Scavarsi dentro

di
genere
etero

E così ti portai tra le vestigia di un’antica città romana di piccole dimensioni, Veleia Romana.
Non siamo qui per turismo, ma perché da sempre ho un richiamo per questo luogo; ne conosco l’esistenza da anni ma nulla mi ha mai esortato a raggiungerlo, nulla prima di te.
Mi osservi aprire il baule ed estrarre un metal detector, ti accorgi a prima vista che è un modello avanzato, capace di scandagliare ad elevate profondità e tracciare su un monitor un profilo tridimensionale dell’oggetto captato. Questo per riconoscere ed evitare tappi di bottiglia, chiodi e altre cianfrusaglie di poco valore.
Ebbene sì, è vietato quello che stiamo per fare, non si possono praticare ricerche di questo tipo, a maggior ragione in questa zona, ma adoro condividere momenti squisitamente illegali con te.
Il sole sta tramontando su queste colline disperse nell’Appennino di Piacenza, ti prendo la mano, seguimi, accendiamo lo strumento, osserviamo insieme cosa ci mostrerà quel display, cerca con me.
Il bip elettronico, che sporadicamente suona, ci fa sentire ancor più isolati, con noi stessi, in un salto nel tempo e nello spazio. Compaiono linguette di lattine, pezzi accartocciati di alluminio, camminiamo, non parliamo, quando improvvisamente una sagoma si delinea.
A cinquanta centimetri di profondità riposano da secoli due oggetti circolari, vicini, sembrerebbero monete. Estraggo due piccole vanghe dal marsupio e iniziamo a scavare insieme, presi da una frenesia comune, una smania di riportare alla luce quegli oggetti misteriosi.
In certi momenti spostiamo entusiasticamente la terra smossa a mani nude, ci tocchiamo inevitabilmente le dita nel farlo, alziamo gli sguardi, siamo vicinissimi, i respiri si attorcigliano, il cuore ci batte, come se stessimo per compiere chissà quale impresa.
La terra pulsa, un’energia indescrivibile risale attraverso le nostre unghie, non possiamo contenerci, ci baciamo, un bacio lungo duemila anni in sette secondi, io e te, inginocchiati, nel luogo apparentemente più insignificante e desolato del mondo, a cercarci l’anima in bocca, come forsennati.
Ci stacchiamo, ci guardiamo con sguardi persi e complici, inspiriamo rimettendoci al lavoro, mancano pochi centimetri.
Scorgiamo un luccichio, ci guardiamo attorno, sembra non esserci nessuno, con più grazia rovistiamo attorno e riesumiamo i due oggetti. Sono appiccicati, uno sopra l’altro, dal posizionamento, molto preciso, deduciamo che devono esser stati sepolti volutamente; ma da chi?
Pulendoli dal terreno scopriamo che sono ben conservati perché fatti in oro, non sono due monete.

Sono due ciondoli.

Un brivido attraversa il tempo, uno è ora tra le tue mani, uno nelle mie. Ci guardiamo. Qui, in questo stesso posto dove, due millenni fa, un me e una te hanno messo al sicuro la loro passione.
Fuggiamo elettrizzati, abbiamo troppa fretta di guardarli attentamente; chiediamo riparo alla prima locanda semi abbandonata, saliamo in camera, le mani sotto il rubinetto dell’acqua, eccoli, in uno compare un viso maschile con elmo, nell’altro una fanciulla in piedi con un velo a coprirle il corpo.
Hanno il foro abbastanza largo da permettere di utilizzare le nostre catenine, con tremore ce li mettiamo a vicenda, ci spogliamo del resto, anche stanotte le nubi si illuminano ripetutamente, son steso sopra te, il viso con l’elmo penzola verso la tua bocca, lasci che dondoli sulle tue labbra giochicchiandoci con la lingua mentre la mia mano fruga fra le tue cosce, poi la donna col velo, pende dal tuo collo sfiorando maliziosa il mio sesso, la tua bocca è poco più su, scendi, sento il contrasto tra l’oro gelido che accarezza i miei testicoli e il calore del tuo palato che si impossessa di me.
La tua mano sale verso il mio petto, tocca il mio ciondolo, la mia raggiunge il tuo, lo impugno per tenerti al collare mentre soffochi nei miei piaceri.
Ti giro, appoggio il petto alla tua schiena, ti penetro e ti masturbo lentamente, la mia catena è più lunga, il mio pendente scende lungo la tua spalla e raggiunge il tuo, iniziano a sbattere, tintinnare, al ritmo del nostro amplesso, che riecheggia, stanotte, dopo duemila anni.
scritto il
2022-07-05
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