con lo scotch, lei non mi pulì, lo ripose diligentemente nelle mie mutande, passò la sua mano insozzata sul vestito. Quando il batticuore mi permise di tornare in me, mi accorsi che non aveva smesso di guardami negli occhi.
Non mi baciò, non mi accarezzò, non mi abbracciò, non si perse in inutili chiacchiere che avrei tanto desiderato. Si alzò e mi disse “domani la fiera finisce e torniamo al campo rom di Poviglio, dai vieni a trovarmi là, domenica prossima, entri e chiedi di me, io sono Catalina, ora torno dentro prima che si accorgano che sono qui con te.” Mi sorrise e sparì nella casa su ruote.
Tornai a casa a passo veloce, con sensazioni contrastanti, effervescente ma inadeguato, felice e triste allo stesso tempo, cambiai le mutande fradice e andai a letto, non dormii, passai la notte a riflettere.
Dopo ore insonni trassi la conclusione che avevo scherzato col fuoco, mi ero infatuato di quella vagabonda, ma non ero all’altezza per reggere quella conoscenza; se solo fossi stato più grande, con più esperienza, magari con la patente, se lei non fosse stata una sconosciuta rom indecifrabile, non potevo dire ai miei che avevo in mente di andare in un campo nomadi a corteggiare una di loro.
Nel 1996 non era diffuso internet, l’unico modo per reperire una persona era andare a trovarla o chiamarla sul telefono fisso di casa, che, per ovvie ragioni, quasi nessuno dava ai primi appuntamenti. Quelli di voi, nati dopo il 1985, non potranno capire cosa significava ciò, gli altri invece sanno benissimo cosa intendo.
Decisi di lasciar perdere, la avrei dimenticata.
Ma arrivò la domenica, accesi il mio scooter e partii per Poviglio.
Cinquanta chilometri erano una bella distanza, percorsi tutti con l’acceleratore al massimo, il vento sulla magliettina bianca, la sensazione che fosse la missione della vita, lo scopo dell’esistenza, il giorno dei giorni, quello che nessuno potrebbe capire perché troppo sconfinato per le loro menti timorate di Dio.
Chiesi informazioni in un bar, non c’erano i navigatori. Due anziani che giocavano a carte al tavolino mi dissero in dialetto di non andare, che era meglio star lontano da quel posto.
Proseguii, tra i campi della pianura padana, lontano dalla civiltà, arrivai di fronte l’ingresso, era una giornata molto calda, sembrava un luogo abbandonato, sia fuori che dentro. Non c’era un filo d’erba verde, solo siccità e desolazione.
Scesi dal motorino, avevo una paura fottuta, mi accorsi per la prima volta che avevo un limite, anche se non volevo accettarlo. Quel posto mi ricordava il “per me si va ne la città dolente”, l’ingresso dell’Inferno.
Tergiversavo, cercavo di sbirciare, quando due slavi mi videro e si avvicinarono con passo irrequieto, mi sembrò che avessero addirittura un bastone in mano.
Montai rapidamente sullo scooter e fuggii.
La storia finisce qui, senza un happy end, ma solo con altri cinquanta chilometri di lamento e lacrime, fino al mio tranquillo paese in collina.
La vita andò avanti, in apparenza la dimenticai, per anni archiviai quell’esperienza come un folle innocuo momento di spensieratezza fanciullesca.
La realtà?
In questi anni ho sfogliato su google immagini di zingare, ho fatto una marea di viaggi all’est, girovagato in lungo e in largo per la Romania, dalla Transilvania alla Valacchia, dalla Dobrugia alla Moldavia, mi son anche addentrato nei luoghi più pericolosi, per tentare di esorcizzare il rimpianto di non esser riuscito a varcare quella linea in quel pomeriggio d’estate.
Fino al giorno in cui mi innamorai per la prima e ultima volta.
Qualche anno fa, proprio nel momento in cui feci ancora l’errore di guardare giù, incrociando gli occhi azzurri di quella ragazza dall’anima nomade, mentre la sua bocca si avvicinava al mio glande.
Non era Catalina, ma il profondo delle sue pupille mi restituì quello che mi era stato sottratto venticinque anni prima.
Entrare al calar del sole in quella bolla di colori e suoni mi estasiava, cercavo di rimanervi fino a tarda ora, quando le famiglie rientravano e il senso di pericolo aumentava; star lontano dagli zingari era sempre stato il più frequente avvertimento che ricevevo dai miei.
Avevo tante passioni proibite: far esplodere potenti petardi a cavallo del capodanno, accendere fuochi nei campi, salire in moto col mio amico più grande, saltare la scuola, telefonare a tv locali che facevano televendite per fare loro scherzi in diretta, cose così.
Come tutti i ragazzini andavo ai baracconi, ma a differenza degli altri, mi piaceva andarci da solo.
Una sera accadde quello che prima o poi succede a tutti: una passione improvvisamente spazzò via tutte le altre, il misfatto avvenne proprio lì, in quel mondo che odorava di dolciumi, reganissi e zucchero filato.
La giostra dei cavalli girava più lenta dell’universo, un nano faceva piroettare palline di spugna, l’uomo forzuto invitava a confrontarsi con lui colpendo con un chiodo con un martello, riuscii a resistere anche al richiamo della tenda della chiromante ma i miei passi si fermarono in corrispondenza di una baracca.
Un ragazzino stava sparando proiettili in gomma contro una pila di barattoli in latta, posti nella consueta posizione piramidale. Gestiva quella semplice attrazione una zingara che avrà avuto la mia età: lunghi capelli castano scuri, occhi chiari; un abitino floreale, leggero e svolazzante fino alle caviglie, mostrava una costituzione asciutta e la pelle che dava l’idea di non esser stata lavata da settimane. Ricordo che mi guardò proprio mentre il colpo sparato dal giovinetto abbatteva il bersaglio, in quel momento non furono solo quelle lattine a rovinare fragorosamente al suolo, qualcosa dentro me venne colpito e segnato per sempre.
Folgorato, osservai quella giovane nomade consegnare al cecchino il peluche appena vinto quando la sua voce mi parlò per la prima volta; dovette insistere, poiché al primo tentativo non mi resi conto che stesse chiamando proprio me. Non le servì sventolare alcun fazzoletto soporifero, ero già irrimediabilmente preda del suo magnetismo.
Caricava il fucile in plastica per propormi di giocare, non ebbi altra possibilità che accettare; se tornassi un milione di volte a quel momento accetterei ogni volta, anche ora che a quarant’anni dovrei essere maturo e coscienzioso.
Guardai quelle scaltre e rapide mani, chissà quanti oggetti avevano rubato, quante serrature scassinato, quante insidiose situazioni sgarbugliato. Mi porse l’arma, pagai e impugnai per prendere la mira.
Già ai tempi non gradivo perdere, non potevo permettermi di mancare il colpo, soprattutto non davanti ai suoi occhi, dovevo inventare rapidamente qualcosa, un escamotage che mi togliesse da quello status di un qualsiasi ingenuo e stupido avventore.
Cambiai di colpo direzione di tiro e sparai ai peluches, abbattendone qualcuno.
“Non volevo vincere uno di quei pupazzi, mi stanno antipatici, volevo solo stenderli.”
Ci mettemmo a ridere insieme, mi disse che si era spaventata, che per un attimo temeva che avrei sparato anche a lei.
L’avevo sorpresa e intimorita, per la prima volta mi sentivo un piccolo adulto brillante.
Anche adesso, raccontando di me, rivedo comportamenti che tuttora fatico a gestire: mi feci prendere dall’entusiasmo.
Proposi io il gioco successivo, doveva essere un’esca superiore perché ad abboccare non c’era un pesciolino qualunque ma, teoricamente,la più inafferrabile delle volpi.
Estrassi dal portafoglio una banconota di grosso taglio, avevo solo quella ma ormai ero in ballo, le dissi di invertire i ruoli, venire da questa parte del bancone, io avrei tenuto con una mano sospesa in aria la banconota e lei avrebbe sparato, se fosse riuscita a centrarla sarebbe stata sua.
Si guardò attorno come per verificare che nessun parente la stesse vedendo e accettò.
Mi ritrovai col braccio sinistro teso ad angolo retto rispetto al mio torace e nella mano quel foglio rosso con raffigurato il Bernini. Ci guardammo negli occhi, sapevamo entrambi che se avesse colpito la mano mi avrebbe causato un po’ di dolore, sapevamo che lei voleva quei soldi, sapevamo che qualcosa in quel luna park stava uscendo da un normale corso degli eventi.
Speravo dentro me che facesse centro, di perdere il gioco, lo scopo non era vincere ma infilare un cazzo di tarlo in quella mente volubile.
Prese la mira, aveva sei proiettili a disposizione, sei fottuti cilindri di gomma dura che avrebbe indirizzato verso la mia incoscienza.
Premette il grilletto sei volte consecutivamente, istintivamente chiusi gli occhi, già la prima pallottola di quella raffica impattò sulla carta che si lacerò, poi giunse il secondo, il terzo e gli altri, io gridai di dolore tenendomi con la sinistra la mano destra, contorcendomi chinato sul pavimento, lei scavalcò agilmente il bancone, si chinò verso me quasi preoccupata, io alzai il viso sorridente mostrandole la mano intatta e terminando la mia piccola recita.
“Cretino” la risposta di lei,
raccolsi la banconota e gliela posi “Hai vinto”.
La prese e la infilò nel reggiseno, passando dallo scollo del vestitino.
“Mi sei simpatico, ti va di far due chiacchiere tra un’ora, quando avrò finito qui, vicino quella roulotte laggiù?”
Avevo vinto io.
A questo punto un bravo giocatore avrebbe riconosciuto che era il momento di ritirarsi, se ne sarebbe andato, con la soddisfazione morale in tasca, senza voler strafare, ma io non ero e non sarò mai un animo contenuto, detto in termini odierni sono un ludopatico.
A quell’età non avevo mai visto una fica dal vivo, non ne conoscevo l’odore, non ipotizzavo nemmeno che qualcuna potesse mostrarmela, non ero pronto a nulla, eppure, dopo un’ora, mi presentai.
Ricordo come fosse ora quel piccolo tragitto nella penombra, i fruscii attorno che mi portavano a girarmi di scatto, palesando la mia paura, le voci che correvano tra quelle baracche, in una lingua incomprensibile, il senso di colpa pensando a mia madre, il bisogno di adrenalina che comandava i miei passi.
Era seduta sotto la piccola veranda di quel caravan, mi fece cenno di sedermi, osservando che aveva i piedi nudi, posai il culo accanto al suo.
“Avrei scommesso che non saresti venuto qui, sei coraggioso, vediamo quanto” mi consegnò un nastro adesivo “i cinquantamila lire sono strappati, io ho vinto soldi integri, dovresti sistemarli con questo”.
Ci misi qualche secondo ad afferrare il concetto che avrei dovuto infilare la mano nel suo petto per recuperare la banconota, la cosa era per me talmente inverosimile da inibirmi addirittura l’imbarazzo.
Mille pensieri accompagnarono la mia mano dentro la sua scollatura: perché era così disinvolta? Perché non c’era più nessuno in giro? Perché taceva l’intero insediamento? Il suo seno zittì ogni domanda, era l’opposto di quello di mia madre, piccolo, con un capezzolo rigido e sporgente.
Cercai il denaro, provando a palpare il meno possibile, ma non c’era, l’unica cosa che comparve fu la mia erezione sotto i pantaloni leggeri, seguita dal sorriso della gitana.
Verificai anche l’altra tetta, insolente, invano.
Non riuscivo a godere davvero del momento, sentivo che dovevo sopravvivere per raccontarlo agli amici il giorno dopo, un po’ tremavo ma gli ormoni viaggiavano per conto loro, scollegati dalla mia mente, se mi avesse solo sfiorato sarei venuto nei calzoni.
“Che sbadata, li avevo poi messi nelle mutande” con disinvoltura alzò la larga gonna dell’indumento, abbassò un po’ l’intimo nero, afferrò quel maledetto pezzo di carta e me lo porse, ricomponendosi, ma solo dopo avermi lasciato il tempo necessario per vedere il pelo scuro della sua figa.
Quella sera la vita mi fece diventare più grande, la vista era annebbiata, ricordo che il mio corpo voleva venire, non potevo controllarmi, la natura non mi permetteva di giocare ad armi pari, volevo correre a casa a segarmi, lei se ne accorse e si mise inginocchiata tra le mie gambe abbassandomi lentamente il pantalone.
Trascinò verso il basso anche l’elastico dell’intimo, il mio sesso era così teso e duro che, liberandosi, sbatté con violenza contro l’inguine, sentii una sua mano avvolgere delicata i miei testicoli di ragazzino mentre l’altra impugnò l’asta all’altezza quasi del glande.
Feci l’errore di guardar giù, come osservare il baratro di una scogliera per chi soffre di vertigini, e vidi il suo viso avvicinarsi al mio cazzo, i suoi occhi azzurri rubarmi l’anima proprio mentre la sua mano, stringendo, scendeva, scappellandomi senza pietà.
Non saprò mai se me l’avrebbe preso in bocca. Bastò quell’unico movimento, mescolato al suo sguardo, per farmi eiaculare come mai più mi sarebbe accaduto. Non posso dire con certezza il numero degli schizzi, quanti sul suo viso, quanti sulla polvere di quel luogo senza tempo.
Non riparai mai quella banconota con lo scotch, lei non mi pulì, lo ripose diligentemente nelle mie mutande, passò la sua mano insozzata sul vestito. Quando il batticuore mi permise di tornare in me, mi accorsi che non aveva smesso di guardami negli occhi.
Non mi baciò, non mi accarezzò, non mi abbracciò, non si perse in inutili chiacchiere che avrei tanto desiderato. Si alzò e mi disse “domani la fiera finisce e torniamo al campo rom di Poviglio, dai vieni a trovarmi là, domenica prossima, entri e chiedi di me, io sono Catalina, ora torno dentro prima che si accorgano che sono qui con te.” Mi sorrise e sparì nella casa su ruote.
Tornai a casa a passo veloce, con sensazioni contrastanti, effervescente ma inadeguato, felice e triste allo stesso tempo, cambiai le mutande fradice e andai a letto, non dormii, passai la notte a riflettere.
Dopo ore insonni trassi la conclusione che avevo scherzato col fuoco, mi ero infatuato di quella vagabonda, ma non ero all’altezza per reggere quella conoscenza; se solo fossi stato più grande, con più esperienza, magari con la patente, se lei non fosse stata una sconosciuta rom indecifrabile, non potevo dire ai miei che avevo in mente di andare in un campo nomadi a corteggiare una di loro.
Nel 1996 non era diffuso internet, l’unico modo per reperire una persona era andare a trovarla o chiamarla sul telefono fisso di casa, che, per ovvie ragioni, quasi nessuno dava ai primi appuntamenti. Quelli di voi, nati dopo il 1985, non potranno capire cosa significava ciò, gli altri invece sanno benissimo cosa intendo.
Decisi di lasciar perdere, la avrei dimenticata.
Ma arrivò la domenica, accesi il mio scooter e partii per Poviglio.
Cinquanta chilometri erano una bella distanza, percorsi tutti con l’acceleratore al massimo, il vento sulla magliettina bianca, la sensazione che fosse la missione della vita, lo scopo dell’esistenza, il giorno dei giorni, quello che nessuno potrebbe capire perché troppo sconfinato per le loro menti timorate di Dio.
Chiesi informazioni in un bar, non c’erano i navigatori. Due anziani che giocavano a carte al tavolino mi dissero in dialetto di non andare, che era meglio star lontano da quel posto.
Proseguii, tra i campi della pianura padana, lontano dalla civiltà, arrivai di fronte l’ingresso, era una giornata molto calda, sembrava un luogo abbandonato, sia fuori che dentro. Non c’era un filo d’erba verde, solo siccità e desolazione.
Scesi dal motorino, avevo una paura fottuta, mi accorsi per la prima volta che avevo un limite, anche se non volevo accettarlo. Quel posto mi ricordava il “per me si va ne la città dolente”, l’ingresso dell’Inferno.
Tergiversavo, cercavo di sbirciare, quando due slavi mi videro e si avvicinarono con passo irrequieto, mi sembrò che avessero addirittura un bastone in mano.
Montai rapidamente sullo scooter e fuggii.
La storia finisce qui, senza un happy end, ma solo con altri cinquanta chilometri di lamento e lacrime, fino al mio tranquillo paese in collina.
La vita andò avanti, in apparenza la dimenticai, per anni archiviai quell’esperienza come un folle innocuo momento di spensieratezza fanciullesca.
La realtà?
In questi anni ho sfogliato su google immagini di zingare, ho fatto una marea di viaggi all’est, girovagato in lungo e in largo per la Romania, dalla Transilvania alla Valacchia, dalla Dobrugia alla Moldavia, mi son anche addentrato nei luoghi più pericolosi, per tentare di esorcizzare il rimpianto di non esser riuscito a varcare quella linea in quel pomeriggio d’estate.
Fino al giorno in cui mi innamorai per la prima e ultima volta.
Qualche anno fa, proprio nel momento in cui feci ancora l’errore di guardare giù, incrociando gli occhi azzurri di quella ragazza dall’anima nomade, mentre la sua bocca si avvicinava al mio glande.
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